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OPERE
DI
IV I
VINCENZO MONTI
Tomo II.
TIP. BERJIÀRDONI.
POEMETTI
VmCENZO MONTI
MILASO
PRESSO GIOVANNI RESNiTI
INDICE
DKtUS COSE CONTKNUTE IfEL SECONDO TOLUBOC.
Ld Bmilbzza dell* Unifebso. Canto Pag. i
Jl Pellegrino Apostolico^ Foemett» ,.«...» i5
Canto primo • m 17
Canto secondo. • m a5
In MonrE m Uno BAssritLE. Cantica ..«••« 3i
Canto I. M 33
Canto n • • . «• 4x
Canto III » 49
Canto IV . • M 59
Note alla BassTÌlliana • "7'
Ayyertimento dell'Editore. m ^a
Kagion delle Note • •.«•73
Notiùe atoriche .•.••; ^11
Note al Canto 1 9» 80
Note al Canto II «• 96
Note al Canto III m in
Note al Canto lY m 134
▼I
Là MusoGoirrj Pag. lay
Avvertimeiito premesso airedizione di Venezia del 1 797 . *• i ag
La Musogonia. Canto >> i3i
«
Varianti della Musogonia, tratte dalla stampa incomin-
ciata in Roma per Luigi Perego Salvioni nel 1793, in-8. n i5i
Note alla Musogonia » i63
Il Prometeo m 181
Al cittadino Napoleone Bonaparte comandante supremo
dell'armata Italiana » i83
Prefazione non inutile m i85
• Canto primo • . . «; . . . . ' . . . . . . » 193
Canto secondo m ai8
' Camo terzo- / 1 . ' . >» ^43
Canto quarto (frammento inedito) »> a58
Varianti del Prometeo, tolte jlaU'edizipne di, Milano» presso
la Società degli Editori degli Annali Universali delle
Scienze e. dell' Industria , i832 » 261
In morte 'di' Lorenzo MjscberOni. Cantica \ . . m 271
Avvertin^ento dell' AqtorjC premesso all'edizione milanese
dell'agno. i9oi» , »» aj3
. Canto^ primo « m 375
Canto secondo »» 282
Canto terzo >» 290
Canto quarto •*.*...•... » 298
Canto quinto ....,.•...,....« 5o8
Variante del Canto quarto . . w3i6
Note al Canto primo • *» 32i
Note al Canto terzo » 322
Note al Canto quarto « » 323
▼Il
Il Baudo della Selva Nera, Poema Pag. 3a5
Alla M. I. e R. di Napoleone il Grande . • . . m 327
Canto I. I vaticinj » 33i
Cauto II. Il ferito in Albecco m 34o
Canto III. La presa di Ulma >» 35o
Canto IV. Il riposo m 358
Canto y. La spedizione d'Egitto m 369
Canto VI. Il ziz Brumaire » 384
Frammenti della Parte II del Bardo della Selya Nera,
pubblicati dopo la morte dell'Autore m 399
Avvertimento dell'Editore •* 400
Canto Vn. La pietà filiale m 401
Canto Vili «412
La Spada dì Federico II re di Prussia, Ottatfe . m 4i5
La Paungenesi Politica. Canto m 427
Note alla Palingenesi politica m 44^
La Feroniade h 449
Avvertimento dell'Editore m 45i
Canto I » 453
Canto n y M 476
Canto III M 491
Frammenti inediti della Feroniade : . m 509
Note alla Feroniade m 5i3
Avvertimento dell'Editore m5i4
Note al Canto I *» 5i5
Note al Canto II » 53o
Note al Canto III - 538
Frammento d'una Visione «• 547
Ebbo» («)
COBBBZIONI.
Pafp, i32 verto a4 ingombra
M
»
i34
i56
336
377
389
«9
» 447 l^n*
ai Amor
19 Anfitrione
a tocchi
34 a dalle chiome
a3 litologo
19 inbriglia
i3 Pag. 436.
n 467 verso i5 ministro >
9» 48 1 *' 9 costrette.
ingombra.
Amor,
Amfitrione
tocchi;
e dalle chiome
Ittiologo
imbriglia
Pao. 434
ministro
costrette ;
(*) Questi lieri trrori traiconero mIo in akiioi oMoiplarì.
LA BELLEZZA
DELL'UNIVERSO
MoHTi. Poemetti,
ARGOMENTO
V cràim mirabile y onde risulta la bellexx^ deltUnAferso
fisico^ è il pruno oggetto del Canto , che scende poi a con-
siderarla neUe waie parti della Creaxione e nei varj acci-
denti della Natura, Si trattiene sultuomOy che n^è la sede
princqfale. Dopo averla descritta neWestemo deUe sue mem-
hra^ fa una digressione sulla beUexxa deltanóna. V osserva
quùtdi nelle varie arti étùmtaxpne^ le quali avendo per og^
getto il Bello relativamente alt occhio^ alt orecchio e altim-
maginaxionej si dicono belle Arti. Di qui prende motóso di pas-
sare al bosco Parrasio, luogo sacro alle Muse^ ove questo
Canto fu recitato in occasione che gli Arcadi si erano colà
radunati per festeggiare le Noxx,^ del Duca Luigi Braschi
Onesti con Donna Costanza Falconièri. Si accennano dopo
gli effetti del Tempo in dafmo della BeUexxa^ e finisce con
una breve r^ssione su la beUexxa incorruttibile della Firtà,
LÀ
BELLEZZA DELL'UNIVERSO
CANTO
Della mente di Dio candida figlia,
Prima d'Amor germana , e di Natura
Amabile compagna e maraviglia,
Madre de' dolci affetti, e dolce cara
Dell' nom, che varca pellegrino errante
Questa valle d' esilio e di sciagura,
Vuoi tu, diva Bellezza, un risonante
Udir inno di lode, e nel mio petto
Un raggio tramandar del tuo sembiante 7
Senza la luce tua l'egro intelletto
Langue oscurato, e i miei pensier sen vanno
Smarriti in faccia al nobile subbietto.
Ma qual principio al canto, o Dea, daranno
Le Muse? e dove mai degne parole
Dell'origine tua trovar potranno f
Stavasi ancora la terrestre mole
Del Caos sepolta nell'abisso informe,
E sepolti con lei la Luna e il Sole^
E tu del sommo Facitor su l' orme
Spanando, con esso preparavi
Di questo Mondo l'ordine e le forme.
Vera l'eterna Sapienza, e i gravi
Suoi pensier ti venia manifestando
Stretta in santi d'amor nodi soavi.
LA BELLEZZA
Teco scorrea per Plnfinito^ e quando
Dalle cupe del Nulla ombre ritrose
L^ onnipossente creator comando
Uscir fé tutte le mondane cose ,
E al guerreggiar degli elementi infesti
Silenzio e calma inaspettata impose^
Tu con essa alla grande opra scendesti,
E con possente man del furibondo
Caos le tenebre indietro respingesti,
Che con muggito orribile e profondo
Là del Creato su le rive estreme
S^odon le mura flagellar del Mondo 3
Simili a un mar che per burrasca freme,
E , sdegnando il confine , le bollenti
Onde solleva, e il lido assorbe e preme.
Poi ministra di luce e di portenti,
Del ciel volando pei deserti campi,
Seminasti di stelle i firmamenti.
Tu coronasti di sereni lampi
Al Sol la fronte^ e per te awien che il crine
Delle comete rubiconde avvampi^
Che agli occhi di quaggiù, spogliate alfine
Del reo presagio di feral fortuna,
Invian fiamme innocenti e porporine.
Di tante faci alla silente e bruna
Notte trapunse la tua mano il lembo,
E un don le festi della bianca Luna^
E di rose all^Àurora empiesti il grembo,
Che poi sovra i sopiti egri mortali
Piovon di pei*le rugiadose un nembo.
Quindi alla terra indirizzasti Tali,
Ed ebber dal poter de^tuoi splendori
Vita le cose inanimate e frali.
Tumide allor di nutritivi umori
Si fecondar le glebe, e si fér manto
Di molli erbette e d^ olezzanti fiori.
AUor, degli occhi lusingliiero incanto,
Crebber le chiome ai boschi^ e gli arbusceUi
Grato stillar dalle cortecce il pianto;
AUor dal monte corsero i ruscelli
Mormorando ) e la florida riviera
Lambir fireschi e scherzosi i venticelli.
Tutta del suo bel manto Primavera
Copria la terra; ma la vasta idea
Del gran Fabbro compita ancor non era.
Di sua vaghezza inutile parca
Lagnarsi il suolo; e con più bel desiro
Sguardo e amor di viventi alme attendea.
Tu allor raggiante d^'un sorriso in giro
Dei quattro venti su le penne tese
L^amra mandasti del divino Spiro.
La terra in sen raccolse e la comprese ^
E un dolce movimento, un brividio
Serpeggiar per le viscere s^ intese;
Onde un fremito diede, e concepfo;
E il suol, che tutto già s^ ingrossa e figlia,
La brulicante superficie aprio.
Dalle gravide glebe, oh maraviglia!
Fuori allor si lanciò scherzante e presta
La vaga delle belve ampia famiglia*
Ecco dal suolo liberar la testa,
Scuoter le giubbe, e tutto uscir d^un salto
n biondo imperator della foresta :
Ecco la tigre e il leopardo in alto
Spiccarsi fuora della rotta bica,
E fuggir nelle selve a salto a salto.
Vedi ^otto la zoUa, che F implica.
Divincolarsi il bue, che pigro e lento
Isviluppa le gran membra a fatica.
Vedi pien di magnanimo ardimento
Sovra i piedi balzar ritto il destriero ,
E nitrendo sfidar nel corso il vento;
8 Là BELLEZZA
Indi il Cerro ramoso, ed il leggiero
Daino fiigaee, e mille altri animanti,
Qual mansueto, e qual ritroso e fiero.
Altri per valli e per campagne erranti,
Altri di tane abitator crudeli,
Altri dell^uomo difensori € amanti.
■
E lor di macchia differente i peli
Tu di tua mano dipingesti, o Diva,
Con quella mano che dipinse i cieli.
Poi de^ color più Vaghi, onde Festiva
Stagion delle campagne orna P aspetto,
E de^fireschi ruscei smalta la riva,
L^ale spruzzasti al vagabondo insetto,
E le lubriche anella serpentine
Del più caduco vermicciuol nej^etto.
Né qui ponesti all^opra tua confine^
Ma vie più innanzi la mirabil traccia
Stender ti piacque dell^idee divine.
Cinta adunque di calma e di bonaccia
Delle marine interminabil^ onde
Lanciasti un guardo su Inazzurra faccia.
Penetrò nelle cupe acque profonde
Quel guardo, e con bollor grato Natura
Intiepidille, e diventar feconde^
E tosto varj d^ indole e figura
Guizzaro i pesci , e fin dall^ ime arene
Tutta inc3resp&r la liquida pianura.
I delfin snelli coUe curve schiene
Uscir danzando j e mezzo il mar coprirò
Col vastissimo ventre orche e balene.
Fin gli scogli e le sirti allor sentirò
Il vigor di quel guardo e la dolcezza,
E di coralli e d^erbe si vestirò.
Ma che? Non son, non sono, alma Bellezza,
Il mar, le belve, le campagne, i fonti
11 sol teatro della tua grandezza:
dell' unttbiiso
Anche sul dorso dei petrosi monti
Talor t^ assidi maestosa, e rendi
Belle deU^alpi le nevose fronti:
Talor sul giogo abbrustolato ascendi
Del fumante Etna, e nell'orribil veste
Delle sue 6amme ti ravvolgi e splendi.
Tu del nero aquilon su le funeste
Ale per V aria alteramente vieni ,
E passeggi sul dorso alle tempeste:
Ivi spesso d'orror gli occhi sereni
Ti copri, e mille intomo al capo accenso
Rugghiano i tuoni, e strisciano i baleni.
Ma sotto il vel di tenebror sì denso
Non ti scorge del vulgo il debil lume.
Che si confonde nell^ error del senso.
Sol ti ravvisa di Sofia Paciune,
Che nelle sedi di Natura ascose
Ardita spinge del pensier le piume.
Nel danzar delle stelle armoniose
Ella ti vede, e nell'occulto amore
Che informa e attragge le create cose.
Te ricerca con occhio indagatore ,
Di botaniche armato acute lenti,
Nelle fibre or d^un^erba ed or d'un fiore:
Te dei corpi mirar negli elementi
Sogliono al gorgogUo d'acre vasello
I Chimici curvati e pazienti.
Ma più le tracce del divin tuo bello
Discopre la spaxtita Anatomia
Allorché armata di sottil coltello
I cadaveri incide, e l' armonia
Delle membra rivela, e il penetrale
Di nostra vita attentamente spia.
O uomo , o del divin dito immortale
Ineffid>il lavor, forma, e ricetto
Di spirto e polve moribonda e frale,
IO LÀ BELLEZZA
Glii può cantar le tue bellezze ? ÀI petto
Manca la lena^ e il yerso non ascende
«Tanto, che arrivi all^alto mio concetto.
Fronte che g^aarda il cielo, e al cielo tende ^
Chioma che sopra gli omeri cadente
Or bionda, or bruna il capo orna e difende^
Occhio, dell^alma interprete eloquente,
Senza cui non avrìa dardi e faretra
Amor, né Tali, né la face ardente^
Bocca dond^ esce il riso che penetra
Dentro i cuori, e T accento si disserra,
Ch^or severo comanda, or dolce impetra;
Mano che tutto sente e tutto afferra,
E nell^arti incallisce, e ardita e pronta
Gittadi innalza, e opposti monti atterra;
Piede, su cui Puman tronco si ponta,
E parte e riede, e or ratto ed or restio
Varca pianure, e gioghi aspri sormonta;
E tutta la persona entro il cuor mio
La maraviglia piove, e mi favella
Di quell^ alto Saper che la compio.
Taccion d^amor rapiti intomo ad ella
La terra, il cielo; ed: Io son io, v'é sculto,
Delle create cose la più bella.
Ma qual nuovo d^idee dolce tumulto!
Qual raggio amico delle membra or viene
À rischiararmi il laberinto occulto?
Veggo muscoli ed ossa, e nervi e vene,
Veggo il sangue e le fibre, onde s^ alterna
Quel moto che la vita urta e mantiene;
Ma nei legami della salma intema.
Ammiranda prigioni cerco, e non veggio
Lo spirto che la move e la governa.
Pur sento io ben che quivi ha stanza e seggio,
E dalla luce di ragion guidato
In tutte parti il trovo, e lo vagheggio.
DBIX' mnVBMSO II
O spirto^ o immago dell^Etemo, e fiato
Di quelle labbra, alla cui voce il seno
Si squarciò dell'abisso fecondato ,
DoTc andiir P innocenza ed il sereno
Della pura beltà, di cui vestito
Discendesti nel carcere terreno 7
Ahi, misero! t'han guasto e scolorito
Lascivia, ambision, ira ed orgoglio,
Che alla colpa ti fero il turpe invito!
La tua ragione trabalzar dal soglio,
E lacero, deluso ed abbattuto
T^ abbandonar nell'onta e nel cordoglio,
Siccome incauto pellegrin caduto
Nella man de' ladroni, allorché dorme
Il Mondo stanca e d'ogni luce muto.
Eppur sul volto le reliquie e l'orme,
Fra il turbo degli affetti e la rapina,
Serbi pur anco dell'antiche forme ^
Ancor dell'alta origine divina
I sacri segni riconosco^ ancora
Sei bello e grande nella tua rovina: •
Qual ardua antica mole, a cui talora
La folgoK del cielo il fianco scuota,
Od il tempo che tutto urta e divora.
Piena di solchi, ma pur salda e immota
Stassi, e d'offese e danni carca aspetta
Un nemico maggior che la percota.
Fra l'eccidio e l' oxror della soggetta
Colpevole Natura, ove l'immerse
Stolta lusinga e una feital vendetta.
Più bella intanto la Virtude emerse,
Qual astro che splendor nell' ombre acquista,
E in rìso i pianti di quaggiù converse.
Per lei gioconda e lusinghiera in vista
S'appresenta la Morte, e l'amarezza
D' ogni sventura col suo dolce è mista.
12 LA. BELLEZZA
Lei gaarda il ciel dalla superna altezza
Con amanti pupille^ e per lei sola
S^ apparenta dell^uomo alla bassezza.
Ma dove, o Diva del mio canto, vola
L^ audace immaginar? dove il pensiero
Del tuo Vate guidasti e la parola?
Toma, amabile Dea, toma al primiero
Gammin terrestre, né mostrarti schiva
Di minor vanto e di minore impero.
Toma ^ e se cerchi errante fuggitiva
Devoti per F Europa animi ligi,
E tempio degno di si bella Diva,
iSfon t'aggirar del morbido Parigi
Cotanto per le vie, né sulle sponde
Della Neva, dell' Istro e del Tamigi.
Volgi il guardo d'Italia alle gioconde
Alme contrade, e per miglior cagione
Del fiume tibérin fermati all'onde.
Non è straniero il loco e la magione.
Qui fu dove dal Cigno venosino
Vagheggiar ti lasciasti, e da Marone^
E qui reggesti del Pittor d'Urbino
I sov;rani pennelli, e di quel d'Amo
Ti Michel più che mortale Angel divino.
Ferve d'abne si grandi, e non indamo,
II Genio redivivo. Al suol romano
D'Augusto i tempi e di Leon tornamo.
Vedrai stender giuKve a te la mano
Grandezza e Maestà, tue suore antiche,
Che ti chiaman da lungi in Vaticano.
T'infioreranno le bell'Arti amiche
La via dovimque volgerai le piante.
Te propizia invocando alle fatiche.
Per te all'occhio divien viva e parlante
La tela e il masso ^ ed il pensiero é in forsi
Di crederlo insensato, o palpitante^
DEIX^ TRflTBHSO
Per te dì marmi i duri alpestri dorsi
SpogUan le balze tiburtine, e il monte
Che Circe empieva di leoni e d^orsi;
Onde poi mani architettrìei e pronte
Di moli aggravan la latina arena
D^ etemi fianchi e di superba fronte:
Per te risuona la notturna scena
Di possente armonia che Palme bea,
E gli affetti lusinga ed incatena^
E questa Selva , che la selva Àscrea
Imita, e snona di febeo concento,
Tutta è spirante del tuo nume, o Dea;
E questi lauri che tremar fa il vento ^
E queste che premiam tenere erbette ,
Sono d'un tuo sorrìso opra e portento;
E tue pur son le dolci canzonette
Che ad Imeneo cantar dianzi s^ intese
L^Àrcade schiera su le corde elette.
Stettero al grato suon Paure sospese,
E il bel Parrasio a replicar fra nui
Di Luigi e Costanza il nome apprese.
Ambo cari a te sono, e ad ambidui
Su PamabQ sembiante un feritore
Raggio imprimesti de^begli occhi tui;
Raggio che prese poi la via del core,
E di Virtù congiunto all^ aurea face
Fé nelPalme avvampar quella d^ Amore.
Yien dunque, amica Diva. H Tempo edace,
Fatai nemico, colla man rugosa
Ti combatte, ti vince, e ti disface.
Egli il color del giglio e della rosa
Toglie alle gote più rìdenti, e stende
Dappertutto la falce ruinosa.
Ma se teco Virtù scanna e discende
Nel cuor dell^uomo ad abitar sicura,
Passa il veglio rapace, e non t'offende;
l4 LÀ BBIXBZE4 DEIX^ mOVERSO
E solo, allorché fia che di Natura
Ei franga la catena, e urtate e rotte
Deff Universo cadano le mura,
E spalancando le voraci grotte
L^ assorba il Nnfia, e tutto lo sommerga
Nel muto orror della seconda notte,
Ài fracassato Mondo allor le terga
Darai friggendo, e su T eterea sede,
Ove non fia che Tempo ti disperga,
Stabile fermerai F eburnea piede.
IL
PELLEGRINO
APOSTOLICO
POEMETTO
IN OCCASIONE DEL VIAGGIO FATTO DA S. S. PIO VI
A VIENNA l'anno HDCGLXXXII.
IL
PELLEGRINO APOSTOLICO
CANTO PRIMO
Sollecita nel ciel Palba sorgea,
Che su i flebili colli di Quirino
La gran partenza illuminar dovea,
E intrepido anelando al suo cammino,
Già stavasi prostrato all^ara innante
Della Chiesa F augusto Pellegrino.
La voce, il gesto, il mover delle piante,
Non d^uom mortale, ma parca d^un Dio :
Foco eran gli occhi , e foco era il sembiante.
Squallide, e con lugubre mormorio ,
Affollate le turbe in Vaticano
Traeansi a dirgli il doloroso addio ,
Somiglianti ad un mar che da lontano
Fremer s^ode, o a gemente aura notturna
Che fa le selve lamentar pian piano.
Là dove nell^orror sacro dell^uma
Dorme di Pietro in sotten'anea sede
L^ apostolica polve taciturna,
Sul marmo trionfai sedea la Fede:
Più che la neve immacolato e schietto
Copriala un velo dalla fronte al piede ^
Ma la bellezza del celeste aspetto
Traspar più vaga da quel velo, e spira
Riverenza ed amor, tema e diletto.
Monti. Poemetti, a
l8 IL TBIXEGKBXO APOSTOLICO
Essa lo sguardo che penetra e gira
Fin sopra i cieli, e Pinfemal trapassa
Ampia Yorago di tormento e d'ira,
Profondamente sospirando abbassa,
E colla man la guancia si sostiene,
Da pensier grave affaticata e lassa^
[■ Ma di rema nel suo duol ritiene
La maestà pur anco^ ed infiammarse
Il cuor si sente d'ardimento e spene.
Surse tosto, e sembrò nel suo levarse
La bianca nube, che dal ciel caduta
Sul Tabemacol folgorando apparse.
Corre alFeroe d'incontro, e lo saluta^
E poiché in atto di gentil clemenza
Stettesi alquanto, e riguardoUo muta:
O uom, disse, cui l'alta Intelligenza
Per me tragge a pugnar, per me, che sono
Diva in ciel nata, e d' immortai potenza,
Guardami, uom forte, io son che ti ragiono,
Io là figlia di Dio^ guardami, e cura
D'un' afflitta ti prenda e del suo trono.
Piena è l'impresa di perigli, e dura^
Ma fia bello il patir, begli i cimenti,
Se il mio spirto ti guida e t'assicura.
Le inspirate da me parole ardenti
Sono una spada che ferisce e sana,
E d'ambe parti penetrar la senti.
La ragion, che l'error doma ed appiana,
E l'alme inonda de' bei raggi suoi,
È mia scorta e compagna, è mia germana.
Ella sul labbro degl'invitti Eroi,
Su la cui tomba io seggo, e per cui stetti,
E del cui sangue ini nutria dappoi.
Contro l'orgoglio degli umani affetti
Parlò sicura, e per le vie del Vero
I cuor più schivi attrasse e gl'intelletti.
CAUTO PRIVO ig
Or la mente dell' uom per lo sentiero
Di fallace Sofia, fattasi ancella
Di ree dottrine che vagar la féro^
Somiglia un mar cui torbido flagella
Assiduo soffio di contrario vento,
Che mesce il ciel coll^onda e la procella.
Ma su Tirato instabile elemento,
E camminar su le tempeste io soglio ,
Come sopra ben saldo pavimento.
Al mio grido pietoso , al mio cordoglio
I mortali indurar Palme sedotte,
E si formar nel petto un cuor di scoglio.
Ma uscir dal fianco delle balze rotte
I fonti io (accio limpidi e sinceri,
E traggo il giorno dalla fosca notte.
Per me confonde li Nabuchi alteri
Daniel fanciullo, e placan le tremanti
Donzelle gl'inflessibili Assueri.
Tu vanne, ardisci e parla. De' Regnanti
Sta il cor nel pugno di (juel Dio che frena
L'ale del lampo e i turbini sonanti.
Disse ^ e sul volto dell' Elroe serena
Rifulse, e raddoppiògU entro le ciglia
Mirabilmente del veder la lena.
Già più bianca si fea l'alba vermiglia.
Che a tergo i corridor sentfa del giorno:
Ei guarda, e il fere un'alta maraviglia.
D'ombrose vigne e di ruscelli adomo
Appargli un campo. Collinette apriche,
Verdi boschetti gli fan cerchio intomo.
Pascono al rezzo delle piante amiche
Ben cento greggi, e quinci e <juindi ingombra
Fuma la spiaggia di capanne antiche.
L'aria era quota, e di vapori sgombra;
Ma turbossi ad un tratto l' orizzonte ,
E di pallore si coperse e d'ombra.
20 IL PELLEGRINO APOSTOLICO
Pria die vento la terra, e poi dal monte
Con orrendo silenzio orrenda emerse
Nube, e giù scese in procellosa fronte.
Ahi quant^era terribile a vederse!
Di Dio lo spirto le gonfiava il grembo,
E tale al muto campo si converse.
E già squarciato d^ogni parte il lembo
Piovea grandine e fuoco, e palpitando
Fuggian le genti dall^ irato nembo.
Solo fra tanta tema un venerando
Pastor si stette, e denudò la testa.
Le palme al ciel pietosamente alzando.
Voce di tuono allor gridò: T^ arresta, ,
Angelo punitore lungi la spada
Torci dal campo, e scendi alla foresta.
Tacque, e il turbo al friror mutò la strada^
E qual recisa dalle curve ronche
Cader sul solco fa il villan la biada;
Tal fea quello balzar divelte e tronche
Le selve ; e tutte per diversa via
Le fiere abbandonar Patre spelonche.
Gotal portento al Pellegrin s^o&ia;
E mentre fise ei tienvi le pupille,
Dispar r oggetto, e un altro lo disvia.
Immantinente ei mille vede e mille
Pronte a seguirlo angeliche figure,
A&ettarsi e gittar lampi e faville.
Vede d^ Abisso le potenze impure
Sbarrargli il passo; e in questo lato e in quello
Di fantasmi assalirlo e di paure.
Smunta il volto e con torvo occhio rubello
ypè r Invidia, di lui vecchia nemica,
E primo degli eroi vanto e flagello:
V^è del vario Tarpeo tiranna antica
Maledicenza, che il pugnai deposto,
L^ anime di segreti odj nutrica:
CANTO PRIMO ai
V^è il falso Zelo, che d^amor s^è posto
Una larva sul Tolto, e un cuor nel seno
Di demone crudel tiensi nascosto^
Ed altri mostri, che diverse avieno
Di prudente virtù forme mentite,
E le labbra stillanti di veleno.
Come alla voce di Gresù smarrite
Là nell'orto fatai caddero al suolo
Le turbe al grande tradimento uscite^
Cosi davanti al Pellegrin d'un solo
Sguardo percosso sul negato calle
Cadde rovescio il temerario stuolo.
Che non osò seguirlo, ed alle spalle
A bestemmiar rimase, e di sfacciato
Susurro empiè del Tevere la valle.
L'Àngel di Roma dalla Fé chiamato.
Alto allor si levò sul Vaticano,
E largo diede alla sua tromba il fiato ^
Tromba a quelle simil che del Giordano
Arrestar V onde stupefatte , e fero
Gerico rovinar spezzata al piano.
L'Angelo della Senna, e dell' Ibero,
E quel del Reno, e quel dell'Alpi udillo ,
E fecer plauso al difensor di Piero.
L'Angel dell' Istro anch'esso al forte squillo
Destasi, e l'altro ad incontrar sen viene.
Pace gridando per lo ciel tranquillo.
Fin dentro il lago dell'eterne pene
Giunse il suon della tuba, e un cupo udissi
Doppio stridor di denti e di catene.
Trascorse ancor fra i lumi erranti e fissi,
E degli spirti, a cui fur dati in cura,
Forte l'orecchio rintronar sentissi.
Allor fé Uriele più lucente e pura
Uscir del die la lampa imperatrice.
Bella nemica della notte oscura.
a a IL PELLEGAINO APOSTOLICO
DSmprovriso tepor dispensatrice
La gran face del Sol tosto si mira
Rallegrar la pianura e la pendice.
Ovunque il passo imprime j o il guardo gira
L^ illustre Vìator, nuova virtude
Sente natura, e la stagion respira.
Yolea del verno le sembianze crude
Depor la terra innanzi tempo, e presta
D^erbe e fiori ammantar le splaggie ignude:
Ogni arbor rinverdir volea la vesta;
E le nevi, del gel rotto il rigore,
Alle montagne liberar la testa;
Ma vietoUo Umiltà, che del Pastore
Venia scorta e compagna, e intomo a lui
Parve del verno raddoppiar F orrore.
Languido un^ altra volta i raggi sui
Contrasse il Sole, e il capo aureo lasctosse
Imbrunir da vapori erranti e bui.
Dal suo speco P acquoso Austro si mosse,
E da le nubi, che la man stringea,
E nevi e piòggie furibondo scosse.
Tutta qual pria tornò contraria e rea
La gelata stagion, posta in obblio
La Deitade che passar dovea.
Le sue porte P Olimpo intanto aprìo,
E calossi di fumo e foco mista
Nube che Paria di fragranza empio.
L'ignea colonna imita, che fu vista
U ramingo guidar stanco Israello
Per lo Deserto alla fatai conquista.
Ma la nube nel sen porta un drappello
D'invisibili altrui spirti moventi,
Quale Focchiute rote d'Ezechiello;
Spirti, che di soavi almi concenti
Van ricreando Paure innamorate,
E raddolcendo della via gli stenti.
CARtO PRIMO a 3
Pria le cure, il travaglio e Tniniltate
Del buon Pastor cantaro, die la vita
Pone in periglio per le agnello amate ^
Poi, stendendo a più grave arpa le dita,
Cantar quell^alto sdegno onde la terra
Fu sepolta nel pelago e punita^
E come PÀrca fra F orrenda guerra
DegP irati elementi alto sul flutto
Galleggia, e salva le montagne afferra^
Indi il roveto rammentar, che tutto
D^Orebbe apparve al pastorel famoso
Dalle fiamme ravvolto e non distrutto^
Né quel vello obbliàr, che in rugiadoso
Molle terren su Falba raccogliesti
Secco ed asciutto, o Gedeon dubbioso;
Onde di sangue Madianito festi
Rosse le glebe, e di Giudea cattiva
Le pentite pupille alfin tergesti.
Tal era il canto e Farmom'a festiva,
Che al sacro Pellegrino il cuor molcendo
Soavemente dalla nube usciva :
E già la balza del Sgratte oirendo
Scopriasi tutta, e nebuloso il piede
n padre Tebro le verna lambendo. *
Dimentica del cid , spesso ivi riede
Di Silvestro a vagar F ombra pensosa,
Innamorata delF antica sede:
Onde il verno alla rupe erta e petrosa
Per riverenza a tanto ospite nume
Di nevi il capo più coprir non osa;
E zefiro gentil scuoter le piume
In sua stagion vi lascia, e folte al basso
Pender le spiche, e tremolar sul fiume.
Sul limitar dello scavato sasso ,
Ove al furor barbarico sottratto
Raccolse un tempo fuggitivo il passo ,
a4 ^ PELLEGRraO APOSTOLICO, CANTO PROCO
Starasi il veglio yenerando in atto
D^uom che qualcuno attende, e impaziente
Per soverchio aspettare ornai s^ è fatto :
Ed ecco che apparir vede repente
La portentosa nube, e più vicina
Farsi r ascosa melodia già sente.
Qual da un fiume talor la vespertina
Nebbia s^ estolle, e dopo breve istante
Giù nella valle rotasi e declina^
Tal la cima radendo delle piante,
D'un venticel portata in su le penne,
La celeste discese Ombra aspettante.
Lieve d'incontro al Pellegrin sen venne ^
E lampeggiando in un gentil sorriso ,
Gli sfavillò su gli occhi e lo trattenne.
Videro dalle nubi l'improvviso
Splendor gli Spirti ascosi, e rawisaro
L'antico cittadin del Paradiso.
Tosto il canto e le dolci arpe fermaro^
Che agli atti, al volto in lui desio cortese
Di favellar gran cose argomentaro.
S'appressar tutte ad ascoltarlo intese
Quelle dive Potenze. Àllor di zelo
Fé l'Ombra scintillar le labbra accese^
E a parlar comincio. — Spirti del Cielo ,
Che dappresso l'udiste, e di vostre ali
Àll'uman guardo gli faceste un velo.
Piacciavi di ridir. Spirti immortali,
Ad un mortai le sue parole, e darmi
Lingua ed accenti al gran subbietto eguali,
Se lice col pensier tanto levarmi.
CANTO SECONDO
Salye , P Ombra gridò , salve , aspettato
Buon Pellegrino. Al tuo cammin felice
Arride folgorando il Ciel placato.
Dio s^ affacciò dall^ orrida pendice
Dell^ altissimo suo monte profondo,
Che su r altre montagne ha la radice:
Diede uno sguardo al sottoposto mondo,
E il mondo vacillò. Cader sospinto
Temea del Nulla nell'orror secondo.
La gran catena, da cui pende avvinto,
Scoteasi tutta, e alzarsi orribilmente
Parca la polve del Creato estinto.
Calmati, disse allor F Onnipossente,
Calmati, o Mondo. E al suon di sue parole
Quel tremendo fragor tacque repente.
Brillò sereno dall^ Olimpo il Sole,
Riser campi e colline, e in dolce aspetto
Si rabbellir di rose e di viole.
O tu, che calchi, ad alte imprese eletto,
Dell'eterno Voler la traccia oscura.
Apri al mio dir P orecchio e F intelletto.
Non il silenzio sempre di natura,
Né dei venti la calma e delle stelle
I disegni di Dio compie e matura:
Talvolta ancor fra i lampi e le procelle
Più luminoso il suo pensier traluce,
E le divine idee fansi più belle.
Ei padre e fonte dMnesausta luce
Pur circonda talor gli eterei troni
Di maestà caliginosa e truce:
26 IL PBLLEGRmO APOSTOLICO
Onde sotto il suo pie s^ odono i tuoni
Ruggir profondamente, e con baldanza
Mormorar le burrasche e gli aquiloni.
In questa di furor torba sembianza
Parla pur anco alla sua Sposa, e il core
Col rigor ne cimenta e la costanza.
Quindi spesso le invia guerra e terrore^
Quindi gli afianni , che funesti e rei
D'odio sembrano segno, e son d'amore.
Né da' barbari colli Giebusei
Sempre il nemico turbine si scaglia ,
Che il raggio oflEìisca di quegli occhi bei.
Nel seno di SSon fiera battaglia,
Fiero nembo si desta anco talora.
Che r invitte sue torri urta e travaglia.
La bella Sulamite si scolora,
Che il vede rovinar su le fiorenti
Vigne d'Engaddi, e al Giel si volge e plora.
Odi il rumor delle quadrighe ardenti
D' Amìnadabbo irato, odi il bisbiglio
Dell'atterrito Giuda, odi i lamenti.
Tu, che pietoso accorri al reo periglio
Della redenta Sulamite, e vai
In sul Danubio ad asciugarle il ciglio.
Cresci speme e coraggio, e senti omai
Come chiaro su te parla il Destino
Là dall'abisso degli etemi lai.
Splenderà la tua gloria, o Pellegrino,
Più che le chiome e le lucenti rote
Dell' astro che le porte apre al mattino :
Dintorno a te s'affolleran divote.
Siccome intomo al suo pastor le agnelle,
Le più barbare genti e piiì remote^
E tu la Fé, la Caritade in elle
Accenderai col guardo e col sembiante,
Mille mietendo al Ciel palme novelle.
CAUTO SECONDO ^^
Dietro a^ tuoi passi estatica ed amante
Àfiettarsi vedrai V Europa intera ,
L^orme baciando dell^ auguste piante:
Dell^ Istro la regal sponda guerriera
Vedrai di vele e popoli coperta,
Yarj di ciel, di lingua e di maniera.
Come d^Orebbe la vallèa deserta,
Quando piovve sul querulo Israele
Celeste cibo dalla nube aperta^
Tu pioverai sul popol tuo fedele
Lo spirto, che securo a Pìct già feo
Di Cafarnao calcar Fonda crudele*,
Spirto , cbe del Tesbite e d' Eliseo
Scaldò k invitte labbra , e tuUa un giorno
La Palestina di portenti empieo.
Un^ altra volta di Moabbo a scorno
Di Baiamo la voce udrassi intanto
Con maraviglia rìsuonar dintorno.
Quanto son belle le tue tende I ob quanto,
Alma Sion, leggiadro è il tuo stendardo,
E glorioso de' tuoi duci il vanto !
In Ascalon correa romor bugiardo,
Cbe in Babilonia ti dicea conversa,
E schiava di tiranno empio e codardo :
Profanato F aitar , guasta e p^rersa
La tua dottrina, e te in un mar che bolle
Di sozzure e d'orror, tutta sommersa.
Menti Porribil grido. Il tuo bel colle
Di fiori ancor si veste e d'arboscelli,
Nudriti al fiato d'un'auretta molle.
I tuoi cedici famosi ancor son quelli^
Ancor son fi*esche per la rupe, e monde
L' urne de' tuoi fatidici ruscelli.
Venite a dissetarvi alle beli' onde ,
O mal accorte agnelle, che succhiate
Del sozzo Egitto le cisterne Immonde.
28 IL PEXXBGRmO ilPOSTOLIGO
Quel buon Pastor che abbandonaste ingrate,
Ecco ch^ei viene pellegrin pietoso
Fra^ dirupi a cercarvi, o sconsigliate.
Egli è tutto sudante e polveroso:
Amor lo guida, Amor che al varco il prese,
E tolse agli occhi suoi sonno e riposo.
Deh! voli una soave aura cortese.
Che della via gli tempri le fatiche
Fra le piene d'orror balze scoscese.
Stendete la vostr^ombra, o piante amiche^
E voi di fior spargetegli il sentiere,
O pastorelle del Saròn pudiche.
Fra si dolci d^amor note sincere
Verrai su Flstro, e ti vedrai davanti
Le tedesche piegarsi aste e bandiere.
E le madri di gioja palpitanti
T^nsegneran col dito ai pargoletti.
Con mille baci confondendo i pianti^
Ed essi delle madri al fianco stretti
Ti cercheran col guardo, e si dorranno
Che veloce trapassi, e non aspetti^
Ed il picciolo mento allungheranno,
Onde sul folto della calca alzarse
Con avid^ occhio e fanciullesco afianno.
Ecco intanto le grida raddoppiarse^
Ecco Giuseppe. A questo nome un foco
Del Pellegrino su le guance apparse:
Fu il cor che dentro si commosse, e poco
Di sé capace ritrovando il petto ,
Tentò co^ balzi dilatarsi il loco.
Tenerezza e pietà, gioja e rispetto
Gli fero assalto alP anima, e sul viso
Si pinser tutti con diverso afietto.
Del visibile fi*emito improvviso
S' avvide il parlator veglio canuto ,
E il divin labbro aprendo ad un sorriso:
CANTO SECONDO ag
Vedrai', seguia, vedrai questo temuto
Eroe dell'Austria, innanzi a cui vacilla
E stassi il Mondo riverente e muto,
Non già truce il sembiante e la pupilla,
Qual sovente il mirar la Molda e il Reno
Li tra il fumo di Marte e la favilla^
Ma placido, gentil, mite e sereno
Venirti incontro, e come al padre il figlio
Chinarsi, e palpitar stretto al tuo seno.
Oh palpiti d'amor, non di periglio!
Oh regal bacio ! oh memorando amplesso !
Oh d'alta provvidenza alto consiglio!
Le sue, le tue virtù d'un nodo istesso
Si stringeranno, e si faran tra loro
Scambievole di rai dolce riflesso.
Aureo d' affetti l' amistà lavoro
Nelle vostr'alme tesserà, che poi
Fian del tempio di Dio base e decoro^
Finché d'applausi carco, e degli eroi
Il più grande lasciando all'Istro in riva
Innamorato de' pensieri tuoi.
Alle contrade della tua giuliva
, Difficil Roma tornerai lodato,
CoU'Invidia al tuo pie vinta e cattiva.
Ivi lungo di giorni ordin beato
Trarrai sicuro, e del tuo sacro impero
Salomon nuovo tranquillando il fato,
Auspice avventuroso e condottiero
Sarai del secol che s'appressa, e chiede
Del tuo bel nome ornar l'anno primiero.
Questo è il voler di Lui, che al tuo cor diede
L'alto coraggio, e su l'avel lo scrisse,
D'onde al sacro cammin movesti il piede.
L'amica ambasciatrice Ombra sì disse,
E girò gli occhi quai due Soli, e il monte
Par che tutto di luce si vestisse,
3o IL PBLLBGRUfO APOSTOLICO. CINTO SECOlilBO
Che poi si stese all^ ultimo orizzonte,
E ne rìse per giubilo la valle,
E traballonne d'Apennin la fronte :
Onde agitate su F acute spalle
Si scomposer le nevi, e, sciolte in fiumi,
Giù per rotto dirupo aprirsi il calle.
Grondavan tutti delle balze i dumi,
E le colline rugiadose un nembo
Àlzavan di gratissimi profumi.
Ma r Ombra già confusa crasi in grembo
Dell^ angelica nube , che repente
Per abbracciarla avea squarciato il lembo.
Sparir la vide il Pellegrin dolente^
E col guardo la nebbia accompagnando,
Che portavala al cielo dolcemente,
Ed ambedue le palme alto levando:
Padre, gridò, cosi tMnvoli, e lassi
Meco le cure del divin comando?
Meglio era che il mio corso anco mutassi^
Ma se Tuoki che io resti, e alle serene
Sedi d^ Olimpo senza me tu passi,
Deh ! narra a Pietro, se a incontrar ti viene.
Narra pietoso i miei disastri, e tutte
Del suo fedele successor le pene.
Disse, e le ciglia non ritenne asciutte^
Ma qual su Terhe appaiono le stille
Dalle nubi d^ aprii scosse e produtte ,
Che brillan tremolando a mille a mille
Davanti al Sol, che irradiale e percote ^
Tal corse il pianto intomo alle pupille.
Si terse il Pellegrin santo le gote ,
E pien la mente della grande idea,
Che inspirògli F antico Sacerdote,
Fiamme spargendo, ovunque il pie volgea,
D^amor, di fede, di pietà, di zelo,
Corse oltre la gelata alpe Rotea
Gli altri presagi ad avverar del Cielo.
IN MORTE
>i
UGO BASSVILLE
CANTICA
IN MORTE
DI
UGO BASSVILLE
CANTO PRIMO
Già vinta dell'Inferno era la pugna,
E lo spirto d'Abisso si partia,
Vota strìngendo la terribil ugna.
Come hon per fame egli raggia
Bestemmiando T Etemo, e le commosse'
Idre del capo sibilar per via.
Allor timide Pali aperse e scosse
L'anima d'Ugo alla seconda vita
Fuor deUe membra del suo sangue rosse :
E la mortai prigione ond'era uscita,
Subito indietro a riguardar si volse *
Tutta ancor sospettosa e sbigottita.
Ma dolce con un riso la raccolse,
E confortolla l'Angelo beato,
Che contro Dite a conquistarla tolse.
E, Salve, disse, o spirto fortunato,
Salve, sorella del bel numer una,
Cui rimesso è dal Cielo ogni peccato.
Non paventar^ tu non berai la bruna
Onda d'Averno, da cui volta è in fuga
Tutta speranza di miglior fortuna '.
Ma la giustizia di lassù, che fruga.
Severa e in un pietosa in suo diritto^,
Ogni labe dell'alma ed ogni ruga^,
Morti. Poemetti. 3
34 BÀSSTILLIANÀ
Nel SUO registico adamantino ha scritto,
Che all^ amplesso di Dio non salirai,
Finché non sia di Francia ulto^ il delitto.
Le piaghe intanto e gV infiniti guai y
Di che fosti gran parte?, or per emenda
Piangendo in terra e contemplando andrai.
E supplicio ti fia la vista orrenda*
Dell^ empia patria tua, la cui lordura
Par che del puzzo i firmamenti offenda^
Sì che Palta vendetta è già matura,
Che fa dolce di Dio nel suo segreto 9
L' ira ond^ è colma la fatai misura.
Cosi pai'lava; e riverente e cheto
Abbassò F altro le pupille, e disse:
Giusto e mite, o Signor, è il tuo decreto.
Poscia r ultimo sguardo al corpo aflisse'^
Già suo consorte in tita, a cui le vene
Sdegno di zelo e di ragion trafisse^
Dormi in pace, dicendo, o di mie pene
Caro compagno, infin che del gran die
L^ orrido squillo a risvegliar ti viene.
Lieve intanto la terra", e dolci e pie"
Ti sian Paure e le pioggie, e a te non dica
Parole il passeggier scortesi e rie.
Oltra il rogo non vive ira nemica "^^
E nell^ ospite suolo ov^io ti lasso '^,
Giuste son Palme, e la pietade è antica.
Torse, ciò detto , sospirando il passo
Quella mest' Ombra, e alla sua scorta dietro
Con volto s^ avviò pensoso e basso ^
Di ritroso fanciul tenendo il metro.
Quando la madre a^suoi trastulli il fura,
Che il pie va lento innanzi, e Pocchio indietro.
Già di sua veste rugiadosa e scura '^
Coprìa la notte il mondo, allor che diero
Quei duo le spalle alle Romulee mura.
CANTO PROCO 35
E nel leyani a volo, ecco di Piero
Sull^ altissimo tempio' alla lor vista
Un CSìembino minaccioso e fiero ^
Un di quei sette *® che in argentea lista
Mirò fira i sette candelabri ardenti
Il rapito di Patmo Evangelista.
Rote di fiamme gli occhi rilucenti '7 ^
E cometa che morbi e sangue adduce '^ ,
. Parean le chiome abbandonate ai venti.
Di lugubre vermiglia orrida luce
Una spada brandia, che da lontano
Rompea la notte, e la rendea più truce ^
E scudo sostenea la manca mano '9
Grande così, che da nemica offesa
Tutto coprìa coir ombra il Vaticano:
Com^ aquila che sotto alla difesa '^
Di sue grandmali rassicura i figli
Che non han Parte dc^le penne appresa;
E mentre la bufera entro i covigli''
Tremar fa gli altri augei, questi a riposo
Stansi allo schermo de^ materni artigli.
Chinarsi in gentil atto ossequioso,
Oltre volando i due minori Spirti,
Dell^ alme chiavi al difensor sdegnoso.
Indi, veloci in men che noi so dirti.
Giunsero dove gemebondo e roco
Il mar si firange tra le Sarde sirti;
Ed al raggio di luna incerto e fioco
Vider spezzate antenne, iufirante vele
Del regnator Libecchio orrendo gioco*',
E sbattuti dall'' aspra onda crudele *^
Cadaveri e bandiere; e disperdea
LMra del vento i gridi e le querele.
Sul lido intanto il dito si mordea
La temeraria Libertà di Francia,
Che il cielo e Tacque disfidar parca.
36 BASSVILLIA9À
Poi del sao ardire si battea la guancia'^ ,
Venir mirando la rivai Brettagna
A fdlminarle dritta al cor la lancia^
E dal silenzio suo scossa la Spagna
Tirar la spada anch^essa, e la vendetta
Accelerar d^ Italia e di Lamagna:
Mentre il Tirren, che la gran preda aspetta,
Già mormora, e si duol che la sua spuma
Ancor non va di Franco sangue infetta^
E Pira nelle sponde invan consuma,
Di Nizza inulto rimirando il lutto *^,
Ed Oneglia che ancor combatte e fuma.
Allor che vide la mina e il brutto
Oltraggio la Francese anima schiva,
Non tenne il ciglio per pietade asciutto^
Ed il suo fido condottier seguiva
Vergognando e tacendo, infin che sopra
Fur di Marsiglia alla spietata riva.
Di ferità, di rabbia, orribil opra
Ei vider quivi, e Libertà che stolta
In Dio medesmo Tempie mani adopra.
Videro, ahi vista! in mezzo della folta *^
Starsi una croce col divin suo peso
Bestemmmiato e deriso un^ altra volta *7^
E a pie del legno redentor disteso
Uom coperto di sangue tuttoquanto.
Da cento punte in cento parti oflfeso.
Ruppe a tal vista in un più largo pianto
L'eterea pellegrina^ ed una vaga
Ombra cortese le si trasse accanto.
Oh! tu, cui si gran doglia il ciglio allaga,
Pietosa anima, disse, che qui giunta
Se' dove di virtude il fio si paga**^
Sostati ^9 e m'odi. In quella spoglia emunta ^°
D'alma e di sangue (e l'accennò), per cui
Sì dolce in petto la pietà ti spunta,
CANTO «pilMO 37
Albergo io m'ebbi: manigoldo fui
E peccatore ma P infinito amore
Di Quei mi valse che morì per nui ^
Perocché dal costoro empio furore
À gittar strascinato (ahi! parlo, o taccio?^')
De' ribaldi il capestro al mio Signore^
Di man mi cadde P esecrato laccio,
E rizzarsi le chiome, e via per Fossa^*
Correr m' intesi ^^ e per le gote il ghiaccio.
Di crudi colpi aUor rotta e percossa ^^
Mi sentii la persona, e quella croce
Fei del mio sangue anch' io fumante e rossa :
Mentre a Lui, che quaggiù manda veloce
Ài par de'sospir nostri il suo perdono,
n mio cor si volgea più che la voce.
Quind'ei m'accolse Iddio clemente e buono ^
Quindi un desir mi valse il Paradiso ^
Quindi beata eternamente io sono.
Mentre l' un sì parlò , P altro in lui fiso
Tenea lo sguardo, e si piangea^', che un velo
Le lagrime gli fean per tutto il vlso^
Simigliante ad un fior che in su lo stelo
Di rugiada si copre in pria che il Sole
Co' raggi il venga a colorar dal cielo.
Poi gli amplessi mescendo e le parole,
De'proprii casi il satisfece anch'esso,
Siccome fira cortesi alme si suole.
E questi, e l'altro, e il Cherubino appresso
Adorando la croce, e nella polve
In devoto cadendo atto sommesso.
Di Dio cantaro la bontà, che solve ^^
Le rupi in fonte, ed ha sì larghe braccia,
Che tutto prende ciò che a lei si volve.
Sollecitando poscia la sua traccia
L'alato duca, l'Ombre benedette
Si disser vale, e si baciaro in faccia.
38 BÀssyiixiÀHA.
Ed una sì rimase alle vedette,
Ad aspettar che su la rea Marsiglia
Sfreni Parco di Dio le sue saette^?.
Sovra il Rodano ^* P altra il voi ripiglia,
E via trapassa d^Avignon la valle
Già di sangue civil (atta vermiglia^
D^Avignon che, smarrito il miglior calle ^,
Alla pastura intemerata e fresca
Dell^ Ovile Roman volse le spalle,
Per gir co^ ciacchi di Parigi in tresca
A cibarsi di ghiande, onde la Senna,
Novella Circe, gli amatori adesca.
Lasciò Garonna^** addietro, e di Gebenna^'
Le cave rupi^ e la pianura immonda
Che ancor la strage Camisarda accenna^*.
Lasciò r irresoluta e stupid' onda^^
D^ Arari a dritta , e Ligeri a mancina ,
Disdegnoso del ponte e della sponda ^^.
Indi varca la falda Tigurina^^^
A cui fé Giulio dell' àugel di Giove
Sentir la prima il morso e la rapina.
Poi Nivemo trascorre, ed oltre move
Fino alla riva^ u' d'Arco la donzella ^^
Fé contra gli Angli le famose prove.
Di là ripiega inverso la Rocella
n remeggio dell'ali *7 , e tutto mira
n suol che PAquitana onda flagella ^*.
Quindi ai Celtici boschi si rigira ^9
Pieni del canto che il chiomato Bardo
Sposava al suon di bellicosa lira.
Traversa Normandia, traversa il tardo ^"^
Sbocco di Senna, e il lido che si fiede
Dal mar Britanno infino al mar Piccardo.
Poi si converte ai gioghi onde procede^'
La Mosa, e al piano che la Marna lava,
E orror per tutto, e sangue e pianto vede.
CANTO PRIMO 39
Libera vede andar la colpa, « schiava
La virtù, la giustizia, e sue bilance
In man del ladro e di vii ciurma prava,
À cui le membra grave-olenti^* e rance
Traspaiono da^ sai sdrusciti e sozzi ^^«
Né fìir mai tinte per pudor le guance.
Vede luride forche e capi mozzi;
Vede piene le piazze e le contrade
Di fiamme, d'ululati e di singhiozzi.
Vede in preda al fui*or dMngorde spade
Le caste Ghi^e, e Cristo in Sacramento ^^
Fuggir ramingo per deserte strade^
E i sacri bronzi in flebile lamento
Giù calar dalle torri, e liquefarsi
In rie bocche di morte e di spavento.
Squallide vede le campagne, ed arsi
I pingui coki; e le fiedci e le stive ^^
In duri stocchi e in lance trasmutarsi.
Odi frattanto risonar le rive,
Non di giocondi pastorali accenti.
Non d'avene, di zuffoli e di pive;
Ma di tamburi e trombe e di tormenti:
E il barbaro ^^ soldato al villanello
Le messi invola e i lagrimati armenti;
E invan si batte Tanca il meschinello,
Invan si straccia il crin disperso e> bianco
In su la soglia del deserto ostello;
Che non pago d'avergli il ladron Franco
Rotta del caro pecoril la sbarra,
I figli, i figli strappa^ dal fianco;
E del pungolo invece e della marra,
D'armi li cinge dispietate e strane,
E la ronca converte in scimitarra.
All' orbo padbe intanto ahi ! non rimane
Chi la cadente vita gli sostegna.
Chi sovra il desco gli divida il pane ^7.
4o BÀSSVILLlAirA, CAlVTO PROCO
Quindi lasso la luce egli disdegna,
E brancolando per dolor già cieco,
Si querela che morte ancor non vegna*
Né pietà di lui sente altri, che PEco^,
Che cupa ne ripete e lamentosa
Le querimonie dall'opposto speco.
Fremè d'orror, di doglia generosa
àUo spettacol fero e miserando
La conversa d'Ugon alma sdegnosa^
E si fé del color ch'il cielo è, quando ^9
Le nubi immote e rubiconde a sera
Par cbe piangano il di che va mancando ^
E tutta pinta di rossor, com'era,
Parlar, dolersi, dimandar volea^,
Ma non usciva la parola intera;
Che la piena del cor lo contendea:
E tuttavolta il suo diverso affistto
Palesemente col tacer dicea.
Ma la scorta fedel, cbe dall'aspetto
Del pensier s'avvisò, dolce alla sua
Dolorosa seguace ebbe si detto:
Sospendi il tuo terror, frena la tua
Indignata pietà; cbè ancor non bai
Nell'immenso suo mar volta la prua.
S'or si forte ti duoli, oh! cbe farai.
Quando l'orrido palco, e la bipenne^'...
Quando il colpo fatai.., quando vedrai?...
E non fiid ; che tal gli sopravvenne
Per le membra immortali un brividio.
Che a quel truce pensier troncò le penne;
Si che la voce in un sospir mono.
CANTO SECONDO
Alle tronche parole, alFimprornso
Dolor che di pietà FAngel dipinse,
Tremò qnell^ Ombra e si fé smorta in tìso)
E suU^orme così si risospinse
Del suo buon duca che davanti andava
Pien del crudo pensier che tutto il vinse '.
Senza fer motto * il passo accelerava,
E Paria intomo tenebrosa e mesta
Del suo volto la doglia accompagnava.
Non stormiva una fronda alla foresTta',
E sol s'udfa tra^ sassi il rio lagnarsi,
Siccome all^ appressar della tempesta.
Ed ecco manifeste al guardo £aursi
Da lontano le torri, ecco V oirenda
Babflonia Francese approssimarsi.
Or qui vigor la fantasia riprenda^,
E Pira e la Pietà mi sian la Musa
Che alP alto e fiero mio concetto ascenda.
Curva la fronte, e tutta in sé racchiusa
La taciturna coppia oltre cammina,
E giunge alfine alla città confusa,
AUa colma di vizi atra sentina,
A Parigi, che tardi e mal si pente
Della sovrana plebe cittadina.
Sul primo entrar della città dolente'
Stanno il Pianto, le Cure, e la Follia
Che salta e nulla vede e nulla sente.
4 2 BAS5VILLIANA
Ewi il turpe Bisogno^, e la restia
Inerzia colle man sotto le ascelle?,
L'uno air altra appoggiati in su là via.
Ewi r arbitra Fame', a cui la pelle 9
Informasi dall'ossa, e i lerci denti
Fanno orribile siepe alle mascelle.
Vi son le rubiconde Ire furenti,
E la Discordia pazza '^ il capo avvolta
Di lacerate bende e di serpenti.
Vi son gli orbi Desiri, e della stolta
Ciurmaglia i Sogni, e le Paure smorte "
Sempre il crin rabbuffate e sempre in volta.
Veglia custode delle meste porte ,
E le chiude a suo senno e le disserra,
L' ancella e insieme la rivai di Morte " ^
La cruda, io dico, furibonda Guerra,
Che nel sangue s'abbevera e gavazza,
E sol del nome fa tremar la terra.
Stanle intorno l'Erinni, e le fan piazza,
E allacciando le van l'elmo e la maglia
Della gorgiera e della gran corazza^
Mentre un pugnai battuto alla tanaglia*^
De' fabbri di Gocito in man le caccia,
E la sprona e l'incuora alla battaglia
Un' altra Furia di più acerba faccia ,
Che in Flegra*^ già del cielo assalse il moro,
E armò di Bnareo le cento braccia '^^
Di Diagora poscia e d' Epicuro '^
Dettò le carte, ed or le Franche scuole
Empie di nebbia e di blasfema impuro^
E con sistemi e con orrende fole
Sfida l'Eterno '7^ e il tuono e le saette
Tenta rapirgli, e il padiglion del Si)le''.
Come vide le facce maledette,
Àrretrossi d'Ugon l'ombra turbata^
Che in Inferno arrivar la si credette:
CANTO SECONDO 4^
E In quel sospetto sospettò '9 cangiata
La sua sentenza, e dimandar yolea
Se fra Palme perdute iva dannata.
Quindi tutta per tema si stringea
Al suo conducitor, che pensieroso
Le triste soglie già varcate avea.
Era il giorno che , tolto al procelloso ***
Capro, il Sol monta alla trojana stetta,
Scarso il raggio vibrando e neghittoso^
E compito del dì la nona ancella **
L^ officio suo, il governo abbandonava
Del timon luminoso alla sorella:
Quando chiuso da nube oscura e cava
L^Àngel coli' Ombra inosservato e qaeto
Netta città di tutti i maU entrava.
Ei procedea depresso ed inquieto
Nel portamento, i rai celesti empiendo
Di largo ad or ad or pianto segreto^
E F Ombra si stupfa quinci vedendo
Lagrimoso il suo duca, e possedute
Quindi le strade da silenzio orrendo.
Muto de'bronzi il sacro squiUo, e mute
L'opre del giorno, e muto lo stridore
DeU' aspre incudi e dette seghe argute":
Sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,
Un domandare, un sogguardar sospetto,
Una mestizia che ti piomba al core^
E cupe voci di confuso affetto.
Voci di madri pie, che gF innocenti
Figli si serran trepidando al petto ^^^
Voci di spose, che ai mariti ardenti
Contrastano P uscita'^, e sutte soglie
Fan di lagrime intoppo e di lamenti.
Ma tenerezza e carità di moglie
Vinta è da Furia di maggior possanza,
Che daU' amplesso coniugai gli scioglie.
44 BA88VIIXIANÀ
Poiché fera menando oscena danza *^
Scorrean di porta in porta afl&ocendati
Fantasmi di terribile sembianza^
De^ Druidi i fantasmi insanguinati,
Che fieramente dalla sete antiqua
Di vittime nefande stimolati,
A sbramarsi yenian la vista obliqua *^
Del maggior de^mis&tti, onde mai possa
La loro superbir semenza iniqua.
Erano in veste d^uman sangue rossa^,
Sangue e tabe grondava ogni capello,
E ne cadea una pioggia ad ogni scossa.
Squassan altri un tizzone, altri un flagello *7
Di chelidri e di verdi anfesibene.
Altri un nappo di tosco, altri un coltello:
E con quei serpi percotean le schiene
E le fironti mortali, e fean, toccando
Con gli arsi tizzi, ribollir le vene.
Allora delle case infuriando ^
Uscian le genti, e si (uggia smarrita
Da tutti i petti la pietade in bando.
Allor trema la terra oppressa e trita *d
Da cavalli, da rote e da pedoni^
E ne mormora Paria sbigottita^
Simile al mugghio di remoti tuoni ^^,
Al notturno del mar roco lamento ,
Al profondo ruggir degli Aquiloni.
Che cor, misero Ugon, che sentimento^'
Fu allora il tuo, che di morte vedesti
L' atro vessillo volteggiarsi al vento ?
E il terribile palco erto scorgesti,
Ed alzata la scure, e al gran misfatto
Salir bramosi i manigoldi e presti^
E il tuo buon Rege, il Re più grande, in atto
D'agno innocente fra digiuni lupi,
Sul letto de' ladroni a morir tratto ^
Cinto sBcoimo 4^
E fra i silenzi delle turbe cupi
Lui sereno avanzar la fironte e il passo.
In vista che spetrar potea le rupi?
Spetrar le rupi, e sciorre in pianto un sasso,
Non le Galliche tigri. Ahi! dove spinto
L'avete, o crude? Ed ei v'amava? Oh lasso!
Ma piangea il Sole di gramaglia cinto ^*,
E stava in forse di voltar le rote
Da questa Tebe'^, che P antica ha vinto.
Piangevan Paure per terrore inunote,
E P anime del Cielo cittadine ^
Scendean col pianto anch'esse in su le gote^
L'anime che costanti e pellegrine
Per la causa di Cristo e di Luigi
Lassù per sangue diventar divine,
n duol di Francia intanto e i gran litigi
Mirava Iddio dall'alto^ e giusto e buono
Pesava il fato della rea Parigi ^^.
Sedea sublime sul tremendo trono,
E sulla lance d'or quinci ponea
L'alta sua pazfenza e il suo perdono^
Dell'iniqua città quindi mettea
Le scelleranze tutte: e nullo ancora
Piegar de' due gran carchi si vedea.
Quando il mortai giudizio e Pultim'ora
Dell'augusto Infelice alfin v'impose
L'Onnipotente. Cigolando allora
Traboccar le bilance ponderose:
Grave in terra cozzò la mortai sorte,
Balzò P altra alle sfere , e si nascose.
In quel punto al feral palco di morte
Giunge Luigi. Ei v'alza il guardo, e viene
Fermo alla scala, imperturbato e forte.
Già vi monta, già il sommo egli ne tiene,
E va sì pien di maestà l'aspetto,
Ch'ai manigoldi fa tremar le vene.
46 BABSTILLUVA
E già battea furtiva ad ogni petto ^
La pietà rinascente, ed anco parve
Che del furor sviato avrìa T effetto.
Ma fier portento in questo mezzo apparve:
Sul patibolo infame all^ improvviso ^i
Asceser quattro smisurate larve.
Stringe ognuna un pugnai di sangue intriso^
Alla strozza un capestro le molesta,
Torvo il cipiglio, dispietato il viso^
E scomposte le chiome in su la testa,
0)me campo di biada già matura,
Nel cui mezzo passata è la tempesta.
E suUa fronte arroncigliata e scura
Scritto in sangue ciascuna il nome avea,
Nome terror de^regi e di natura.
Damiens^ Funo, Ankastrom^d T altro dicea,
E F altro Ravagliacco^^^ ed il suo scritto
D quarto colla man si nascondea^'.
Da queste Dire ^' avvinto il derelitto
Sire Capeto^^ dal maggior de^ troni
Alla mannaia già facea tragitto.
E a quel Giusto simil che fraMadroni
Perdonando spirava, ed esclamando:
Padre, Padre, perchè tu m'abbandoni?
Per chi a morte lo tragge anch^ei pregando.
Il popol mio, dicea, che si delira,
E il mio spirto. Signor, ti raccomando.
In questo dir con impeto e con ira
Un degli spettri sospingendo il venne
Sotto il taglio fatai ^ P altro ve ^1 tira.
Per le sacrate auguste chiome il tenne
La terza Furia, e la sottil rudente ^^
Quella quarta recise alla bipenne.
Alla caduta dell' acciar tagliente
S'aprì tonando il cielo, e la vermiglia
Terra si scosse, e il mare orribilmente.
cìnto sECOimo 47
Tremonne il mondo, e per la maraviglia
E pel terror dal fireddo al caldo polo ^^
Palpitando i Potenti alzar le ciglia.
Tremò Levante ed Occidente. II solo
Barbaro Celta, in suo furor più saldo,
Del ciel derise e della terra il duolo ^
E di sua libertà spietato e baldo
Tuffò le stolte insegne e le man ladre
Nel sangue del suo Re fumante e caldo;
E si dolse cbè misto a quel del Padre
Quello pur anco non scorreva, ahi rabbia!
Del regal Figlio e dell^ augusta Madre.
Tal di boni un branco, a cui non abbia
L^ ucciso tauro appien sazie le canne,
Anche il sangue ne lambe in su la sabbia.
Poi ne^ presepi insidiando vanne
La vedova giovenca ed il torello,
E rugghia, e arrota tuttavia le zanne;
Ed ella, che i ruggiti ode al cancello.
Di doppio timor trema, e di quell^ugne
Si crede ad ogni scroscio esser macello^^
Tolta al dolor delle terrene pugne
Apriva intanto la grand^Alma il volo.
Che alla prima Gagion la ricongiugne.
E ratto intomo le si fea lo stuolo
Di quell^ ombre beate, onde la Fede
Stette, e di Francia sanguinossi il suolo.
E qual le corre al collo, e qual si vede
Stender le braccia, e chi P amato volto,
E chi la destra, e chi le bacia il piede ^7:
Quando repente della calca il folto
Ruppe un^ Ombra dogliosa, e con un rio
Di largo pianto sulle guance sciolto.
Me, gridava, me^^ me lasciate al mio
Signor prostraimi, oh date il passo! E presta
Al pie regale il varco ella s^ aprio.
48 BASSVUXUffi , CANTO SEGOIfDO
Dolce un guardo abbassò su quella mesta
Luigi: e, Chi sei? disse: e qual ti tocca
Rimorso il core 7 e che ferita è questa 7
Alzati) e schiudi al tuo dolor la bocca.
MB
CAjyrO TERZO
La fronte sollevò, rissossi in piedi
L^ addolorato Spirto, e, le pupille
Tergendo, a dire incominciò: Tu vedi,
Signor, nel tuo cospetto Ugo BassviUe,
Della Francese 'Libertà mandato
Sul Tebro a suscitar le ree scintille.
Stolto, che volli coU^immobil fato
Cozzar della gran Roma, onde ne porto
Rotta la tempia, e il iBanco insanguinato^
Che di Giuda il Leon' non anco è morto ^
Ma vive e rugge, e il. pelo arraffa e gli occhi,
Terror d'Egitto, e d'Israel conforto^
E se monta in furor, Paste e gli stocchi
Sa spezzar de' nemici, e par che gridi:
Son la forza di Dio, nessun mi tocchi.
Questo Leone in Vaticano io vidi
Far coli' antico e venerato artiglio
Securì e sgombri di Quirino i lidi^
E a^me, che nullo mi temea periglio.
Fé con un crollo deUa sacra chioma
Tremanti i polsi, e riverente il ciglio*.
Allor conobbi che fatale è Roma,
Che la tremenda vanità di Francia
Sul Tebro è nebbia che dal Sol si doma^
E. le minacce una sonora ciancia.
Un lieve insulto di villana auretta
D'abbronzato guerriero in su la guancia.
MoHTi. Poemetti. 4
5o BASSVILLIAICA
Spumava la Tirrena onda soggetta
Sotto le Franche prore, e la premia
n timor della Gallica vendetta^
E tutta per terror dalla Scillea
Latrante rupe la selvosa schiena
Infino all^Alpe FAppennin scotea.
Taciturno ed mnil volgea P arena
L^Amo frattanto, e paurosa e mesta
Chinava il Volto la regal Sirena.
Solo il Tebro levava alto la testa,
E all^elmo polveroso la sua donna
In Campidoglio rimettea la cresta:
E divina guerriera in corta gonna,
Il cor più che la spada allMre e all^onte
Di Rodano opponeva e di Garonna;
In Dio fidando, che i trecento al fonte ^
D^Arad prescelse, e al Madianita altero
Fc le spalle voltar, rotta la fironte^
In Dio fidando, io dico, e nel severo
Petto del santo suo Pastor, che solo
In saldo pose la ragion di Piero.
Dal suo pregar, che dritto spiega il volo
Dell^ Etemo all^ orecchio, e sulle stelle
Porta i sospiri della terra e il duolo,
I turbini fìir mossi e le procelle,
Che del Varo sommersero P antenne^
Per le Sarde e le Corse onde sorelle.
Ei sol tarpò del Franco ardir le penne ^
L^onor d^talia vilipesa, e quello
Del Borbonico nome egli sostenne.
E cento volte sul destin tuo fello
Bagnò di pianto i rai. Per lo dolore
La tua Roma fedel pianse con elio.
Poi cangiate le lagrime in furore.
Corse urlando col ferro, ed il mio petto
Cercò d^ orrende faci allo splendore:
CANTO T£RZO 5l
E spense il suo magnanimo dispetto
Sì nel mio sangue, ch^io fui pria di rabbia,
Poi di pietade miserando obbietto.
Eran sangue i capei, sangue le labbia,
E sangue il seno^ fé del resto un lago
La ferita, che miri, in su la sabbia.
E me, cui tema e amor rendean presago'
Di maggior danno, e non avea consiglio,
Più cbe la moi*te, combattea T immago
Dcir innocente mio tenero figlio
E della sposa, abi lasso! onde paura
Del lor mi strinse, non del mio perìglio.
Ma come seppi che patema cura
Di Pio salvi gli avea, brillommi il core,
E il suo sospese palpitar natura.
Lagrimai di rimorso, e sull^ errore®
Che già lunga stagion Palma travolse,
La carità poteo, più che il terrore.
Luce dal Giel vibrata allor mi sciolse
Dell'intelletto il buio, e il cor pentito
Al mar di tutta la pietà si volse.
L'ali apersi a un sospiro, e l'infinito
Amor nel libro, dove tutto è scritto,
n mio peccato cancellò col dito.
Ma Giustizia mi niega al ciel tragitto,
E vagante Ombra qui mi danna, intanto
Cihe di Francia non vegga ulto il delitto»
Questi mei disse, che mi viene accanto
(Ed accennò'l suo duca), e che m'ha tolto
Alla fiumana dell'eterno pianto.
Tutte drizzaro allor quell'alme il volto
Al celeste campion, che in un sorriso
Dolcissimo le labbra avea disciolto.
Or tu per l'alto Sir del Paradiso,
Che al suo grembo t'aspetta e il cicl disserra,
(Prosegui r Ombra più infiammata in viso)^
52 * BÀSSTILLIA51
Per le pene tue tante in su la terra ^
Alla mia stolta fellonia perdona,
Né raccontar lassù che ti fei guerra.
Tacque, e tacendo ancor dicea: Perdona^
E r affollate intomo Ombre pietose
Concordemente replicar: Perdona.
ÀUor TÀlma regal con disiose
Braccia si strinse Fawersaria al seno,
E dolce in caro favellar rispose:
Questo amplesso ti parli, e noto appieno
Del Re, del padre il core e dell'amico
Ti faccia, e sgombri il tuo timor terreno.
Amai, potendo odiarlo, anco il nemico^
Or m'è tolto il poterlo, e Palma spiega
Più larghi i voli dell'amore antico.
Quindi là dove meglio a Dio si prega,
n pregherò che presto ti discioglia
Del divieto fatai che qui ti lega.
Se i tuoi destini intanto, o la tua voglia
Alla sponda giammai ti torneranno.
Ove lasciasti la trafitta spoglia^
Per me trova le due che là si stanno 7
Mie regali Congiunte, e che gli orrendi
Piangon miei mali , ed il più rio non sanno.
Lieve sul capo ad ambedue discendi
Pietosa vision (se la tua scorta
Lo ti consente), e il pianto ne sospendi.
Di tutto che vedesti, annunzio apporta
Alle dolenti^ ma del mio morire
Deh! sia F immago fuggitiva e corta.
Pingi loro piuttosto il mio gioire,
Pingi il mio capo di corona adomo
Che non si frange, né si può rapire.
* Di' lor che feci in sen di Dio ritomo ,
Ch'ivi le aspetto, e là regnando in pace,
Le nostre pene, narreremci un giorno.
CANTO TEBZO 53
Vanne poscia a quel grande, a quel Terace
Nume del Tebro, in cui la riverente
Europa affissa le pupille e tace^
Al sommo Dittator della vincente
Repubblica di Cristo, a Lui che il regno
Sorti minor del egre e della mente:
Digli che tutta a sua pietà consegno
La Franca Fede combattuta^ ed Egli
Ne sia campione e tutelar sostegno.
Digli che tuoni dal suo monte, e svegli
L^addormentata Italia, e aUa ritrosa
Le man sacrate avvolga entro i capegli^
Si éhe dal fango suo la neghittosa
Alzi la fronte, e sia delle sue tresche
Contristata una volta e vergognosa.
Digli che invan Tlbere e le Tedesche
E Parmi Alpine e T Angliche e le Prasse
Usciranno a cozzar colle Francesche^
Se non v^ha quella onde Mosè percusse^
Amalecco quel di che i lunghi preghi
Sul monte infino al tramontar produsse.
Salga egli dunque sull^Qrebbe, e spieghi
Alto le palme ^ e s^awerrà che stanco
Talvolta il polso al pio voler si nieghi,
Gli sosterranno il destro braccio e il manco
GP imporporati Aronni e i Galebidi,
De^quai soflblto e coronato ha il fianco*
Parmi de' nuovi Amaleciti i gridi
Dall'Olimpo sentir, parmi che Pio
Di Francia, orando, ei sol g|i scacci e snidi.
Quindi vèr lui di tutto il dover mio
Sdebiterommi in cielo, e finch'ei vegna.
Di sua virtù ragionerò con Dio.
Brillò, ciò detto, e sparve: e non è degna
Ritrar terrena fantasia gli ardori.
Di ch'ella il cielo balenando segna.
5{ BÀSSTILLIANÀ
Qual si solleva il Sol fra le minori
Folgoranti sostanze, allor che spinge
Sulla fervida cturva i corridori,
Che d^un solo color tutta dipinge
L^ eterea volta, e ogni altra stella un velo
Ponsi alla fironte, e di pallor si tinge ^
Tal fiammeggiava di sidereo zelo,
E fra mille seguaci Ombre festose
Tale ascendeva la belVÀlma al cielo.
Rideano al suo passar le maestose
Tremule figlie della luce, e in giro
Scotean le chiome ardenti e rugiadose.
Ella tra lor d^ amore e di desiro
Sfavillando s^ estolle, infin che giunta
Dinanzi al Trino ed increato Spiro,
Ivi queta il suo volo, ivi s^ appunta
In tre sguardi beata, ivi il cor tace,
E tutta perde del desio la punta.
Poscia al crin la corona del vivace
Amaranto immortai, e sulle gote
Il bacio ottenne dell^ etema pace.
E allor 8^ udirò consonanze e note
D^inefifabil dolcezza, e i tondi balli
Ricominciar delle stellate rote.
Più veloci estdtarono i cavalli
Portatori del giorno^ e di grand^ orme
Stampar Tarringo degli eterei calli.
Gioiva intanto del misfatto enorme
L^ accecata Parigi, e suU^ arena
Giacea la regal testa e il tronco informe;
E il caldo rivo della sacra vena
La ria terra bagnava, ancor più ria
Di quella ohe mirò d^Atreo la cena.
Nuda e -squaUida intomo vi venia
Turba di larve di quel sangue ghiotte,
E tutta di lor bruna era la via.
CÀUTO TEBZO 55
Qual da fesse mura|j^e e cave grotte
Sbucano di Minèo Patre figliuole,
Quando «ai fiorì il color toglie la notte ^
GhMr le vedi e redire, e far carole
Sul capo ai Viandante, o sovra il lago,
Finche non esce a saettarle il Sole;
Non altrimenti a volo strano e vago
D^ogni parte erompea F oscena schiera,
Ed ulular s^ udiva, a queU^ immago
Che £àA sul mai^o d^una fonte nera
I lupi sospettosi e vagabondi
A ber venuti a truppa in su la sera.
Gorrean quei vani simulacri immondi
Al sanguigno ruscel, sporgendo il muso
L^un dall^altro incalzati e sitibondi.
Ma in guardia vi sedea nell^ arme chiuso
Un fiero Gherubin che, steso il brando,
Quel barbaro sitir rendea deluso.
E le larve a dar volta, e mugolando
A stiparsi, e parer vento che rotto
Fra due scogli si vada lamentando.
Prime le quattro comparìan che sotto
Poc^anzi al taglio dellMnfame scure
L^ infelice Gapeto avean tradotto.
Di quei tristi seguian Fatre figure 9
Che d^uman sangue un di macchiar le glebe
Là di Marsiglia nelle selve impure.
Indi a guisa di pecore e di zdi>e
Venia lorda di piaghe il corpo tutto
D** Ombre una vile miserabil plebe:
Ed eran quelli che fecondo e brutto
Del proprio sangue fecero il mal tronco
Ghe die di libertà sì amaro il frutto.
Altri forato il ventre, ed altri ha cionco
Di capo il busto, e chi trafitto il lombo,
E chi del braccio e chi del naso è monco*,
56 BASSVILLIÀ5A
E tutti intorno al regio sangue un rombo,
Un murmure. facean, che cupo il fiume
Dai cavi gorghi ne rendea rimbombo.
Ma lungi li tenea la punta e il lume
Della celeste spada, che mandava
Su i foschi ceffi un pallido barlume.
Scendi, Pìeria Dea, di questa prava
Masnada i più famosi a rammentarme,
Se Porror la memoria non ti grava.
Dimmi tu, che li sai, gli assalti e Parme
Onde il Soglio percossero e la Fede,
E di nobile bile empi il mio carme.
Capitano di mille alto si vede *^
Uno spettro passar lungo ed arcigno.
Superbamente coturnato il piede.
È costui di Ferney Tempio e maligno
Filosofante, ch^or tra^ morti è corbo,
E fu tra^vivi poetando un cigno.
Gli vien seguace il fiiribondo e torbo
Diderotto, e colui che dello spirto '*
Svolse il lavoro, e degli affetti il morbo.
Vassene solo P eloquente ed irto '*
Orator del Contratto, e al par del manto
Di sofo ha caro P afirodisio mirto ,
Disdegnoso d'aver compagni accanto
Fra cotanta empietà; che al trono e all'ara
Fé guerra ei si, ma non d^'Santi al Santo.
Segue una coppia nequitosa e rara
Di due tali accigliate anime ree.
Che Q diadema ne crolla e la tiara.
L'una raccolse dell'umane idee *'
L'infinito tesoro, e l'oceano
Ove stillato ogni venen si bee.
Finse l'altra del fosco Americano '^
Tonar la causa; e regi e sacerdoti
Col fulmine ferì del labbro insano.
CANTO TBBZO ^7
Dove te lascio, che per Paltò roti *^
Sì strane ed empie le comete, e il varco
D^ogni ddirio apristi a^tuoi nipoti?
E te, che contro Luca e contro Marco *^,
E contro gli altri duo cosi librato
Scocchi lo strai dal sittogistic^ arco?
Questa d^ insania tutta e di peccato
Tenebrosa falange il fronte avea
Dal fulmine celeste abbrustolato ^
E della piaga il solco si vedea
Mandar fumo e faville, e forte ognuno
Di quel tormento dolorar parca.
Curvo il capo, ed in lungo abito bruno
Venia poscia uno stuol quasi di scheltrì,
Dalle vigìlie attriti e dal digiuno.
Sul ciglio rabbassati ha i larj^ feltri.
Impiombate le cappe, e il pie si lento,
Cihe le lumacce al paragon son veltri.
Ma sotto il faticoso vestimento
Gdan ferri e veleni^ e qual tra^ vivi.
Tal vanno ancor tra^ morti al tradimento.
Dell^ Ipocrito dlpri ci son gli schivi
Settator tristi, per via bieca e torta
Con Cesare e del par con Dio cattivi.
Si crudo é il Nume di costor, sì morta,
Sì ripiena d'orror del ciel la strada,
Che a creder nulla, e a disperar ne porta.
Per lor sovrasta al Pastoral la Spada,
Per lor tant^alto il Soglio si sublima,
Ch^ alfine è forza che nel fango cada.
Di lor empia fucina uscì la prima
FaviDa, che segreta il casto seno
Della Donna di Pietro incende e lima.
Né di tal peste sol va caldo e pieno
Borgofontana , ma d^ Italia mia
Ne bulica e ne pute anco il terreno.
58 BÀSSVILLIÀNA , CANTO TERZO
Ultimo al fier concilio comparia '7,
E su tutti gigante soUevarse
CoIFomero sovran si discopria,
E colle chiome rabbuffiite e sparse
Colui che al discoperto e senza tema
Venne contro F Eterno ad accamparse^
E ne sfidò la folgore suprema,
Secondo Gapaneo, sotto lo scudo
D^un gran delirio ch^ei chiamò Sistema.
Dinanzi gli fuggia sprezzato e nudo
De^ minor spettri il vulgo: anche Oocito
ITavea ribrezzo, ed abborrìa quel crudo.
Poich' ebber densi e torri circuito
n cadayero sacro, ed in lui sazio
Lo sguardo, e steso sorridendo il dito^
Con fiera dilettanza in poco spazio
Strinsersi tutti, e diersi a far parole,
Quasi sospeso il sempiterno strazio*
A me (dicea Pun d^essi), a me si vuole
Dar dell^opra Ponor, che primo osai
Spezzar lo scettro, e lacerar le stole.
A me piuttosto, a me, che disvelai
De^ Potenti le firodi (un altro grida),
E all^uom dischiusi sul suo dritto i rai.
Perchè Puom surga, e il suo tiranno uccida,
Uop^ è ( ripiglia un altro) in pria dal fianco
DelP etemo timor torgli la guida.
Questo fé lo mio stil leggiadro e franco,
E il sai Samosatense, onde condita '^
L' empietà piacque, e Puom di Dio fu stanco.
Allor fu questa orrìbil voce udita:
r fei dì più, che Dio distrussi: e tacque;
Ed ogni fronte apparve sbigottita.
Primamente un silenzio cupo nacque ^
Poi tal s^ intese un mormorio profondo,
Che lo spesso cader parca dell^ acque,
Allor che tutto addormentato è il mondo.
CANTO QUARTO
Batte a voi più sublime aura sicura
La farftJletta dellMngegno mio,
Lasciando la città della sozzura.
E dirò come congiurato uscio
A dannaggio di Francia il mondo tutto:
Tale il senno supremo era di Dio.
Canterò Pira dell^ Europa e il lutto,
Canterò le battaglie j ed in Tcrmiglio
Tinto de^ fiumi e di due mari il flutto.
E d'altro pianto andar bagnata il ciglio
La bell'alma vedrem, di cbe la Diva
Mi va cantando Taffimnoso esigilo.
n bestemmiar di quei superbi udiva
La dolorosa; ed accennando al duce
La fiera di Renallo ombra cattiva:
Come, disse, ira' morti si conduce
Colui? Di polpe non si veste e d'ossa?
Non bee per gli occhi tuttavia la luce 7
E r altro: La sua salma ancor la scossa'
Di morte jpon sentì; ma la governa
Dentro Marsiglia d'un demón la possa;
E l'alma geme fira i perduti etema-
mente perduta: né a tal fato è sola.
Ma molte, cbe distingue Ira superna.
E in Èrebo di queste assai ne vola
DaU' infame congrèga, in cbe s'aflSda
Cotanto Francia, *ahi stolta ! e si consola.
6o BASSVIIXIÀNÀ
Quindi un demone spesso ivi s^ annida
In uman corpo, e scaldane le vene,
E siede e scrive nel Senato e grida ^
Mentre lo spirto aUe cocenti pene
D^Ayemo si martira. Or leva il viso;
E vedi all^ uopo chi dal ciel ne viene.
Levò lo sguardo : ed ecco all^ improvviso
Là dove il Cancro il pie d^Alcide abbranca,
E discende la via del Paradiso ,
Ecco aprirsi del ciel le porte a manca
Su i cardini di bronzo; e una virtude
Intrinseca le gira e le spalanca.
Risonò d^un fragor profondo e rude
Dell^ Olimpo la volta, e tre guerrieri
Calar fur visti di sembianze crude.
Nere sul petto le corazze, e neri
Nella manca gli scudi, e nereggianti
Sul capo tremolavano i cimieri;
E furtive dall^ elmo e folgoranti
Scorrean le chiome della bionda testa,
Per lo collo e per Tornerò ondeggianti.
La volubile bruna sopravvesta
Da brune penne ventilata addietro
Rendea rumor di pioggia e di tempesta.
Del sopracciglio sotto Parco tetro
Uscian lampi dagli occhi, uscia paura,
E la faccia parea bollente vetro.
Questi, e Faltro campion seduto a cura
Dell^ estinto Luigi, Angeli sono .
Di terrore, di morte e di sventura.
Venil* son usi dell' Etemo al trono
Quando acerba a' mortai volge la sorte ,
E rompe la ragion del suo perdono.
D^ Egitto il primo F incruente porte*
Nell'arcana percosse on*ibil nqtte,
Che fiur de' padri le speranze morte.
CANTO QUAKTO 6l
L'altro è quel che sul campo estinte e rotte
Lasciò le fòrze che il superbo Assiro ^
Contro Fumile Giuda avea condotte.
Dalla spada del terzo i colpi uscirò^,
Che di pianto sonanti e di ruina
Fischiar per Paure di S'ion s^ udirò,
Quando la provocata ira divina
Al mite genitor fé d^Absalone
Caro il censo costar di Palestina.
LSiltimo fiero volator garzone^
Uno è de^sei cui vide F accigliato
Ezechiello arrivar dall^ Aquilone ^
In mano aventi uno stocco aflBlato,
E percotenti ognun che per la via
Del Tau la fronte n9n vedean segnato.
Tale e tanta dal ciel se ne venia
Dei procellosi Arcangeli possenti
La terribile e nera compagma^
Come gruppo di folgori cadenti
Sotto povero ciel, quando sparute
Taccion le stelle, e fremon F onde e i venti.
n sibilo senti delle battute
Ale Parigi^ ed arretrò la Senna
Le sue correnti stupefatte e mute.
Vogeso ne tremò, tremò Gebenna^
E il Bebricio Pirene, e lungo e roco
Corse un lamento per la mesta Ardenna.
Al lor primo apparir dier ratto il loco
L^ assetate del Tartaro caterve.
Un grido alzando lamentoso e fioco.
Come fugge talor delle proterve
Mosche lo sciame che alla beva intento
Sul vaso pastoral brulica e ferve ^
Che al toccar della conca in un momento
Levansi tutte, e quale alla muraglia,
Qual si lancia alla mano e quale al mento :
62 BASSVa.LUNA
Tal si dilegua V infemal ciurmaglia \
Ed altri una pendente nuvoletta,
D^ira sbuffando, a lacerar si scaglia^
Sovra il mar tremolante altri si getta,
E sveglia le procelle; altri s^awolve
Nel nembo genitor della saetta;
Si turbina taluno entro la polve ;
E tal altro col guizzo del baleno
Fende la terra, e in fumo si dissolve.
Dal sacro intanto orror del tempio usciéno
Di mezzo all'atterrate are deserte
Due Donne in atto d'amarezza pieno'.
L' una velate, e V altra discoperte
Le dive luci avea, ma di gran pianto
D'ambo le gote si parean coverte.
Era un vel bianco della prima il manto
Che parte cela, e parte all'intelletto
Rivela il corpo immaculato e santo.
Una veste inconsutile di schietto
Color di fiamma 1' altra si cingea,
Siccome il pellican piagata il petto:
E nella manca l'una e l'altra Dea,
E nella dritta in mesto portamento
Una lucida coppa sostenea:
E sculto ciascheduna un argomento
Àv^a di duolo, in bei rilievi espresso
Di nitid'oro e di forbito argento.
In una sculto si vedea con esso ^
n figlio e la consorte un Re fuggire,
Pensoso più di lor che di sé stesso;
E un dar subito all'arme, ed un firemirc
Di cruda plebe, e dietro al fuggitivo,
Siccome veltri dal guinzaglio, uscire;
Poi tra le spade ricondur cattivo ,
E tra 1' onte quel misero innocente
Morto al gioire , ed al patir sol vivo.
CAUTO QVAATO 63
Mirasi dopo una perversa gente ^
Cercar fhrendo a morte una Regina,
Dir non so se più bella o più dolente ^
Ed ancisi i custodi alla meschina,
E per rabbia delusa ( orrendo a dirsi ! )
Trafitto il letto e la regal cortina.
Vera Furto in un^ altra, ed il ferirsi'^
Di cinquecento incontro a mille e mille,
E delibarmi il firagor parca sentirsi.
Formidabile il volto e le pupille.
La Discordia scorrea tra Pirte lance,
Tra la polve, tra U fumo e le fiaiville,
E i tronchi capi e le squarciate pance.
Agitando la face che sanguigna
De^ combattenti scoloria le guance.
Vienle appresso la Morte che digrigna
I bianchi denti, ed i feriti artiglia
Con la grand^ unghia antica e fetrugigna:
E pria r anime felle ne ronciglia
Fuor delle membra, e le rassegna in fi-etta
Fumanti e nude allMnfemal famiglia^
Poi, ghermite le gambe, ne si getta
I pesanti cadaveri alle spalle.
Nò più vi bada, e innanzi il campo netta.
Dietro è tutto di morti ingombro il calle ^
n sangue a fiumi il rio terreno ingrassa,
E lubrico s* avvia verso la valle.
Scorre intomo U Furor coll^asta bassa,
Scorre il Tumulto temerario, e il Fato
Ch^un ne percuote, ed un ne salva e passa.
Scorre il lacero Sdegno insanguinato,
E rOrror co' capelli in fironte ritti.
Come r istrice gonfio e rabbuffato.
Al fine in compagnia de' suoi delitti
Vien la proterva Libertà Francese,
Gh' ebbra il sangue si bee di quei trafitti:
64 BASSVnXIAKA.
E son sì vivi i volti e le contese,
Che non tacenti, ma parlanti e vere
Quelle immagini credi e quell^ offese.
Altra scena di pianto, onde il pensiere"
Rifagge, e in capo arricciasi ogni pelo,
Nella terza scultura il guardo fere.
Sacro all^ inclita Donna del Carmelo
Aprìasi un tempio, e distendea la notte
Sul primo sonno de' mortali il velo :
Se non che dell^ oscure Artiche grotte
Langufan le mute abitatrici al cheto
Raggio di luna indebolite e rotte.
Strascinavasi quivi un mansueto
Di ministri di Dio sacro drappello,
Ch'empio dannava popolar decreto.
Un barbaro di lor si fea macello:
Ed ei, che schermo non. avean di scudo
Al calar del sacrilego coltello:
Pietà, Signor, porgendo il collo ignudo.
Signor, pietà, gridavano: e venia
In quella il colpo inesorato e crudo.
Cadeau le teste , e dalle gole uscxa
Parole e sangue^ per la polve il nome
Di Gesù gorgogliando e di Maria.
E F un su r altro si giacean, siccome
Scannate pecorelle, e fean ribrezzo
L'aperte bocche e le riverse chiome.
La luna il raggio ai visi esangui in mezzo
Pauroso mandava e verecondo,
A tanta colpa non ben anco avvezzo;
Ed implorar parea d'un vagabondo
Nugolo il velo, ed affrettar raminga
Gli atterriti cavalli ad altro mondo.
Chi mi darà le voci, ond'io dipinga
U subbietto feral che quarto avanza,
Si eh' ogni ciglio a lagrimar costringa ?
CANTO QUARTO 65
Uom d^ affannosa, ma regal sembianza,
À cui, rapita la corona e il regno,
Sol del petto rimasta è la costanza,
Venia di morte a vii supplizio indegno
Chiamato, ahi lasso! e rei traevan quelli
Che fiir dell'amor suo poc' anzi il segno.
Quinci e quindi accorrean sciolte i capelli
Consorte e suora ad abbracciarlo, e gli occhi
Ognuna avea conversi in due ruscelli.
Stretto al seno egli tiensi in su i ginocchi
Un dolente fanciullo, e par che tutto
Negli amplessi e nerbaci il cor trabocchi;
E si gU dica: Da' miei mali istrutto
Apprendi, o figlio, la yirtude, e cogli
Di mie fortune dolorose il frutto.
Stabile e santo nel tuo cor germogli **
n timor del tuo Dio, né mai d'un trono ,
Mai lo stolto desir l'alma t'invogli.
E se l'ira del Giel sì tristo dono
Faratti, il padre ti rammenta, o figlio;
Ma serba a chi l'uccide il tuo perdono.
Questi accenti parca, questo consiglio
Profferir l'infelice; e chete intanto
Gli discorrean le lagrime dal ciglio.
Piangean tutti d'intorno, e dall' un canto
Le fiere guardie impietosite anch' esse
SciogUean, poggiate suUe lan^e, il pianto.
Gotai sul vaso acerbi fatti imprèsse
L'artefice divino; e se vietato,
Se conteso il dolor non gliel avesse,
U resto de' tuoi casi effifi(i*ato
Vavrìa pur anco, o^e tradito, e degno
Di miglior scettro e di più giusto fato.
E ben lo cominciò; ma l'alto sdegno
Quel lavoro interruppe, e alla pietate
Cesse alfin l'arte, ed all'orrór l'mgegno.
Monti. Poemetti. 5
66 BÀSSyJLLUNA
Poiché di doglia piene e d^ onestate
Si fiir r alme due Dive a quel feroce
Spettacolo di sangae approssimate,
Sul petto delle man fero una croce ^
E sull^ illustre estinto il guardo fise,
Senza moto restarsi e senza voce,
Pallide e smorte come due recise
Caste viole, o due ligustri occulti,
Cui né Taura né Palba ancor sorrise.
Poi con lagrime rotte da^ singulti
Baciar r augusta fronte, e ne serraro
Gli occhi nel sonno del Signor sepulti^
Ed il coi*po composto amato e caro.
Vi pregar sopra F etemo riposo,
Disser F ultimo vale, e sospiraro.
E quindi in riverente atto pietoso
n sacro sangue, di che tutto orrendo
Era intomo il terreno ahbominoso,
Nell^ auree tazze accolsero piangendo.
Ed ai quattro guerrier vestiti a bruno
Le presentar spumanti^ una dicendo:
Sorga da questo sangue un qualcheduno
Yendicator, che col ferro e col foco
Insegna chi lo sparse^ né veruno
Del delitto si goda, né sia loco
Che lo ricovri: i flutti avversi ai flutti,
I monti ai monti, e V armi all'armi invoco.
Il tradimento tradimento frutti^
L'esiglio^ il laccio, la prigion, la spada
Tutti li perda, e li disperda tutti.
E chi sitia più sangue , per man cada *^
D'una virago, ed anima funebre
À dissetarsi in Acheronte vada.
E chi n'arso da superba febre '^,
Del capo altrui si fea sgabello al soglio ,
Sul patibolo chiuda le palpebre;
CÀUTO QUARTO 67
E gli emirnga il carnefice P orgoglio^
Né ciglio il pianga^ uè cor sia che, fìiora
Del suo tardi morir, senta cordoglio.
La veneranda Dea parlava ancora,
E già fuman le coppe ^ e a quei campioni
n cherubico volto si scolora;
Pari a quel della Luna, allor che proni
Ruota i pallidi raggi, e in giù la tira
n poter delle Tessale cannoni ;
E rocchio sotto Telmo un terror spira,
Che buia e muta Paria ne divenne,
E tremò di quei sguardi e di quelP ira.
Dei quattro opposti venti in su le penne
Tutti a un tempo fèr vela i Cherubini,
Ed ogni vento un Gherubin sostenne.
Già il Sol lavava lagrimoso i crini
Nell^ onde Maure , e dal timon sciogliea
Impauriti i corrìdor divini^
Ghè la memoria ancor retrocedea
Dal veduto delitto, e chini e mesti
Espero all^ auree stalle i conducea ^
Mentre la notte di pensier funesti
E di colpe nudrice e di rimorsi
Le mute riprendea danze celesti :
Quando per Paria cheta erte levorsi
Le quattro oscure vision tremende,
E Puna all^ altra tenea vólti i dorsi.
Glimte là dove la folgore prende
L'acuto volo, e furibonda il seno
Della materna nuvola scoscende^
Inversero le coppe, e in un baleno
Imporporossi il cielo, e delle stelle
Livido fessi il virginal sereno.
Inversero le coppe, e piobber quelle
n fatai sangue, che tempesta roggia
Par di vivi carboni e di fiammelle.
68 BÀssvnxiJUffA
Sotto la strana rubiconda pioggia
Ferve irato il terren che la riceve ,
E rompe in fìimo^ e il fumo in alto poggia,
E i petti invade penetrante e lieve
E le menti mortali, e fa che d'ira
Alto incendio da tutte si soUeve.
Arme firemon le genti, arme cospira
L' Orto e V Occaso, T Austro e rA(juilone,
£ tuttacpianta Europa arme delira.
Quind' escono del fier Settentrione *^
L'Aquile bellicose, e coli' artiglio
Sfrondano il Franco tricolor bastone.
Quinci move dall'Anglico coviglio
n biondo imperator della foresta
n tronco stelo a vendicar del Giglio.
Al fraterno ruggito alza la testa *^
L'Annoverese impavido cavallo,
E il campo colla soda unghia calpesta.
D' altra parte sdegnosa esce del vallo
E maestosa la gran Donna Ibera
Al crudele di Marte orrido ballq^
E scossa la cattolica bandiera.
In su la rupe Pire^ea s'affaccia,
Tratto il brando e calata la visiera^
E la Celtica putta a^to minaccia ,
E r osceno berretto all^ ribalda
Scompiglia in capo, e per Io fango il caccia.
Ma del prisco valor ripiena e calda
La Sovrana dell'Alpi in su l' entrata
Ponsi d' Italia, e ferma tiensi e salda 5
E alla nemica la fatai giornata '7
Di Guastalla e d'Assietta ella rammenta,
E l'ombra di Bellisle invendicata,
Che rabbiosa s' aggira, e si lamenta
In vai di Susa, ^ arretra per pauri^
Qualun^e la vendetta ancor ritenta.
CAUTO QUARTO 69
Mugge firattanto tempestosa e scura
Da lontan Tonda deDa Sarda Teti,
Scoglio del Franco ardire e sepoltura.
Mugge Fonda Tirrena, irrequieti
Levando i flutti, e non aver si pente
Da pria sommersi i mal raccolti abeti.
Mugge Tonda d^ Atlante orribilmente,
Mugge Tonda Brittanna, e al suo muggito
Rimormorar la Baltica si sente.
Fin daU^ estremo Americano lito
n mar s^ infuria, e il Lusitan n^ ascolta
Nel buio della notte il gran ruggito.
Sgomentossi, ristette, e a quella volta
Drizzò r orecchio di BassviUe anch'essa
la attonit' Ombra in suo dolor sepoltSL
Palpitando ristette, e alla convessa
Region sollevando la pupiUa
Traverso all'ombra sanguinosa e spessa.
Vide in su per la truce aria tranquilla
Correr spade infocate^ ed aspri e cupi
^P intese i cozzi, ed un clangor di squilla.
Quindi gemere i boschi, urlar le rupi,
E piangere le fonti, e le notturne
Strigi solinghe, e ulular cagne e lupi^
E la quiete abbandonar dell'urne
Pallid' ombre fiir viste, e per le vie
Vagolar sospirose e taciturne^
Starsi i fiumi, sudar sangue le pie
Immagini de' templi, ed involato
Temer le genti eternamente il die.
O pietosa mia guida, die campato
M' hai dal lago d'Avemo , e che mi porti
A sciog^ere per gli occhi il mio peccato^
Certo di stragi e di sangue e di morti
Segni orrendi vegg'io: ma come? e donde?
E a chi propizie volgeran le sorti?
>
70 bassvillura, cauto quarto.
Ài suo duca si disse, e avea feconde
Di pianto la firancese Ombra le ciglia.
Vienne meco, e il saprai, F altro risponde '*;
Eà amoroso per la man la piglia.
NOTE
ALLA BASSVILLIANA
AFFERTIMENTO DELL'EDITORE
Per queste NotCj rispetto ai primi due Canti j non credo di poter
prescindere da quelle stampate nel 1795 in Roma presso Luigi
Perego Salvionij giacché, per quanto ritraesi dalle sue lettere pub'
blicate postume^ sono lavoro delV Autore medesimo. Non avendo
però egli fatto altrettanto sugli altri due Canti^ a corredo di questi
ristampo le brevi Note che accompagnano la Bassyilliana nelle
varie edizioni della Società Tipografica dei Classici Italiani compi'
late da un amico del Monti, il quale se ne mostrava pienamente
soddisfatto.
RAGIONE DELLE NOTE
Dae cose si propone T autore di queste dichiarazioni: una di
soddisfare al desiderio del pubblico» nel quale, da che uscirono
alla luce i primi Ganti, fu sentita la non ingiusta querela che
mancassero questi di una certa necessaria illustrazione non meno
su i fatti, che sul modo di raccontarli.
L'altra si è di yendicare la Gantica dalle sciocche e mise-
rabili note deli' edizione d'Assisi e di Macerata , note dettate
dalla fame e stampate senza onestà. Ayendo poi il poeta sotto
un modesto titolo intrapreso a descrivere dei grandi ayrenimenti,
alla tognizione dei quali ha diritto non tanto V uomo di lettere,
che l'uomo del volgo, si è procurato che le presenti note con-
tentino l'ignorante ed il dotto, conducendo il primo per mano
nell'oscurità delle materie egualmente che dello stile, e rinfre^
scando all'altro le sue riflessioni, onde, di passeggiere ch'erano
nella sua mente, fissarle e perfezionarle: lo che credo noi lascerà
senza un quakhe diletto , ricordandogli la sua erudizione , e fa-
cendolo accorto del retto suo giudicare. E siccome il criterio
del volgo non è quello affatto dell'uomo di lettere, e all'uno e
all'altro tuttavia in argomento pubblico è dnopo di compiacere;
così, per conciliarne la differenza in modo che il commentatore
non sofiìra indebitamente la pena di questa disparità di opinioni,
riilitterato consideri che vi son molti eruditi che bisogna rispet-
tare, e consideri l'erudito che vi sono moltissimi illitterati cui
bisogna istniire.
y4 NOTE ALLA BASSVILLIANÀ
Faremo ancora, per dar ragione di tutto, alcune parole sulla
scelta del metro e dello stile. E in quanto al metro, vuoisi os-
servare che la terza rima più che l'ottava si adatta ad una
poesia in cui gli orrori e i delitti e la sferza del vizio denno
aver parte piili che le azioni virtuose ed eroiche, ad una poe-
sia, che cammina al suo fine non per vie aperte e visibili , ma
per sentieri pieni di tenebre e di mistero , perchè l'evento della
gran vertigine che sconvolge l'Europa, sempre è sospeso e
sempre più fugge dinanzi agli occhi della più attenta politica;
sembrando che Iddio n' abbia riserbata a sé solo la cognizione.
Ora ad un siffatto andamento di cose pare, o io m'inganno, che
la terzina si presti mirabilmente, sì perchè il capitolo si acco-
sta più all'indole misteriosa delle poesie profetiche, si perchè
concatenandosi l' idee al pari de' versi , ed incalzandosi senza
riposo l'una coU'altra, più si fa strada, più la mente si trova
sollevata, riscaldata e rapita.
Un altro motivo di quella scelta è stato di allontanare da
questo poema y qualunque siasi ^ il sospetto e l'aria di epico,
che, secondo le idee già ricevute, mal confarebbesi colla terza
rima ; meno poi col soggetto ehe si imprende a cantare, essendo
questa un' azione , anzi un cumulo d' azioni non solamente non
consumate , ma che tuttogìorno si moltiplicano e lentamente si
vanno sviluppando (e dovrei dire imbrogliando) sotto la penna
medesima del poeta. Quindi nessuno per avventura si avvisasse
mai di credere che il personaggio di Bassville sia l'oggetto
principale di questa Cantica. Egli n'è tanto l'eroe, quanto lo
è Dante della sua Commedia ; anzi assai meno : perocché Dante
.non solo interviene in qualità di spettatore a tutta V azione de-
scritta ne' suoi tre mondi , ma spesse volte v* interloquisce in
qualità di attore, e molte cose ancora vi accadono a suo solo
riguardo. Laddove nella nostra Cantica l'anima di Bassville non
è che una semplice passiva spettatrice dei tristi avvenimenti che
si descrivono. La loro scelta dipende tutta dall'arbitrio della fan-
tasia, e alle operazioni di questa presiede sempre la religione che
sottraendola alle regole ordinarie dell'umano intelletto, le dà l'ali
per volar dappertutto. Mi si dirà che allora il titolo dell' opera
è bugiardo ; né io ne dissento : ma chi ci assicura che questo
titolo le rimarrà sempre? Quante opere sono stale cominciate
con un nome, ed han terminato in un altro? e poi che monta
adesso una disputa di parole?
Dalla natura del soggetto discende quella dello stile ^ se-
NOTE ALLA BASSVILLUNA 75
oondo il precetto d'Oraiio e della ragione. È indubitato, seb-
bene assai pocbi lo sappiano, che la nostra lìngua in bocca di
ninno è così maschia , cosi veemente , così magnifica come in
qoella di Dante. Sempre nobili, sempre eleganti, sempre toscane
sono le sae locuzioni, non sempre però i suoi Tocaboli; e vili
e basse appaiono pure non di rado le sue immagini e i suoi
sentimenti, secondo che la bile ghibellina gl'intorbida la fantasia:
ond'è che a ragione egli intitolò Commedia questo suo strano
e marayiglioso poema. Ma quanto è agevole cosa l'imitarlo nei
suoi difetti, altrettanto è disastrosa T imitarlo nel bello; e se
diceva Virgilio esser piii facile rapir la clava ad Ercole, che
nn verso ad Omero, a più buon dritto potrebbe dirsi esser piiì
facile rapir il fulmine a Giove, che un verso a Dante.
L' autore della Cantica BassviUiana è ben lontano da così gran
pretensione. Non sarà poco se, disperando di andargli vicino
quando è sublime, lo avrà schivato quando è plebeo; sebbene
dal processo di queste note si comprenderà di leggieri che il
contemporaneo di Cimabne non è l'unico né il più caro idolo
a cui egli sempre sacrifica. Per la qual cosa a tutti qnelli che
si lagnano di dover leggere questa Cantica col vocabolario alla
mano, l'autore non può altro rispondere, se non che quando
scrivea, egli non pensava veramente all'ignoranza di tai leggito-
ri ; fra' quali poteva egli mai figurarsi esservi anime così corag-
giose, da giudicare e vilipendere quello che non intendono?
Anche quelli che lo rimproverano d' aver pescate nelle bolge
dantesche voci morte o bandite , siano ben persuasi che qui
Dante è imitato in tutt'altro che nei vocaboli , per la gravità e
purità dei quali egli riposa principalmente sull'autorità del
primo inappellabile maestro d'italiana eleganza, l'Ariosto , a cui
supplica umilmente questi spiriti fastidiosi di girare la loro
censura.
Coloro poi che per difetto di gusto non giungono a capire
come le parole, che chiamano antiquate, accrescono, se con
senno si adoprino , venerazione , dignità e virilità allo stile ;
coloro che torcono il naso alla vista d'un latinismo, e si di-
menticano che la lingua italiana, siccome figlia ed erede della
latina, ha tutto il diritto a giovarsi della materna suppellettile,
quando le torna conto; coloro che ignorano il consiglio d'Ari-
stotele , il quale raccomanda 1' uso delle parole straniere come
uno dei tre mezzi da lui proposti per esaltare la locuzione; che
perciò Virgilio, e più di lui Orazio e Properzio sono pieni di
76 NOTE ALLA BAS8VILLIANA
ellenismi I e die ninno da essi in poi è salito a gran pregio di
stile senza questo artificio; coloro finalmente che, incapaci di
sollevarsi, beffino nn poeta , quando abbandona le fininole co-
muni dell' espressione, e sono chiamati da Dryden i suoi critici
in prosa: noi gli avvisiamo tutti, che Aristotele gli ha già giudi-
cati nella persona di quel suo ridicolo Eodide, di cui deride
certa insipida allegoria ; e badino che la censura ricade tutta in
disonor del censore, scoprendolo ignorante e maligno.
Daremo fine con una riflessione di Addison, nel quinto de'
suoi Spettatori sopra il poema del Paradiso perduto. Un vero
critico i die' egli, deve arrestarsi pm aUe beUexx^e, che alle ùn-
perfexioni étwrC opera , palesarne con candore le più nascoste
grafie , e partecipare al pìMUco quelle cose che sono pm
degne et osserva:Qone» Le pm squisite elegcatxe e i tratti pm
maestrevoli et uno scrittore ^ son quelU che sovente appaiono
I pm dubbiósi e i più riprensibiU ad uno sparito sfornito ih
gusto e di fina letteratura^ e son quelli che un critico mor^
duce e sen^a discernimento assaUsce con la tnassùna vioknxa.
77
NOTIZIE STORICHE
Dopo molte diligenze » poche notizie abbiamo potato raccogliere della
▼ha di Nicola Ugo di BaBsville. Noi le daremo senza sdegno e parzia-
lità^ e collo stesso candore con cui ci sono state comunicate.
Egli era nativo d^AbbcTÌlle, città rìgnarderole della Francia^ dopo
Amiens la più popolata della Piccardia inferiore^ e rinomata per l'ec-
cellenza delle sue tinte^dicui proyyede tutta l'Europa. Suo padre, che
ìtì esercitava e tuttora vi esercita l'arte del tintore , osservando dei
talenti nel figlio e desiderando migliorarne la fortuna e la condizione,
l'incamminò per la strada ecclesiastica. Il giovine, per secondare la pa-
tema intenzione pia che la propria inclinazione che lo traeva parti-
colarmente verso le belle lettere, si applicò di proposito agli studii teo-
logici, nei quali cadde il sospetto che la purità delle massime non an-
dasse del pari colla rapidità del profitto. Comunque sia, ottenuta pre-
stamente una cattedra di teologia, prestamente se ne dimise; e disgu-
stato di quegli studii all'indole sua non confacenti, si abbandonò nuo-
vamente all'amenità delle lettere, e si portò a cercare nell' antica Pa-
rigi un'altra fortuna.
Ivi giunto, s'insinuò, destro com'era, nella grazia d'un gran perso-
naggio , che seco il tenne qqalche tempo in qualità di bibliotecario e
di bello spirito. Fu allora che due ricchi giovani americani delle co-
lonie inglesi essendo capitati a Parigi con raccomandazioni particolari
a quel ministero, fu scelto il Bassville (forse per la mediazione dell' il-
lottre suo protettore) a compagno ed aio di questi due viaggiatori nel
giro che intrapresero della Germania; nel che egli liberò cosi bene il
sno debito, che ne fu premiato colla cospicua pensione di tremila lire,
in che consisteva tutta la privata sua rendita.
Durante questo viaggio scontrossi a Berlino con Mirabeau il mag-
giore, quello cioè che nelle prime scosse del regno di Francia mo-
strò e fé valere de' vizi e de' talenti pari alla grandezza di quel tempo
calamitoso; e consonando di massime e d'opinioni, si strinse con esso
in legami di particolare amicizia.
Nella sua dimora a Berlino, quella Reale Accademia lo ascrisse a'
suoi membri, con uno de' quali sostenne fortuitamente un'acre contesa
letteraria sul merito degli scrittori francesi che l'altro aveva malme-
nati in certo suo libro. Fu questi il celebre Carlo Denina, istoriografo
yS NOTE ALLA BASSVILLIÀIHÀ
del gran Federico, autore dell'opera tanto applaudita delle rivoluzioni
d'Italia, e dell'altra tanto mediocre dell' ittoria letteraria della Grecia,
e di un^ altra ancpra che fa compassione, intitolata la Bibliopea, os-
sia l'Arte di compor librì.
Di là venne in Olanda a fine d'istruirsi profondamente nel commer-
cio , e scrisse sopra il commercio medesimo un poema che dicesi non
fé disonore al suo nome. Pubblicò in appresso i suoi elementi di mi-
tologia, opera ragionata, e nei giornali di Francia ricordata con lode;
ed inoltre un volume di poesie d'ogni genere, le quali però se per
una parte lo palesarono uomo di brillante immaginazione, lo scoper-
sero per l'altra un consumato libertino; avendole egli sparse in più
luoghi di quelle scellerate ed empie eleganze, di cui Marot aprì la
fonte, e che Voltaire poscia dilatò tanto ^ che ne fa innondata, cosi
non fosse! e contaminata tutta la Francia.
Cominciò intanto la rivoluzione, il più grande e il più funesto de-
gli avvenimenti politici che siano mai accaduti sul globo ; rivoluzione
che spaventa il pensiero quando vuol meditarla, e a cui la tarda pa*
cata posterità difficilmente presterà fede. Nei primi tempi della me-
desima egli fu abbastanza savio ed onesto per attenersi tutto al par-
tito del re; e lo fé conoscere nella compilazione ed estensione d'un
giornale che aveva per epigrafe: Il fiau un roi aux Frangais : i quali
sentimenti sviluppò in parte anche nell' istoria che intraprese ddlla rì-
voluzioncj pubblicata in due tomi, e dedicata al marchese de la Fayette
suo grande amico, e indi a non molto magnificamente ristampata, ma
non terminata. Dalla lettura di quest' opera è agevole cosa il compcen-
dere che i suoi principi! non tendevano allora a qtiel democratico fa-
natismo, a cui, sedotto o dal timore o dall'ambizione o dal bisogno,
0 da tutti insieme questi motivi, si diede sventuratamente in appresso.
Lo stile è iacile e pronto, ma non esattissimo; e questa sua prodigiosa
fiicilità di esporre e colorire le proprie idee, gli costituiva una certa
ardita, ma naturale eloquenza che ingannava e persuadeva. Aggiungi
significante compostezza di volto, pazienza della fatica, audacia di a-
nimo, incredibile scaltrezza d'ingegno, e maniere quanto subdole, al-
trettanto attraenti e pericolose; le quali in quel tempo malvagio desi-
derate e fortunate prerogative gli guadagnarono la confidenza di pa-
recchi individui dell'assemblea, fra cui ricordava particolarmente Bi-
ron e Brìssot; ed inoltre la considerazione del generale Dumonriez che
il fé nominare segretario di legazione allareal Corte di Napoli. Ninno
ignora gli speciosi motivi che poi da Napoli lo spinsero a Roma; ninno
ignora il grande ed iniquo fine di questa sua misteriosa missione, la
quale non sarebbe forse riuscita totalmente vota d'elTetto, se egli
vi avesse trovata, come sperava, la Roma di Giugurta^ Ma convinto
irOTE ALLA BASSVILLIANA 79
fin dai primi momeDli di saa venuta dell' insuperabile attaccamento
del popolo alla sua religione, non meno che al suo sovranoi e sbalor-
dito dalla fermezza e grandezza dei sentimenti romani , egli ebbe a
dire e a scrìvere che Roma era inèUvabUj il qnal detto manifesta tutto
ad un tempo e l' acutezza del suo intendimento, e la malvagità del di-
segno che l'aveva condotto. Gontuttociò v'ebbe dei pazzi compatrìotti
ancor più tristi di lui, che, parte minacciando e parte farneticando, lo
strascinarono suo malgrado ad insultare, come poi fece, la maestà del
prìncipe e la dignità del popolo ; insulto che gir costò la vita e ch'egli
stesso prima di spirare altamente detestò, ripetendo : Je meurt la victime
ifunjbu.
L'esempio del pietoso nostro Sovrano che non risparmiò nessuna delle
paterne sue cure per salvarlo, e la cristiana morte che ei fece (*), e che
soltanto la stolta penna d' un miscredente potè negare e derìdere, deb-
bono invitare ogni onesto cattolico^ stendere un velo di carità sopra
il suo errore, e fargli riflettere che quando Iddio ha perdonato, siccome
il suo ravvedimento ne fa sperare, l'uomo è più reo del suo offensore
medesimo se non dimentica l'ingiuria, per grande che questa sia, e
non volge l' odio in amore , ed in compassione lo sdegno.
La sua età, a giudicarla dal volto, non poteva oltrepassare i quaranta,
se par vi giungeva. Quando, per conformarsi alla volontà del padre,
intraprese la carriera ecclesiastica, obbedì a condizione di non essere
forzato a legarsi negli ordini sacri prima dei trenf anni : il che poi
non fece né di trenta né dopo. Per lo che è ùho ch'ei Ibase sacer-
dote e curato, siccome alcuni han creduto. Libero dunque di sé mede»
simo, ei prese moglie nel primo anno della rivoluzione, e n'ebbe un fi»
glio che la pietà del glorioso Pio Sesto, e la providenza del Governo
misero in salvo, unitamente alla madre, nella notte dei i3 di gennaro
{1793), e che egli stesso, morendo, raccomandò nel suo testamento al-
l' amico Brissot, e ad una de' due Americani dei quali abbiamo di sO"
pra parlato.
La saviezza con cui da questo Ministero fu il Bassvillc in dilEcilìs-
sime circostanze sofferto, quantunque affatto spogliato di carattere pub-
blico, le imprudenze con che egli stesso si procacciò la sua morte,
lo scampo procurato in quel popolare tumulto non solo alla sua fami*
glia, ma a tutti gl'individui della nazion francese, perfino allo scel-
lerato e pazzo la Flotte, primo ed unico artefice della morte di questo
infelice, e cento altre cose che precedettero ed accompagnarono que-
sto avvenimento, non é qui duopo il ripeterie, essendo manifeste ne'
fogli della sempre calunniata e sempre veridica Relazione romana.
(*) Il dì 14 gennaio 1793. trectaquattr* ore òo^ di esame lUto ferito nel ventre con
un pugnale nellu sommossa del pciiolo soUevalou contra di kù.
L* Editore.
8o
NOTE AL CANTO PRIMO
Pag. 33.
> Tùi Erynnù sìhUat ì^drìs, disse Virgilio, da cui sembra che il no-
stro poeta abbia preso il sibilo de' serpenti che attribuisce al demonio
in luogo di crini, nel modo appunto che si dipingono le Furie. Il mo-
yimento di queste serpi non è che la poetica espressione dello sdegno
di Satana nel vedersi tolta la preda; ed è imitazione d'Ovidio, che nel
quarto delle Metamorfosi cosi descrisse il moversi di Tisifone:
mote MBuera colnbne:
Punque iacent humeiis, pan circum tempora lapsa
SiUU dant, taaaàaajaa ▼onuuit, linguasqne conucant.
Stazio pure, nel lib. XI della Tebaide introduce Tisifone colle idre stri-
denti: adstridentibut hydris, e nel libro I, parlando di questa Furia, cantò:
.... Fera ftibOa crine virenti
CoQgeminat.
Ove notisi la beliesza e la forza di quel viranti trasportato dalle serpi
ai capelli.
Ivi.
' Questo voltarsi dell' anima a riguardare il suo corpo , movimento
spontaneo e naturale in chi esce da un gran pericolo, rassomiglia molto
a quel pensiero di Dante, /ra/T, canto I:
E come quei che eoo lena afiànnata
Uacito fmx àé. pelago alla riva.
Si Tolge all'acqua perigUoia, e guata.
La qual terzina il Maggi stemprò in questo verso:
Qual dii campa dall'onda e all'onda guata.
Ivi.
3 Allude, se non erro , a quel famoso verso dell'Alighieri scrìtto sulle
porte dell'inferno:
Lasciala ogni iperanaa, o voi ch'entrate,
0 a quegli altri:
Nulla spennia gli conforta mai.
Non dia di pota, ma di minor pena.
Ivi.
4 Acconciamente qui la giustizia di Dio vien chiamata severa e pietosa,
poiché il rigore con cui ella, secondo che la fede n'insegna, punisce le
NOTE AL CilfTO PRIMO DELLi BASSTILLIANJL 8i
anime del purgatorio^ non è dugionta dalla pietà Terso le medeaime , le
quali per la via del tormento arrìtano al termine beato a eai sospirano^
Frugare, adoprò Dante pia ^Ite nello stesso senso del nostro poeta, e
segnatamente in quel Terso affatto consimile :
Lft rigida gitylÌBS che ni firqga.
Pag. 33.
& Siegue la frase di s. Paolo: Ifon hahmUm macularne neqUé rugam^
parlando della Chiesa. Labe poi per maechia adoprarono altri ottimi scrit-
tori^ e ruga dM' anima disse FAriosto:
«
Virtudt indsfa intono coDd ipeglÌD,
Che h Teder neU*aniiiMi ogni rag».
Pag, 34.
C Voce latina usata da buoni scrittori , e che ha buon diritto alla cit-
tadinan^ italiana^ quando tutto giorno si accorda ad inuUo, ultore ed
ukrice. Vaglia per tutti l'esempio del padre dell'eleganza, 0*l. ySir.^ can-
to 4>> >t. 6a.
Per «(netto tardi vendicato ed ulto
Fia dalla moglie ....
Iti.
7 Enea, raccontando imali della sua patria, disse: Quorum pars magna
fid, e STca ben ragione di dirlo. Ma con buona pace del nostro poeta,
che ha egli fatto questo BassTille per meritar T onore di un detto cosi
magnifico? perchè ingrandirlo a spese del Tero?
Iti.
8 Questo spirituale castigo formerà la basa di tutta la Cantica, ed a-
prirà al poeta una facile Tia onde deriTare nel suo laToro tutti i più
grandi aTTcnimenti della riToluiione franeese. Sopra di che ci sia per-
messo di riportare un paragrafo di lettera che all'autore della Cantica
scriTe l'egregio sig. abate Francesco Torti, gioTine di fervidi talenti e
di profondissimo sentimento. Non oseremo però decidere, se la sua penna
sia stata mossa dalla sola amicizia o dall'amicizia insieme e dalla ragione.
M In Tenta il Tostro espediente è ammirabile. Gollegando all' uniTcrso
fisico il mondo inTisibile della religione, toì siete padrone di far pen-
dere la bilancia dalla parte che più tì aggrada. La religione ha in mano
la chiaTC di tutti i successi, ed essa gli spiega all' uomo in una maniera
sempre capace di sbalordirlo.
» Io non cesserò mai di ripetere su questo punto i Tostri Tantaggi so-
pra Dante medesimo. Più Tolte ho riflettuto con delizia sulla differenza
delle sue e Tostre idee anche quando l' indentità del soggetto sembraTa
che doTCSse aTTicinarle. Il purgatorio che toì assegnate al BaasTille, è di
una specie incomparabilmente nuoTa e sublime. Le pene di questo spi-
rito non sono di un genere meccanico j non è la sostanza fisica che a-
giace grossolanamente sull' ente spirituale. Egli è lacerato nella parte più
TiTa della sua sensibflitàj gli orrori della sua patria e i suoi rimorsi for-
MovTi. Poemetti, 6
82 VOTE AL CAUTO PRIMO
mano il tuo lupplicio: egli è yerafflente in pipda all'angoscia. Un'ani-
ma che piange ani mali de' inoi simili , de* suoi cittadini , da' suoi fra«
telU : ohimè 1 chi non si sente penetrato , commosso da un genere si
squisito e si nobile di tonnenti? E però quanto è nuova , quanto è toc-
cante l' idea di tal purgatorio ! »
Pao. 34.
9 Sentimento assai uniforme a quello di Dante nel canto XX del Purg,
O Signor mio» qunido wuò ti lifto
A veder la vnidelti dia mmom
Fa doka T in ina mi tao aagretot
Ai quali Tersi gì' interpreti j massimamente il Ventori appone una chiosa
ben puerile commentando cosi: Fa comparire il tuo giusto seUgno troppo
dolce e induigenie, mentre sta lunga pexxa nascosto nefjU arcani della tua
sapienza^ onde gli empj sempre più insolentiscono. — E i commentatori (9%»
giuDgo io) sempre pia fanno compassione» Ora il senso Dantesco è pianis*
simo, ed è questo: O mio Signore , quando atro io il contento di federe
scoppiata sopra costoro la tua vendetta , la quale nascosa e maturata nel
segreto dt^ tuoi ditóni giudizii raddolcisce il tuo sdegno^ e lo quieta sulla
certezza elei castigo già decretato? E si osservi la proprietà di quell' espres-
sione /a dolce ', poiché quanto è molesto ed incomodo il sentimento del-
l'ira allorachè manca la speranza della vendetta^ altrettanto diventa dol-
ce e rapisce l' anima quando la vendetta non può preterire : ed allora
la speranza equivale ad una vendetta anticipata , ed è quel spe prcesU"
mercj spe prcecipere tanto frequente nei Latini. Verrà in soccorso del no-
stro parere una beli' aria del Metastasio :
Gii l'idea dd gimio idq;iio
Mi Inànga e mi diletta}
G& pfwando alla vandelta,
Bfi comincio a ▼«ndimr.
Questo schiarimento sopra il passo di Dante porta egualmente la luce su
quello del nostro poeta.
Ivi.
10 Questa immagine ne ritorna alla mente un'altra assai delicata del
vero incomparabile imitatore di Dante , D. Alfonso Varano, che nella
sua Vbione su la peste di Messina, parlando d'un giovine santamente
morto, disse:
La idoka acoompopiaro {gli Angeli^ alma immortale ,
Che dall'aurata nube, in cui si chiuse ,
Die un guardo, e dire addio panre al suo firalc.
Ivi.
s» Sono le preghiere che solevansi iscrivere sopra i sepolcri, colle sigle
S. T. T. li., cioè sit tibi terra levis; parole che spesso si trasportavano
intere ne' versi, come in quello di Abraiale:
Sit Ijfai terra leris, molliqne t^garis arena.
BEIXà BASSVILLIANA 83
E questa fomioU di pregare era U medesima che il sii humiu cineri non
oneroBa tuoi e il moUàer otta cubent, di eui sono pieni i poeti >
particolarmente Ovidio che ne ridonda. Allude a questo costume un cu-
rioso passo di Persio deridente un mimico scilinguato poeta, che va tutto
in brodetto nel sentir lodati i suoi Tersi fra le crapole della tsvola:
Ananier» Tiri : nuoe non dnU ille poete
Fdizf mine feTÌor ci|ipds non impfiniit oos t
Pao. $4.
iaA questa deprecasione , perchè il corpo dopo morte non fosse ol-
traggiato dagli elementi^ né maledetto dai passeggièri, opponevaai l'im-
pieca2Ìone, perchè accadesse tutto all'opposto quando si aveya ragione
di odio contro del morto. Eccone un bellissimo esempio nell' Àminla, in
bocca di quel satiro» che si lamenta della sua mala fortuna in amore
per esser povero :
O dùanqjiM tu CmU, che im^miti
Primo a vender l'anor, ne meledetto
U tuo cener sepolto, e V osia fredde^
E non ci trovi mai pattore o ninfii
Che lor dica panando: Alibiate pace;
Ma le bagni la piogjgia e mova il vento,
E con piò immondo la greggia il calpesti,
E fi pdkgiin..«.
De' quali versi (lo che notisi per ammaestramento degli studiosi) i primi
sono tradotti da questi di Tibullo, El. 4j 1* i*
▲1 tibi» qui TeMSeiB docnisti Tendere primas»
Qnisquia th inftlis lugeat sna hp&ii
e il sesto è tolto interamente all'Alighieri, canto III del Purgatorio, e l'A-
ligeri il tolse a Virgilio, laddove l'ombra di Palinuro si querela di
non goder ancora l'onor del sepolcro :
Mone me floctns habet, vcnantque in litore venti.
Chi volesse vedere una bizsarra imprecazione fatta alle ceneri di una
ruffiana, legga il fine dell'Elegia 5 del L 4 ^i Properzio.
Ivi.
>3 Sentenza in tutto conforme a quella di Quinto Calabro nel primo
de' suoi Paralipomeni v. 806: Mortuis non est iratcendum^ immo miseri»
cardia digni tunt.
Ivi.
>4 Lodasi il giusto e generoso carattere romano, a cui sempre è com-
petuto quel memorabile detto, che poi divenne canone di virtù per quei
signori del mondo :
Romane, memento
• t • • •
Pucm «liiMÙ, et ddxjh» «Fob...
Al qual «entimcnto consuona anche quello di Properzio in bocca de* Ro-
84 NOTE AL curro PRIMO
mani medesimi: Pietate paUnUs ttamiuj e Romana clementia ditse Ta»
citOj lib. I degli Annali , e Romana manmetudine Quinto Curzio , lib. IV.
Pag. 34.
«5 Fra i molti luoghi di Omero tradotti da Virgilio annorem Macro-
bio nel e 5 dei Saturnali questa due Tersi dell* Eneide 1
V«rtitnr intana calmpi, et mit ooeuo nos
LiTolteni aoibni magna tarramqne polumqna }
al qual concetto fa eco quest'altro pure dell'Eneide:
«... hrnnuntìlwu moiini
Nox opentterrat.
Stazio j insistendo sull'orme di Virgilio , disse nel III della Tebaide:
Vox aobìitf cimsqiio nonùnooiy netnatjUB fisranm
Composuit, tàgjtoqae polca ÙTolvit amkta.
E il nostro poeta ^ gustando le idee dell'uno e dell'altro:
GA di sua Teste rogiadooi e iciiia
Copria k notte il mondo
Vedi Scaligero nella comparazione ch'egli fa delle immagini Virgiliane
con quelle d'Omero.
Pao. 35.
■6 Sette erano gli Angeli protettori delle chiese 9 che in veste di luce
a guisa di stelle fregiavano la destra mano del misterioso simbolo di
Gesù Cristo, veduto da s. Giovanni in ispirilo per mezzo a sette can-
dellieri d' oro, ciascuno de' quali (commenta il Tirino), instar candelabri
Mosaici septem constabat scapis^ siue calamis, et septem in culmine lucer~
nis. Pathmos poi, una delle Sporadi, isole cosi dette nell'Arcipelago, è
quella appunto in cui da Domiziano fu relegato il santo Evangelista^ appel-
lato con quella volgare antonomasia l'Estatico di Pathmos.
Ivi.
«7 Espressione derivata da quel verso di Dante :
Intorno agli occhi area di fiamme rote,
corrispondente all'oc illuc vohens oculos della furibonda Didone» e al
lumina flanunce di Caronte.
Ivi.
>8 Niun presagio più funesto presso gli antichi che la comparsa delle
comete, sebbene Servio in quel suo lungo e curioso commento a quei
versi di Virgilio,
Non Mena ac liipii^ li qoaiido noote oometas
Sanguinei liiguhre rubenL ....
pretenda di buona fede, che fra le cattive ve n'abbia ancora delle buo-
ne, formate, die' egli, ex /oce <f Venere, Nei poeti però le troverai sem-
pre cattive. In Tibullo sono un segno di guerra: belUmalasig^ comeU9,
In Silio rovesciano e spaventano i regni:
Rqnoram cvenor mbuit faUde eometes.
DELLA BASSTILLUllà 85
E altroye: Umifera regna comete^. In Lneano pure fanno lo stesso:
dinaaqae timendli
Skkris, et terris mutantem regna cometem 3
espressione nello stesso proposito imitata ancora dal Tasso, che imitava
il bello per tutto dove il trovava. Finalmente llfanilio, nel fine del lib. I,
nomerà a lungo le calamità che le comete sogliono presagire. Né si creda
che i s'oli poeti spargessero nel volgo queste paure 5 poiché altrettanto
facevasi dagli storici e dagli oratori. I filosofi poscia e gli astronomi le
hanno rese innocenti , e liberato il mondo da questi vani errori; ma i
poeti han ritenuto il diritto di servirsene sempre a spavento. Eccone ,
per tutti , due bellissimi esempi , uno di Milton secondo là traduzione
del Rolli y Par. perd., lib. I.
E qml ooaneta 6aiiuiMggìòf che infoca
La Innghesaa d'Oftuco, Tastùània
SoT» l'Artico delo , e dalla chioma
Orrida Kuote pestilenia e gnemi.
E F altro di Shakespeare che riportiamo principalmente per la sua ori-
ginale singolarità:
M Copra un funebre velo l'estensione del cielo* Il giorno ceda il luogo
alla tenebrosa notte; e voi comete che apportate i cangiamenti e le ri-
voluzioni nei secoli e'nelle nazioni , scuotete le vostre cristalline trecce
pel firmamento» e sferzate con queste le stelle ribelli che congiungendo
le loro influenze, hanno cospirata la morte di Enrico V. m
Pag. 35.
>9 Questo scudo veramente è un po' più grande di quello d'Ajace ,
che l' avea più grande ancora d'Achille ; ma è ben piccolo a paragone
di quello dell' Angelo protettore di Raimondo nel canto VII della Ge-
rusalemme, st 8a.
Grande , che può coprir genti e paeii ,
Quanti ye n' ha Ora il Caucaso e l' Atlante.
Che diremo dell' elmo di Pallade nel quinto dell'Iliade, sufficiente a co-
prire un esercito tratto da cento città ? La poesia ama molto di vestire
le idee astratte d'immagini allegoriche e sensibili. Perciò vediamo in
Bfilton l'Eterno Geometra prender in mano il compasso^ centrarlo nel-
V immensità del caos , e girarlo per circoscrivere l' universo. Cosi nei
profeti il Divino Architetto misura le acque del globo nel cavo della
mano , compassa il cielo colla spanna, pesa le montagne nella bilancia;
e cent' altri pensieri di questo genere maraviglioso e sublime, unico
linguaggio con cui la debole umana immaginazione può slanciarsi verso
r onnipotenza, e delibarne l'idea.
Ivi.
•o Questa similitudine scritturale allude all'imperturbabile tranquillità
della Chiesa Romina nel tempo che altrove si tremava tante al remore
dell'anni francesi.
86 NOTTE AL CANTO PRIMO
Pao. 35.
«> Per non intricarsi nell'etimologia del cùt^igUo, da cni laCroscaci
rimanda al copigUo, e poi al compiglio, e da Erode a Pilato, come snol
dirsi ; noi diremo che covigUo deriva qui da CMibile, il quale procede da
cubare, che è il padre di tutte queste discenderne, e con permissione
de' Cruscanti soggiungeremo, che troviamo più rispettata la natura di
questo verbo nell' intendere coniglio per coinU d' animali, che per cot-
tetta di pecchie. E se rimota cubilia disse Virgilio invece di aivearia,
egli non può aver parlato che metaforicamente. In&tti, senta la distin-
tiva del rimosa, è egli possibile che cu^iZiaper sé solo significhi alveare?
Ivi.
•> Anche T Ariosto disse:
E timuio ad mar Lflwwrhin resta.
Il che vale lo stesso che regnatore, per denotare il predominio di que*
sto vento sopra quel mare. Neil' istesso senso Orazio : tfrrannus Hesperia
Capricomus unJ!rv;e altrove parlando del vento Noto: quo non arbiter
Adria major.
Ivi.
a3 Si accennano le replicate e fiere burrasche che respinsero con suo
gran danno la flotta fiiuncese dalla Sardegna , e che precedettero di pò»
chi giorni la morte di Bassville.
Pag. 36.
a4 Battersi la guancia è atto naturale e cruccioso di chi si pente.
Cosi l'Ariosto:
P«r lare al re Marsiglio e al re Agramaate
Batterà aooor dd folle ardir la guancia.
Che poi la Francia siasi pentita d'aver provocate le armi dell' Inghil-
terra, chi è che noi sappia e tuttogiomo noi vegga?
Ivi.
^^Sono note le crudeltà praticate dai Francesi in Nizza e l'invitto
coraggio degli Onegliesi nel respingere il nemico dalla rovinata città
che veramente fumava e combatteva.
Ivi.
*6 Tra le molte scelleraggini nella Francia commesse prima della morte
di Bassville, quella per private lettere e pubblici avvisi fu divolgata
che nel lUarsigliese una tuiba di miscredenti spingesse tant' oltre l'o-
dio suo contro della cattolica religione, che volle costringere il carne-
fice ad impiccare l'immagine di Gesù Cristo, e che inorridendo e ri-
cusando egli di prestarsi a tanta empietà, fosse da coloro barbaramente
trucidato. — FoUoy sostantivo significante lo stesso che folla, usato assai
volte dall'Ariosto, per tacere degli altri e prosatori e poeti.
Ivi.
*7 Cosi Dante nel canto XX del Purgatorio, parlando anch'esso del
divin Redentore ,
Veggiolo nn* altra voUa esser deriso.
Veggio rinnoTellar Taceto e il fiele,
E tra tìtì ladroni esser anciso.
VtUsk BàSSVIIXIAlfA 87
Pao. 36.
a8 II più sentenxioso^ il pia ìspido di tatti gli storici^ Tacito^ in quel
sno terrìbile quadro defìa malvagità de* tempi di cai scrire la storia »
disse: omissi, gutiqué honores prò crimine, et ob virtuiet ctrtutimum
exitium. Or non è questo il fio che in Francia si paga dell' essere
TÌrtuoso ?
Iti.
>9 Sostarsi , fermarsi , posarsi^ e sostare , fermare^ posare^ ottimo yo*
cabolo derìyato dal ntto latino. Dante :
StfrtaU In, che aU'afaito ne mibWì. . . .
E altroTe:
So«U un poco per ma tua maf^ior coni.
E dar sotta ai piedi disse ancora felicemente in vece di dar riposo ai pie-
di; ne solo nei Tersi, ma pure nelle prose viene questa voce da eastigatis'
simi autori adoperata.
Ivi.
^ Emunto di Una disse Dante; emunto di uigorty emunto d'orgoglio,
emunto tit amore, disse l'Ariosto; ed emunto et alma e di sangue^ il no-
stro poeta : il ohe vale pri^^ di vùa.
Pao. S7.
3i Sospensione che manifesta l' orrore di cui è compreso l'animo del
narratore 9 e che accennando la grandesza del misfatto, prepara l'u-
ditore a prestarvi attenzione. Questo artificio rettorìco é tolto dal terzo
dell' Eneide, laddove Enea racconta il prodigio occorsogli sul sepolcro
di Polidoro:
Eloqnar, an lileamt gemttos hayrnebUis imo
Auditur tamalo ....
Ivi.
3* Modi di dire usurpati da Virgilio per esprimere il religioso orrore
del fatto che si racconta. Eccone alcuni pochi esempi di molti che
s'incontrano per tutta l'Eneide, colla perpetua ripetizione non solo
degli stessi sentimenti, ma degli stessi versi:
ObsU^iui, lietenmtque oonue
AirecUBtjne hoRore cohub . • • •
Gelidiu per dura cucurrit
Ossa tremori
e cent' altri che il curioso lettore facilmente può riscontrare per con-
vincersi che non tutte le ripetizioni sono viziose, e che senza essere
molto indulgente, se ne può talvolta perdonare agli altri qualcuna o
sfuggita o forzata dal sentimento e dal luogo ^ quando il più elegante,
il più castigato di tutti mai i poeti non ha avuto scrupolo di ripetersi
tante volte.
Ivi.
^\Sv\ parere di dotta persona io era disposto a credere vizioso l' uso
/
88 NOTE AL CAIVTO PUHO
che qai si fa del verbo mlerulsre in vece di Mentire; ma essendomi im-
ballato in dae |»assi di Golunellay ove il yeibo ùuelligt^ è adoperato
onninamente in luogo di mntio,e son questi: inuUigere Jriguii de arbo*
rìbus, capo i3; aqum ìoImb eaporem inuUigere, 1. la» capo ai : mi sono
indotto a persuadermi della convenevolesia di questa locuzione. E se
Torremo ricordarci del consiglio che dava Orazio ai snoi Latini» di gio-
varsi delle parole che graco fonte cadunt paree detona y e noi dai La-
tini r applicheremo agi' Italiani , troveremo non pur giusta , ma lode-
vole ancora l'impugnata espressione; della quale chi potrà mai con
certezza giurare non esservi esempio fra i nostri classici? Ciò vaglia
per difendere e il nostro poeta e il Metastasio^ che nel medesimo senso
disse:
QuMido lo tìnìlf&aal,
Sfmtn in*iiiteit fl con ....
Pao. 37.
34 Imitazione , se non erro^ di quei versi di Dante in bocca del fe-
rito re Manfredi nel terzo canto del Purgatorio,
P<Mda eh' i* «libi ntts k iMnon»
Di due ponte mortali, io mi vendei
Pimgendo s Quei dw Tolentier perdona,
cioè a Dio; circollocuzione imitata pure dal nostro autore più sopra,
ove dice:
Bla l' infinito amora
Di Quei mi vabe, dio mori per miL
Ivi.
35 Di dolore cioè e di piacere : di dolore nell' ascoltare V oltraggio
fatto a Dio, e la crudeltà praticata sulla persona di quel cristiano
carnefice: di piacere poi nell' intendere la misericordia che gli avea
u^ata il Signore in quel punto. Di queste lagrime tanto dolci vedine,
per tacere dei tragici , che ne son pieni, due belli esempi in Virgi-
lio : il primo allorché Enea si scontra coir ombra del padre negli Eli-
si; e l'altro di quel venerabile vecchio Alete, che abbraccia Niso ed
Eurialo già disposti alla notturna loro sortita. Interessantissimo è quello
d'Omero, laddove Ulisse peregrino in casa d'Alcinoo non può tratto-
nere le lagrime nel sentir celebrare le sue imprese dal cantore Demo-
doco che noi conoscea: e tenerissimo quell'altro dove Penelope rico«
nosco finalmente il marito, e ambedue non fan che abbracciarsi e pian-
gere per lungo tempo senza poter parlare.
Ivi.
36 Accenna il prodigio dell^ acque che sotto il colpo della verga mo-
saica scaturirono dalla rupe nel deserto, e simboleggiarono il potere
della grazia divina nel trarre lagrime di penitenza dal cuor doro del
peccatore; ed imita, anzi usurpa del tutto la frase e il sentimento del-
l'Alighieri nel sopraccitato canto:
Oiribil foron li peccati miei;
Ma la bontà infinita ha ti gran bncda ,
CIm prende dò die si rÌToIve a lei.
DELLA BAMTILLUIIA 89
Pao. 38.
37 Sioeome Pareo teso prima di scoceare ritiene qoaii firenato lo strale;
cosi scooeandoy quasi ne lo sfrena: e perciò tUf/henata uutta disse nel
medesimo senso anche il nostro AlighierL
lYI.
38 Gran fiome detta Francia all' occidente di Hartiglia. Nette pianare
del medesimo è situata Avignone > di coi si accennano le stragi civili
che l' insanguinarono fino dai primi movimenti detta rivoluzione fran-
cese a coi gU Avignonesiy prevalendo il partito più forte > sconsiglia-
tamente aderirono > sottraendosi al legittimo e pacifico dominio del
romano pontefice, yùt è qui particeUa puramente esornativa^ e soi^resfo
non vale più che il semplice $ovra, come suolsi elegantemente usare
dai purgati scrittori; e cosi con eoo un colpo> btnf^ietso il mare> cioè
con un oolpo, lungo il mare.
. Ivi.
3$ Dopo le cose già dette j chi può non intendere tt chiarissimo
senso di questa aUegoria ? chi non sa qnsl si fosse l' incantatrice figUa
del Sole, e quale l' ordinaria metamorfosi de' suoi amanti ? La prero-
gativa del canto e dell' eloquenxa che Omero riconosce in questa Dea^
che VirgiUo chiama crudele, giustifica molto bene l'adescamento che
il nostro poeta le attribuisce , e che forse gli è stato suggerito da
quel suada Circm pocula di Simmaco, epist 4?» lib* l, o daU' aura dan-
teaca^ ove dice:
Che par che Gin» gli arene m peiton ,
parlando appunto de' suoi degeneri ed imbestiati FiorentinL
Ivi.
4o Gran fiume di Francia, che nasce netta Catalogna, passa per la
Linguadoca e la Guienna, e si scarica nell'Oceano sotto Bordeaux.
Ora si chiama la Gironda.
Ivi.
4i Monti dei più eminenti della Francia nella Linguadoca inferiore,
oggi detti Cétfennes, da cui hanno presa la denominazione i paesi cir-
convicini. Ne parla fra' poeti l'Ariosto più d'una volta^ e Lucano nel
Ub. I.
Geu habitat eana pendentes n^ GeiMonai.
Ivi.
4a Gamisardi furono chiamati i Calvinisti ribelli , che nel principio
di questo secolo, cotta speranza di ricuperare il libero esercizio della
lor religione, presero le armi profittando della guerra che laJPrancia
e la Spagna sostenevano allora contro la Casa d' Austria. La ribellione
di costoro riusci tanto più incomoda, quanto che il loro partito venne
aiutato e cresciuto da tutta sorta di scellerati, a cui apersero le pri-
gioni. Le montagne di Gebenna furono il teatro delle loro crudeltà
contro i GattoUci, e della totale loro sconfitta sotto il maresciallo di
VUlars nel 1703. Quei pochi che poterono salvarsi, passarono in Olanda
e in Inghilterra, ove spacciandosi per profeti, divennero oggetto di
gO NOTE AL CAMrrO PRIMO
depresso e di odio. L'origine del loro nome è disputata ed incerta.
Alcuni io derìTano da comira^ (termiDe di guerra, che equivale a
sortita improTvisa), alludendo alla prontena de* loro attacchi , e alle
scorrerie che facevano dalle montagne ; altri dalla Teste che portayano»
simile molto ad una camicia.
Pao. 3S.
43 Ecco ciò che dell' Arari, oggi la Saona, scrire Giulio Cesare nei
suoi Commentarli de Belìo GaìUcOy lib. I, e. 3. Ftumen ett Arat^ qwtd
perfinet JEduorum, et Sequanorum in Bhodanum infimi incrediHli le»
nitate, ita ut ocuUs in utram pattern fluat judicari non posMÌL II pane-
girista di Costantino lo chiama lenem et cuncuAundum^ e Qaudiano
lentum, e Plinio js^nem. Da Silio poi vien detto pigerrimm, e stanti
iùttilig. Dopo d' aver i poeti e gP istorici esauriti tutti i sinonimi della
pigrizia per descrivere la lentezza di questo fiume, non mancava che
quello d'irreMoluto e di stupido a compirne il panegirico. Nessun però
più leggiadramente dell'elegantissimo Alamanni:
O di Rodan tofeAo umfle iposa,
Snrn Tiga e gentil, die il cono prendi
Dal pia gdato polo, e in faaiio aoendi,
Qual ti aa la cagion, mata e penson.
Ivi.
U Per esprimere all'opposto la pienezza e la rapidità del Ligerì,
prende la firase da quel noto Virgiliano emistichio:
pooton indignatut Amet,
imitato poi da Valerio, nel lib. I dell' Argonautica:
Oeeanoi, Phrfgioa prins indignatm Inln:
e con pari enfasi da Claudiano nel sesto consolato di Onorio:
At^ indignanteg in jora ledegent Arctot.
Sebbene non so quanto sia vera questa supposta rapidità e veemenza
del Ligeri, trovando che Lucano dice tutto il contrario :
.... placida Ligeris rocreatur ab unda.
E l'epiteto di cerulea, che le dà pure Tibullo, pare che significhi
perspicuità di acque e placidezza di corso. Eccone il passo, nel quale
troverai accennati in un solo distico tutti quattro i fiumi^ di cui si é
finora parlato:
Testis Arar, Rhodanusque celer, magnnsque Ganunoa,
Carnati et flari cenila lympha Liger.
Ivi.
4S Giulio Cesare racconta, che mentre l'esercito degli Elvezii aveva
già con tre delle quattro sue parti tragittato l'Ararì, sorprese egli la
DBiXA bassyuxiama 91
quarta parte^ prima ehe questa pare tragìttaiM^ e la disfece. Indi sog-
giunge che il luogo di quella battaglia pagu$ appdUbatur Tigioimu.
Il poeta nostro adunque ragionerolniente supponendo che fòsse PArari
medesimo il termine di quel territorio, appella il campo di battaglia
fiUa J'igunna, che é quanto dire, lembo^ estremità del Tigurino di*
stretto. Siccome poi hk ptigu» unu$, prosegue Cesare, 4ptum domo
éxissHj pairUM nostromm memoria^ Lucium dusòtm comulem inur/k*
cerats •t ^>u SMrectiim tub jugum mùtna, ùa $ù^ casu, swe consUio
deoruM òimtùrtaiium^ ^ua jmn euitaiii Hebf^óm ùui(pìMm caìamiudtm
popuìo romano mUiUraij ea prmetps paonoB jmr9oh4L Tutto questo
parca necessario di sapersi a ben intendere il senso di questa tersina,
derÌTata e spremuta, come ognun yede, dall'allegato intero passo dello
stMÌco dittatore.
Pao. 38.
4< GioTanna d' Arco, detta comunemente la PuìeeUa d'OrUant. Que*
sta eroina, aigomento di due poemi francesi, ano che oostò al suo
autore (Chapelaln) treni' anni di fatica, e mori in trenta giorni; l'al-
tro, il più empio di quanti potesse mai idearne l'irreligione; questa
eroina, io dico, costrinse prodigiosamente gì' Inglesi a lerar l' assedio
d' Orléans, e in una battaglia disfeceli interamente. Shakespeare nella
prima parte dell'Enrico VI ne strascina pel fango la riputasione, e
ne ayrilisce il carattere contro la storica verità. Egli la yuole colpe-
▼ole d'eresia e di sortilegio, onde giustificare i suoi compatrìotti del-
l'ingiusto supplizio che subir fecero a questa celebre Amazone, con-
dannandola ad essere bruciata viva; ma in realtà, questa bariiarìe
disonorò piuttosto i giudici che l'accusata, il di cui nome merita di
arrivare puro ed onorato alla più remota posterità. Guerriera, giovine,
bella, non aveva ancora trent'anni, quando le fu tolta la vita. Dopo
la sua morte, Carlo VII , per gratitudine , nobilitò tutta la sua fami-
glia, comprese le donne, e cangiò il nome di Arco in quello di Giglio,
Si recitava nella città d' Orléans ogni anno il suo panegirico; ora hanno
altro che fare.
Ivi,
4? Anche Eschilo nell'Agamennone chiamò le ali degli uccelli un
remeggio, e Luciano disse altrettanto nel Timone, parlando di Mer-
curio. Ma fra i poeti latini nulla di più trito. Virgilio, nel lib. I del*
l'Eneide:
voiat ills per Mia mtgnam
lUmigio alaniiii;
e lo ripete nel lib. VI, v. 19. Ovidio, nel lib. V delle Metamorfosi:
PoiM super flnetai daram indstara remis.
E Silio, copiando Ovidio, lib. XII, natumque soluUi pennarwn remù^ ec.
Bello è ancora il rtmigium pedum di Stazio, nel lib. IX della Tebaide; e
il remigfum piuma di Apuleio, pariando dell'aquila. Puoi vederne un
esempio anche in Lucrezio nel lib. VI, ed un altro in Avieno nei
gn VOTE AL CAHTO PBOfO
Fenomeiii, ed an altro nell'autore del libretto sopra U genio di So-
crate. Finiremo con qnetto di Plauto nell' AnBtrione :
Non oejvs ^puri, « me dedaUs tnlÙKm icn^ns)
e laremo oMerrare, die come i poeti trasportarono il r^neggio delle
navi agli uccelli, trasportarono del pari le ali degli aooelli alle navi
Quindi "^gìlio disse tfdarum pamiimuB ala$j e Propenio, più ardito
ancora di Virgilio, Clamt cenUnis remiget alù» Questa sounbierole
imprestanza di termini proprii è assai commendata da Aristotele, come
metafora del genere più puro e più nobile, e chiamasi antìstrofe.
Pag. 58.
48 Quella parte d' Oceano che è tra la Bretagna e la Biscaglia, detta
dai Latini Sinus AquiUmicus.
Iti.
49 Pochi sono gli antichi storici che non parlino di questi Celti, e
di questi Bardi abitatori della Gallia Celtica, cosi chiamati, secondo
alcuni, da un certo Bardo, figliuolo di Dionisio, che vi regnò; ma se«
condo altri, dall'arte che professaTano, Tolendo Bardi in lingua cel-
tica significar cantore. La loro professione adunque era la poesia. Seri-
Terano in Tersi le aiioni degli nomini grandi, e le cantaTano al suono
d'un istmmento, simile molto alla lira. Quindi Lucano:
V M qooqae y fpSi nMrtes mimit beuo^pM pemntst
jii^^a«M in loDgam ytSam dimiuitis amniiy
Plurima aeewi fodùtù rrnmimi , BardL
E che le loro poesie fossero Teramenle bellicose e grandiose, poMiam
Tederlo da quelle del bardo Ossian^ figliuolo di Fingallo, raccolte da
Macpherson, e nobilmente tradotte in italiano dal Cesarotti. Il popolo
aTCTa costoro in tanta Tenerazione, che se presentayansi a due armate
anche cominciata la battaglia, deponeano, se s' ha da credere, sul fatto
le armi per ascoltarli. L'epiteto poi di chiomato è proprio di loro per
due ragioni, e perché abitavano quella parte della Gallia che appel-
layasi cornata^ e perchè scrive Burmanno, prtecipue aUbant comam.
Ivi.
So Tanto lentamente sbocca questo fiume nel mare, che per cagione
del marino riflusso, quotidie bis refluii per triginta leucat. Vedi Bau-
drand. Lexicon Geogr. art. Sequana,
Ivi.
5> Secondo Giulio Cesare, Roberto Stefano e il Ferrario, laMosa prende
il suo cominciamento dal Monte Vogeso nella Lorena ; ma secondo il
nominato Baudrand ed altri più moderni, ella ha la sua sorgente nelle
montagne del Bassignl nella Sciampagna, il di cui piano viene irrigato
dalla Marna, che poco sopra Parigi sbocca nella Senna.
Pag. 39.
S* Vocabolo latino, fratello del bene olenti ^ che con tanta grazia
adoperò V Ariosto in quel verso :
Sparg« per raria i bene-olenti spirti.
DELLA BA88YILLIANA 93
per aliti odorosi e toayi, ad imitazione del Lacreziano
Spritnt wignenti wanÌB diflhgit in nms.
Pao. 39.
&3 £ imitile l'ayyerttK che questa caratteristica appartiene tatta ai
aordli legialatori della Francia^ ai quali poco male se mancassero so-
lamente i calsonL II giudizioso Sgarigliano commentatore ci fa sapere
nelle sue note, che tutto questo squarcio è la tUcrùUone dei giacobini
di Francia^ e cosi finisce il suo tenebroso commento al primo canto.
Noi gli dimandiamo perdono d'ayerlo fin qui trascurato , ma gli pro«
mettiamo di esseme più memori nel proseguimento delle nostre di-
chiarazioni^ onde il pubblico conosca il pregio delle sue dotte fatiche,
e la probità del suo stampatore , i torchi di cui meglio che in Àssbi
andrebbero situati nella spelonca dell' Ayentino.
Iti.
H Cosi l'Ariosto:
Gittato in tem Grillo in Sacnnanto
Per on tìI tabernacolo d' argento.
In.
ss Una simile sentenza a denotare uno stato di guerra abbiamo in
Lacreiio^ lib. V.
Inde minutatim prooessit fismm ensis,
Venaqoe in opprobnum fpedea est fidai ahaiua.
Viene Virgilio^ ed imita il pensiero Lucreziano, lib. VII, Eneide :
Vomerìi hoc, et frlds honoi, hoc omnii antri J
Cenit amor: leco^foont patrioi fimadbas enseii
e ayea detto prima nelle Georgiche:
Et doni rigidnm fiJcet eonflantnr in eniem.
SolPorme di Virgilio e di Lucrezio cammina Oyidio nel primo dei
Fasti:
Sarcida oemlnBt, wriique in pfla ligonea,
Factaqoe de miri pooden canii «rit.
E il dolcissimo Alamanni imitandoli tutti, cosi canta nel fine del lib. I
della Goltiyazione:
n Tornerò, il maiion, k fidoe adunca
Han cangiate le fimne] e fiitte lono
Impe apade tiglientii e lance
Siccome poi queste idee sono caratteristiche della guerra, cosi le con-
trarie il sono della pace. Marziale introducendo a parlare la falce di
un contadino:
Pax nw oeru diidi placidoi cunraTit in unii;
Agricobi none mni nilitti aate fai
94 l^Ol^ ^ CAHTO FUMO
E Isaia profetando la pace mirenale del ipondo ncDa naaciU di
Cristo, conflabunt gUuUiu suos in vomera^ et ianeeoi ma» mfiàeei,
Pac. 39.
56 Epiteto solito darti al soldato. V\r%. Egl. I:
lopiot bae tam colta no«dà nila haibdall
BariurmliM agetett
e Locano più espresaamente :
NaUft talBC» i—tinwi nm» qui
yiUaneUo poi Tiene qui osato non in senso diminntÌTO) ma in senso
assolato, come sarebbe poyereHo^ yecchierello, ladroncello, invece di
povero, vecchio, ladro. Gmì Dante nel XXIV déìVIn/emoi
Lo TÌDmdb • coi is nba
e nel XII del ParadUo, parlando de* santi vecchi Anacoreti, li chiamò
tcaUi pwertUL Anche l'Ariosto disse:
Le iMsoh^ de'poTeidli
HoD tono mai naia città
Questi esempi (aran tacere la derisione, in cui qualche canaio «om
chareUo ha preteso di porre il tnUaneiio dai capelli biandiL Non è
colpa di noi se ci perdiamo qualche volta in queste crepnnde, alle
quali se è vergogna il rispondere, che sarà il produrie ?
Ivi-
^7 Sentimento tolto dai sacri libri : Ifec ertU qmjrangertl eù panem*
Pag. 4o.
S6 Orneremo questi veni coi bellissimi dell'Ariosto, canto XXVII,
st. 117.
Eco per la pietà die gUen' aTca.
Dai cari sasà rispondea aorenta s
e con quegli altri dello stesso fonte:
al nona di
Riipoodaan gli antri , dia pietà n'avieoo.
Al contrario neil'-ldilio di Mosco in morte di Bione, PEco si ritira den-
tro le rupi, dolente di non poter più ripetere i dolci versi dell'estinto
cantore.
Ivi.
S9 Similitudine significante il rossore dell'Ombra alla vista delle
tante scelleratezze de'suoi concittadini. Piangere il di che tramonta,
disse anche Dante nell' Vili del Purgatorio, e con quanta delicatezza!
..... Se ode iquiUa di Untano,
Che paia U giorno pianger die ti muore.
DELLA BÀSSVILLIANA g5
Pao. io.
^ Amplifica quel pensiero Virgìliuio :
iMrymantein tt molU Tobntem
Dicen damnit .....
Iti.
6i Retioenxe che preparano l'animo dell'uditore alP orrìbile ai^o-
mento del secondo Canto. Si dolgono alcuni non molto pratici del
modo con cui si debbono leggere ed intendere i poeti ^ si dolgono ^
dissi, di veder qui ed altrove assoggettate le sostanze angeliche alle
alterazioni dell' uomo, negando alia poesia, alla primogenita delle arti
d' imitazione, quella libertà che pur tutto giorno concedesi alla pittura,
che vive tutta a spese della sorella* Per placar questa gente, che sono
i primi a parlare e gli ultimi a capire, noi li pregheremo di leggere
il seguente passo d'un tal pensatore che ragionava meglio di tutti
noi, del grande Gian Vincenzo Gravina, ove degnamente discorre del-
l'aureo poema della Gristiade di Girolamo Vida:
ji torto è riffreso U f^ida,con altri a lui simili, di at^er vestito g^
angsU di militari insegne e di umane passioni ^ alla Joggfa che Omero
i suoi Numi rappresenta: poiché ne U Fida applica agU angeli altre
passioni che temperate e trapassate in virtù, come da lodevol fine ecci'
talej ne si dee negare al poeta, che dipinge colle parole, quel che si con^
cede a chi dipinge coi colori: dal quale reggiamo gU angeli di figura,
moti ed affètti umani essere atteggiati, E se Dio, il quale è immutabile
ed imperturbabile, pur ne* libri d^ Profèti e di Mosè, da pentimento as*
salito e ifira perturbato, a noi si rappresenta^ per consentire tdla imbe*
cillità deìV umana fantasia, la quale non sa i varii off etti tf un infinito
ed etemo provvedimento ad altre cagioni applicare, che a quelle delle
quaU ha dalla propria natura Pideaj perchè toglieremo al Fida quella
libertà di cui aivea da' sacri libri t autorità e P esempio? La quale scusa
non solo al Fida conviene, ma a tutti gli altri poeti di quelfeUce se-
colo, ec, e del nostro ancora, se la logica non é mutata.
96
NOTE AL CANTO SECONDO
Pag. 4i.
• Frase Virgiliana e Dantesca. Eneia dolon, disse il primo; e nd
ditol tnnta^ U dolor io vin$e^ ira lo vinMe, il secondo.
In.
• Un gran dolore è sempre senza parole. 11 silenzio di quest'Angelo
che addolorato cammina dinanzi all'Ombra senza far motto, rassomi-
glia molto a quello degli Angeli di Milton, che dopo il fallo di Adamo
abbandonano la guardia del Paradiso terrestre, e tornano in Cielo ta-
citomi ed afflitti a recarvi la dolorosa nuora del peccato commesso.
Qoesta comune osservazione sulla natura del dolore fé dire a Seneca
quella nota sentenza: curm la^es loquuntur^ ingBnU$ gtupenL
Iti.
3 Tra i yarii segni di vicina tempesta contano gli osserratori la
calma dell'aria, durante la quale il fiotto del mare e il malinconico
rumore de* torrenti e de' fonti rendesi più sensibile. Pare che in quel-
l' universale quiete delle cose la natura mediti il suo dolore, che poi
scoppia più violento, siccome quello dell'animo nostro, le di cui fu-
neste e disperate conseguenze sono sempre precedute da profondo si-
lenzio.
Ivr.
4 Delibato da quello delP Alighieri:
Or qui k morta poena risuft;
e da quegli altri di messer Lodovico:
Chi Pali al reno pmuA, che rdo
Tanto, cbs anÌTÌ aU'abo mio oonoeCto ì
coi quali modi di dire i poeti, erìgendo sé stessi, erìgono ancora l'at-
tenzione del lettore.
Ivi.
& Questa pittura dell' odierna Parìgi è tutta disegnata su quella che
fa Virgilio dei mali che occupano l'ingresso dell'inferno. La rìporte-
remo intiera e per rìcreare alquanto il lettore coi versi del più pur-
gato artefice di poesia, e per renderne agli occhi più visibile l'imita-
zione :
VeHibolum ante ipian primisqne in fimdbos Orci
Lucius et ultrioet pomen cubilia Cura]
PaHenteigne babitant Moria, tristiiqne Senectni,
Et Metus, et maleeaada Famei, ac tupis Egestasj
MOTE AL Cìnto secondo della bàssyilliàna 9^
Tenrilales visa fimuBj Letamane, Laboiqae;
Tom oonsanfoiiieiu Leti Sopor, et m^ mentis
Gaadia , moctifenuiMpie «dreno in limine Bellum,
Feireique Eamenìdtim thalami , et Dijcordia demens,
Viperenm orinem Titti< innexa cruentis.
Veggui ancora la bellitsima imitazione che sopra il fondamento di
pochi versi d'Ovidio ne fa rAngniUara nel quarto delle sae Meta-
morfosi.
Pao. 42*
€ Osservisi in quanti differenti aspetti vien dai poeti considerata
questa peste: Turpù EgestaSf da Virgilio; acrìs J^gestas, da Lucrezio;
infiunù, da Terenzio; infeUx humili gressu, da Claudiano; audax, dal
Venosino; consttmofrìce dell' anùno , da Esiodo; domatrice del galani
Utomo, da Teognide ; e finalmente eccitatrice delle arti, e maestra della
fatica^ da Teocrito: sebbene il poeta Siracusano parla forse di quella
nobile e virtuosa povertà che^ secondo il detto di Cicerone, differisce
alquanto dalla mendicità. Comunque sia, il nostro poeta si è attenuto
a Virgilio, e nel suo caso nulla più conveniente. Anche Seneca nel
Tieste pone il Bisogno fra i mostri dell' inferno.
Iti.
' Immagine tolta interamente da jnel celebre sonetto del signor
abate Onofrio Minzoni, ferrarese :
Starasi coDe man sotto le ascelle
Mandricardo aDa rira d'Acheroole.
Citiamo «on veneraaione l' esempio di questo sublime ingegno vivente,
e fiiodam conto di citare niente meno che quello d'un classico.
Ivi.
* Se mal non mi appongo^ questa è l' imperiosa Jamét di Claudiano;
e veramente la fame è l'arbitra, la tiranna dell'uomo, spingendolo
alle rapine e a tutta sorta di delitti. Perciò Quintiliano nelle sue
Declamazioni la chiama maetira di peccati, e Quinto Calabro maestra
dt impruderna, Seneca nelle Epistole scrìsse : wenter prmcepta non audit,
pasciti appellali e Oppiano, nel terzo della Pescagione, dopo d'aver
detto che nulla è più grave della fame, soggiunge questa ragione, che
ella esercita su gli uomini un comando crudele. Conforme ai citati è
il sentimento di Filone nella vita di Mosè , ove appella la fame e la
sete dominat graves et difficiles.
Ivi.
9 Dante, Purg.t e. XXIII :
Pallida nella feccia, e tanto scema.
Che dall' ossa la pcUe s' infonnara.
E siepe della bocca appellò i denti anche Omero frequentissimamente.
Tfon si deve omettere quel passo d'Ovidio, lib. Vili BIet.| ove de-
scrive appunto la fame :
LaLra ineana sttu; scabri ralùgine dentes;
Dura cntis, per quam spectari tiicere possent.
Morti. Poemetti, 7
98 VOTE AI. CAUTO SECONDO
Pjlo. 4^.
■• Nettano epiteto alla DitoordU coti proprio e contoetoy come
quello di pazza ^ datole da Virgilio più yolte e dall' Ariosto. Il poeto
Blantovano dopo di averle nel VI dell^ Eneide ornata la tosto di bende
sanguinose e di serpi, finisce di vestirla nelPVIII con questo egregia
ipotiposi :
. . . KÌtn gindou tradii DiMNrdk paDa ,
Qoam cnm — yi"*ff nqnitiir Bellona flabello]
e questo manto stracciato (idea che il nostro poeto ha trasportato alle
bende) le vien posto indosso ancora da Petronio: tota laceraùun ps-
ctare fetiem. Una yiyissima ed omerica prosopopea di qaesto mostro
vedila nel lib, X dei Paralipomeni di Quinto Calabro.
Ivi.
• • ÀI contrario la Paura nel VI della Tebaide é chiamato audace:
Spetqna» andanpie una MetiUi «t Fiducia pallimi |
forse perchè l' uomo impaurito e in perìcolo di vita ti arrischia a delle
intraprese, alle quali in istoto di sicurezza non si sarebbe attentoto.
Con tutto ciò questa idea di Stazio ci sembra più ragionato che na-
turale.
Ivi.
I* L'uno e l'altro sentimento verissimo; poiché^ tranne la morte,
ntuno de' tanti mali che ci distruggono , leva dal mondo si gran nu-
mero di Vito, come la guerra; che perciò vien qui detto ragionevol-
mento ministra ed emula della morto. Vagliami una sentonza del di*
vino Ferrarese in bocca della Morto medesima a proposito d'nna
grande uccisione che si fa per roano d' Orlando :
Pel campo errando Ta Morte cmdele
In molti, yarìi, e tatti orribil Tolti,
E fra le dice; in man d'Orlando Tald
Durindana per cento di mie frki.
Ivi.
■3 Essendo questo il pugnale che l'irreligione mette in mano alla
guerra, era ben giusto che quest' arme non altronde uscisse che dalla
fucina del diavolo. La frase qui adoperato sa molto di quella d'Ariosto:
Temprato all'onda, od allo stigio ibco;
e dell'altra:
Formò lo tondo all'in&mal fiiTiUa.
Ivi.
■4 Simboleggiarono gli antichi sapienti, in questo guerra de' giganti
contro gli Dei, gli sforzi del superbo umano intolletto contro la reli-
gione, e svelarono cosi sotto figure sensibili l'abuso della traviato ra-
gione.
DELLA BAS5V1LL1ANA 99
Momì taluni non da spirìtOj ma da libidine di crìtica , condannano
qoi ed altrove l'allasione che si fa qualche volta alla favola, produ-
cendo in campo il solito laogo topico dell' ignorania, di non mescolar
le cose sacre colle profane* Alle quali censure noi tre risposte daremo
per nessuna che si dovrebbe : e la prima sarà , che il soggetto di
questa poesia non è cosi sacro di sua natura , che non venga tempe«
rato quasi ad ogni passo da un forte ingrediente d'eroico» e l'eroico
non si può esomare colla conveniente poetica dignità , senza intro-
durvi lo spirito e le grazie della favola, unico fonte, a cui dee bavere
1> tmraagtnasione per dar corpo e colore alle umane passioni, e per la
strada degli occhi » più breve e più spedita che non é quella della
meditazione 9 dipingerne e rivelarne la metafisica lor turpitudine.
Ci faremo ad osservare, in secondo luogo, che tale e tanta è la mae«
età e la santità della nostra religione, che la debole umana immagi-
nativa se non vien sostenuta, come quella de' profeti, dall' immediata
ispirazione divina, difficilmente si presta all'astrazione d' idee cosi su-
blimi, alle quali nulla si può togliere né donare senza pericolo d'al-
terarne la purità; ond'ò che smarrita e confusa non ardisce di appros-
simarvi lo sguardo, e prenderne domestichezza; e temendo di non
poterne sostenere l' idea, e degnamente parlarne, intollerante di freno
ricorre all'aiuto del senso, e veste di abito mortale le contemplazioni
eccitate dall'intelletto.
Dovrebbe, in terzo luogo, rispondere per noi l'esempio de' sommi
poeti, che, anche illuminati dalla luce dell' evangelio, hanno sparse le
altissime e sacre loro invenzioni di favolose allegorie , e potremmo
citare l' Omero dell' Inghilterra , che n' ha riempito il suo Paradiso
perduto, collocando (per dime una di mille) nell'Inferno sulla riva
del fiume Lete, Medusa, che tien lontano colla vista della Gorgone i
diavoli che vorrebbono accostarsi a bevere la corrente dell' Obblio, e
paragonando Eva ad una Driade, poi a Pomona, e poi a Diana, e
Adamo a Giove, quando abbraccia Giunone; citar l'Alighieri, a cui
tanto è la favola che la storia (né dico già la profana, ma la divina);
citar il più casto, il più verecondo di tutti i poeti, il Petrarca, che
confonde Giove con Dio; citar l'elegantissimo Sanazzaro, il di cui
poema sul Parto della Vergine dolevasi il dotto e santo cardinal Seri-
pando, legato al Concilio di Trento, che non si leggesse e spiegasse
neUe scuole alla cattolica gioventù, senza punto scandolezzarsi de' va*
ticinii di Proteo sulla persona di Gesù Cristo ; citar finalmente l'esem-
pio del gran Michelangelo, che nel suo Giudizio universale non ha
temuto di mescolarvi pure Caronte che tragitta sulla barca i dannati.
Ma perchè una censura, .siccome questa, generata dall'ignoranza e
fortificata dalla presunzione, non si mortifica per la via dell'autorità,
noi la combatteremo coli' arme della ragione; e penetrando nel se-
greto ed alto consiglio di quei sapienti, dall'oscuro labirinto in cui
si sta chiuso, lo trarremo alla luce per disinganno di coloro che, non
andando collo sguardo più oltre della superficie, credono con sifiatte
allusioni violato 11 decoro della cristiana teologia.
lOO NOTE AL CANTO SECONDO
Poniamo in fronte alle nostre riflessioni l'assioma del poeta della
ragione : ut piciura poesù. Ora la pittura non parla all' anima che per
l' organo degli occhia e gli occhi non ricevono che la percussione delle
sembianze corporee. Se io Torrò dunque dipingere il vizio o la virtù,
non potrò certamente conseguire il mio fine che col soccorso di co-
lori sensibili, col mezzo de' quali imprimere su i miei pensieri il ca-
rattere della materia, ed introdurre negli animi, per la strada de^ sensi,
la cognizione della natura e di Dio, ed eccitarvi i semi dell' onesto e
del bello.
Sottoposto alle sembianze della materia il pensiero, ecco generata
la favola, la quale non è altro che la scienza in abito popolare, e la
verità travestita. Ne ad altro fine ella prende quest'umile volgar ve-
stimento } che per allettar maggiormente ed innamorare di sue celesti
bellezze le menti schive del popolo, nemico della fatica contempla-
tiva, e docile soltanto a quegl' insegnamenti che battono alla porta
djsi sensi per insinuarsi nell' intelletto. Perlocchè deviano dal retto
sentiero, ed estinguono lo spirito e la virtù vitale della poesia tutti
coloro che la poesia travestono in filosofia , e in luogo di pingere,
declamano le passioni, di modo che spogliata di ritmo la loro parola,
vedrai sparir tutta col numero delle sillabe la lor poesia, rimanervi
non già disjecti memora poeta j ma i dispersi frammenti d' un convalso
declamatore.
Stabilito adunque questo principio, che il poeta è pittore, e che il
pittore non per altra via può tramandare nelle menti degli uomini i
suoi sublimi concetti, che vestendoli di colori tolti in prestito dalla
materia; qualunque immagine di virtù o di vizio gli si presenti, egli
la crederà appartenere giustamente al suo soggetto; e nessuno potrà
contrastargli il diritto di giovanu>nfì n tutto ano iienno: né egli punto
si fermerà a ponderare se vero o favoloso sia il fonte da cui scaturi-
sce; poiché la storia e la favola non altro diventano alla saa imma-
ginazione, che la figura di quelle passioni che col suo soggetto cospirano.
Per questa ragione (vien qui in soccorso del mio pensamento l'im-
mortale Gravina), per questa ragione, die' egli, si stimò Danie Ubero di
ogni biasimo in attere dato luogo a Catone Vticense fuori delPJn/imo,
ed in avere nel Purgatorio tra le sculture delle t^irtà mescolati gli esempli
della Scrittura colle istorie profane ^ anzi anche colle Ja(*ole, Mie quali
benché siajalso il significante , uero nondimeno è il senso significato^
cioè la dottrina morale j ed il seme di tòrta dentro lajavola contenuto.
Né per altro è da credersi che questo teologo poeta collocasse nel Pa-
radiso l'anima di Rifeo Troiano, ucciso, secondo la narrazione di Vir-
gilio, nell'incendio di Troia, se non perchè essendo egli stato j'ustis'
simus unus in Teucrisj et servantissimus cequi^ e trovando in lui Dante
nna viva immagine della virtù, stimò egli, non che lecita, lodevole
cosa il trarla fuori del fango delle Pagane opinioni, e purificarla, di-
vinizzarla in cielo alla sorgente della vera giustizia, di cui era questa
Immagine una peregrina dispersa emanazione.
Né questa è tutu ancora la mente dell' Alighieri. Investito egli dal-
DELLA BASSYILLUNA lOI
Paltiuijiia idea della graxta di?ina, che, giusta il lublime suo detto,
da si profonda
Fontana stiDa, che mai creatura
Non pinae T occhio insino alla prim*onda;
e seguendo la dottrina di quei dottori che insegnano che se un uomo
non illuminato dalla rìyelazione mantenesse nel tenor del suo vivere
nna perfetta osservanza della religion naturale, e la piena conformità
ai dettami della ragione che parla a tutti , Iddio uon potrebbe non
usargli misericordia, ed inviargli anche per mezzo d' un Angelo il lume
della fede, perchè giungendo ad acquistare una più alta idea dell'Es-
aere supremo, giungesse ancora a credere in esso , e a salvarsi , sup-
pone Dante con una ipotesi, che nessimo gli può impedire, che il
fortunato e virtuoso mortale di cui si parla, fosse appunto questo Rifeo;
il quale, ayendo posto tutto il suo amore alla giustizia, ottenne che
... di grazia in graiia Iddio gli aperse
L* occbio alla no&tra Redcnùon futura.
Onde credette in quella;
e soggiunge, che la Fede, la Speranza, la Carità
gli f UT per baUeuno
Dinanti al Latteoar più d' un millcsmo.
£ in questa guisa quel profondo ingegno^ avvezzo a nascondere la sua
dottrina
Sotto il velame ddli rersi strani,
cristianamente favoleggiando, che altro mai fece, se non che rendere
alla virtù un tributo di riverenza, esaltandola perfino nella persona
d'un Pagano, ed insegnando a noi il rispetto che in ogni tempo, in
ogni luogo, in ogni stato debbesi alle sue divine attrattive ?
Che se la libera illimitata ragion poetica spinge tant' oltre, siccome
abbiam veduto, i suoi privilegi, chi ardirà, leggendo (se pur le legge)
le opere di quei grandi intelletti, stendere le sue critiche petulanze
sulla profonda sapienza che move e regola le peregrine loro inven-
zioni? Chi sarà si villano da condannar V uso che da ingegni più li-
mitati e più timidi si fa talvolta discretissimo e moderatissimo della
£ivola, nuli' altro da essa prendendo che il puro senso allegorico ? Igno-
rano forse costoro che altrettanto fecero non pochi tra i medesimi
antichi santi Padri, i quali volendo distrarre dal culto superstizioso i
Gentili, non solo ( dice il citato Gravina ) adoperavano il wigor della
luce evangelica, ma eccitat^ano ancora alcune autorità de' primi archi"
tetti dell' idolatria, e sviluppando i nodi delle favole, Jaceuano apparire
qualche principio della cristiana fide sulla medesima tela de^Jìlosofi ed
witichi poeti? Che più ? Se leggendo noi negli stessi libri ispirati — Jk^
cientem Arcturum et Orionem^ et conyertentem in mane tenebrasj et diem
102 NOTE AL CANTO SECOBTDO
in noctem mutantem : Amos, cap. 5. — Qui extendii cmlo* toliu, et gru"
dùur super fluctus maris. Quijhcit jircturum et Oriana^ et Bjrada» et
interiora AustrL Job, cap. 9. — nessuno ha mai bestemmiato che Vaso
di qaei termini favolosi contamini il santo loro linguaggio; tì sarà chi
in un poema^ nel quale cospira la fayola non meno che la religione,
inorridisca al sentire i nomi soli d'Acheronte, di Circe, di Briareo? e
coli' anima piena di questo santo raccapriccio si aTrà il coraggio di
pronunciare da certi tripodi che la Cantica BassviUiana altro non è
che un mostruoso miscuglio di profano e di sacro ?
Sarebbe questo il momento di scuotere la polvere di dosso ad un
borioso scrittore C^) che^ affettando la tirannide delle lettere, scrive
tuttodì sentenza di morte contro le altrui produsioni (salvo quelle che
vilmente si prostrano al suo tribunale) per vendicarsi del sonno apo-
pletico in cui son cadute le sue. Ma non sarà merito nostro, se nep<-
pur questa volta la castigatezza de' romani costumi concede libero
sfogo alla giusta ed antica indignazione che ci commove. Qualunque
però siasi questo nume che scherzando crea e cancella con un tratto
di penna le riputazioni di tutti i secoli, questo letterario carnefice, il
quale non accorda la vita che alla sprezzata e timida plebe che gli
casca ai piedi tramortita d' ammirazione e di rìverenia, spera egli forse
d' aver ottenuto dall' Italia il perdono d' averla un giorno innondata
col brodo delle sue sciolte Poetiche ? La crede egli forse dimentica
de' grossi volumi da lui stampati a perpetuo monumento della sua in-
sensatezza, e a beneficio solo de' cessi e delle botteghe? Non teme
egli punto che, mentre da lui si pescano in casa d' altri le virgole e
le parole, venga a qualcuno la fantasia di pescar le balene nell'oceano
de' suoi errori? Dopo di aver consumato tanti anni nelle villanie con-
tro i vivi ed i morti, perchè non sacrifica almeno un sol giorno alla
gentilezza ? Che è questa rabbia, questa bile sempiterna che lo divora
e gli fa versar dappertutto le sue delfiche contumelie? Che é questa
pretensione di rovesciare, di calpestar sempre l' opinione del pubblico?
questo brutale istinto di cercar ne' libri i soli difetti quoe umana pa^
rum cavit natura^ e su questi scagliarsi - affamato , come i corvi che
vanno in traccia soltanto delle carogne ? In somma, questo vile co*
stume di banchettar sempre alle cene di Ecate per non morir di fame
sul trivio? E poi si lagnano se si tinge qualche volta la penna nel-
l'amarezza 1 e 'poi le savie persone declamano sull'intolleranza poetica!
Ohi uomini^ che, come il Fariseo, ringraziate il Signore di non es*
sere né poeti ne intolleranti, e che provate tanta compassione pe' cani
che mordono, e niuna affatto pe' viandanti che si difendono , sapete
voi che le bestie cattive non si domano colle carezze ? Sapete voi che
ni uno è solito di far la limosina a chi gli ha menato prima il bastone?
(*) Qui l'autore invcùee contro Saverio Bettinelli, autore dei PoemeUl in Tersi sciolti
sotto il nome arcadico di Diodoro Delfico, delle Lettere Virgiliane^ ec. Più Urdi si ricon-
ciliò con hai , ìndiriBandogli la fonosa Lettera ncUa quale si difende contn le onisure di
/V/efro, e che yerA a suo luogo riprodotta. L'Editore.
DELLA BÀSSTlLLIÀNil lo3
Pao. 4>.
iS Uno òt* più fomosi oanpioDÌ della guerra de' giganti contro gli Dei
fu il Centìmano^ che i Numi (dice Omero) chiamano Briareoy e i mor-
tali Egeone. Costui, prima della sua temeraria intrapresa^ ayea reso a
Giore nn importante servìgio. Ayendo Giunone ^ Pallade e Nettano
cospirato contro di GìotCj Teti scoperse la congiara, e chiam& in soc-
corso di esso questo gigante da cento braccia, il quale 9 portatosi in
cielo, si assise accanto a Giove in aria cosi terribile, che gli Dei con-
giurati si spaventarono, e rinunziarono all'ardito loro disegno. Un'al-
tra volta, essendo stato eletto in giudice d'un litigio tra il Sole e
Nettuno circa il dominio del territorio di Corinto, egli ne aggiudicò
l' istmo a Nettuno e il promontorio al Sole. Con tutte queste prove
di virtù e di saviezza egli si ribellò contro Giove, e lo combattè nei
campi di Flegra nella Tessaglia, ove fingono i poeti che seguisse que-
sto memorabile conflitto, che prima fu argomento dei versi d'Apollo^
poi d'Orfeo, e poi di tutti i poeti.
Ivi.
*^ Fa questo Diagora il più ardito ateista di tutta l'antichitk Egli
scrisse dei libri per provare che un Dio è un essere impossibile; per-
lochè gli Ateniesi, inorriditi di queste massime, lo cercarono a morte,
colla promessa di due talenti a chi lo desse vivo, e di uno a chi ne
portasse la testa: e il decreto che lo dichiarava infame, fu scolpito
sopra una colonna di bronzo.
In quanto ad Epicuro, fra le molte dispute che si sono fra i dotti
eccitate sopra i suoi dogmi, abbiasi ognuno l' opinione che più gli piace.
Basta che in ciò solo si convenga, che la dottrina di questo filosofo
è passata in un pessimo proverbio, e che risuscitata nei dolci versi
di Lucrezio, e in tanti libri francesi^ è divenuta una delle più fatali
alla purità della morale evangelica.
Ivi.
>7 Dio volesse che questa non fosse che un' enfatica espressione poe-
tica! Ma ella è pur troppo T orrìbile letterale disfida che leggesi nel
più empio di totti i libri, di cui ayrassi luogo a parlare nelle note
del terzo Canto (*).
Ivi.
18 filagnifico detto del Salmbta : in sole posuit tahemaculum suum.
I sentimenti qui esposti intomo all'ateismo francese essendo stati
dal nostro poeta delineati, e quasi verbalmente espressi in un'Ode,
che gira da molto tempo scorretta per le mani del pubblico, speriamo
di non somministrar motivo di sdegno al cortese lettore, se qui intera
la pubblichiamo, non tanto per l'indicata ragione, che potrebbe sti-
(*) Vedi la NoU 17 al Terso del teno Canto: Ultimo alJSerooneilio eomparia. Qui non
ooconre di rìpeCere ^pianto si è già dello altrove intorno a queste Note, a carte 72.
L* Editore.
I04 VOTE AL CAHTO SECONDO
mani un pretesto^ quinto per pnrgaila, come Uroro della stessa poma,
dai molti errori dì cai l'ha riempita la negligenia da' cattirì copisti (*).
UfVlTO D'UN SOUTAKIO AD UN CITTADDIO
To cbe serro di Corte
giorni meni InTagliati e foedu,
Vieni, afiuo mortai, fin qnetfi boschi,
Tian, e farai felice.
Qni BOB di ipOK, Bè di fliadri il ptanlo.
Ne di gaDicha trombe odrù lo squillo;
Bla eoi defl'anre il susorrar tranquillo,
E degli augelli il canto.
Qui aol d'anor sovrana è la lagione,
ScBia rischio la Tìta, e scnn affiamo.
Ne d'dtio mal si tane, altro tirauBO^
Che il remo e l'aquilane.
QoMdo ìb Toho BÙ soflSa» e odi rigore
De* snoi fiati bù morde, io rido, e dico:
Non h certo costai noctro nemico.
Ne Tile adnLatoie.
Eg^ dd fimgo praacUo m'attesta
La oormttilal tcmpraj e di colei.
Cui dd Taso firtal fér dono i Dei,
L'erediU iimesU.
Ma dolce è il fintto di memoria amara;
E Bie^o tra capanne in nmil sorte,
Cha nel tnoonlto di bugiarda Corte,
Filosofia s'impara.
Qnd fior che sul mattin ù vago iili im .
E smorto fl cipo sa la sera abbassa,
ATTÌsa, in suo parlar, che pnsto passa
Ogni mortai »aghem.
Quel rio dia ratto alI'Ocean canmina.
Quel rio Tnol danni, che dd par Tdoce
Nd mar d' eternità mette la Iboe
Mìa vita peregrina.
Tutte daD' dee d giunco han lor fiiydla.
Tutte han senso le piante: abdie b rude
Stspida pietia t'ammaestra, e diiude
Una TÌtd fiammdla.
(*) Quest'Ode fu già da me pubblicata a carte ia8 del primo Tolome. Non «vedo però
di doreria tralasciare a questo luogo, dove fu dall' autore data in luce la prima volta , attesi
i varii cangiamenti di' egli vi lÌBoe da poi nel riproduria , e che a tduno piaceri fórse di
eoufrontare coU' ultima lesione alla quide mi sono nd primo vdume attenuto.
VBBtore.
DELLA Màasvnxwxk io5
dnnqw, infrlin, m qoMle ukn^
Fuggi r empie citt^, iìiggi i restigi
Di niarte sanguinoii, e di Parigi
Le vagabonde belve.
(i l'aTaio iQol di colpe inCetlo,
Ore crudo iiii|»agar li rede il uno.
Non il pigro teiren, noo l'ofano e il oanro.
Ma de' firateDi il petto.
Abi di Giapeto iniqua fUipei ahi dira
Secol di Pimi Insanguinata e rea
Laidiò la tem un'altra volta Aitiea,
E riaenò l'Empirò.
<2ttindi l'enqpia ragion del più robosto.
Quindi fidso Panar, falsi gU amici»
Compre le leggi» i tndilor fieliei,
E sventurato il giusto.
Quindi vedi caltf tremendi e fieri
De* Dmidi i nepoti, e violenti
Scuotere i regni, e sgomentar le genti
Coli' armi e oo' penti«ri.
Enoeladi noveUi, anco del deb
Assalgono le tonrii a Giove il trono
Tentano rovesciar, rspiigU il tnono,
E il non trattabil telo.
Ma non dorme lassa la sua vendetta;
Gili monta snll' irate ali del vento»
Gili nella destra mormonr gli sento
11 lampo e la saetta.
Pao. 43.
■9 Greco modo di dire, siccome nota Servio a quel teno di Virgilio:
Insonnere cava gemìtumqne dedeve cmvena |
simile a quell'altro:
nostro dolnisU scpe dolore.
Dicasi altrettanto di quel passo di Cairo riportato da Qointiliano:
JhicUun ambùum scitis omnea, et hoc vos scirt omnes sciunt Cosi yiver
Yita^ morir morte^ ferir ferita, e tant' altri. Niuno però meglio del mio
messer Lodovico :
Ma tà quella awertensa inavvertita
Da Malagigi per pensarvi poco:
e nian peggio dell* Alighieri :
Io credo eh' ei credette ch'io ciedesse.
L'Ariosto , la di cai chimic« traeya l' oro da tatto, ha imitata grazio-
Io6 ROTE AL CANTO SECONDO
samente questa licenziosa locuxioiie, e poco manca che non la renda
degna di lode:
lo cndn, e credo^ e credsr crwb il vero.
Pao. 43.
»o Perìfrasi del di ai gennaro> giorno di sempre acerba ricordanza
per la morte dell'infelice e virtuoso Luigi XVI. Quattro sono le cir-
costanze che qui si toccano. La prima èj che in quel giorno com-
putasi dagli astronomi il passaggio del Sole dal segno di Gaprìcomo
a quello d'Acquario: la seconda che, stando il Sole nel Capricorno,
i nostri mari sono, piucchè in altro tempo, agitati dalle tempeste; lo
che illustreremo in fine della nota: la terza, che nella costellazione
d'Acquario favoleggiasi collocato da Giove il rapito troiano Ganimede;
onde troiana stella giustamente vien detta, come per la stessa ragione
puer idasus dissela Ovidio , e jw^enUis Aquarius Manilio. La quarta
finalmente si è, che, dimorando il Sole in questo segno, il clima no-
stro è sì freddo, che attenendoci alle nostre sensazioni, senza le quali
il criterio poetico sarebbe tradito, il raggio solare è più scarso e pi-
gro del solito, perchè tale lo decide il giudizio de' sensi.
Che poi siano frequenti le tempeste nel segno di Capricorno, mas-
simamente quando tramonta, lo impariamo dalle meteorologiche os-
servazioni, non meno che dai poeti, de' quali tre soli esempii addur-
remo perchè men cogniti : uno di Teocrito nel settimo de' suoi Idillii :
quum propter occidentes Hados JYotus humidas urget Itndasj l'altro di
Nonno : imbrtfkrum piscosi tupra dorsiun Capricomij e l' ultimo di Rufo
Pesto, che con virgiliana e properziana eleganza disse:
badi
Sova procellosis knaiittiint flabra fliientis ,
invece di procellosa flabra. Vedi l'Eneide, lib. IX, v. 668, e l'intem-
perante imitazione di Stazio nell'VIII della Tebaide.
Ivi.
*| La sentenza di morte sulla sacra persona di Luigi XVI fu eseguita
poco dopo le dieci di Francia, e il poeta fa che l'Angelo coli' Ombra
entri dentro Parigi poco dopo le nove, per occupare intanto i suoi
eterei viaggiatori nello spettacolo di quei lugubri preparativi, e nel-
l'orrore di quella città forsennata. Chiama poi le ore ancelle del giorno,
come le chiamò Dante :
vedi che tene
Dal senrigio del di 1* ancella sesta;
e questo pensiero egli bebbe al fonte d' Ovidio, che impiegò espressa-
mente le ore al servigio del Sole:
lungere etjnoi Titan velociI>us imperat horis;
DELLA BASSTILLIANA IO7
le qnaK poscia l'èmulo d' Ovidio , il Marini ^ iofegnoMmeiite appellò
dodtd brwu 9 dodici yermigUe^ per distinguere le ore diurne dalle
nottnme.
Chi datti a credere che anche Omero le rappresenti come ancelle
del Sole^ s'inganna» non facendole egli che oaratrìci de' caTalli e del
cocchio di Giunone e portinaie del cielo. Vedi il lih. V e Vili del-
l'Ilìade, e la elegantissima imitazione che ne fa il Sanazzaro. Non si
Tuole omettere, che, secondo la favola, le ore sono figliuole di Giove
e di Temi, alle quali, oltre la custodia delle porte celesti, i poeti af-
fidarono ancora l'educazione di Giunone, e la cura di trastullar Pro-
serpina quando le Parche e le Grazie, baUando, la riconducono ogni
sei mesi alla madre. In Atene ebbero altari e sacrificii, e venivano
supplicate per ottenere la temperanza del Sole, e la maturità de'frutti.
Delle quali cose comprenderai subito la nascosta ragione, se conside-
rerai, che la favola greca sotto il nome di Ore non già intende^ sic-
come noi, la vigesima quarta parte del giorno, ma bensì le stagioni
(l'ano e l'altro significando il greco vocabolo), che per ciò solo furono
dagli antichi appellate le quattro ore dell'anno, sebbene Esiodo e
l' antere degl' inni attribuiti ad Orfeo ne riconoscano tre solamente.
Anche presso i Latini ebbero assai volte lo stesso significato. Quindi
quel detto Oraziano : te flagrantù hora canicuìm nètcU tangerej e quel-
r altro di Plinio : has ubi geniiaUt anni stimùloptrà hora»
Pào. 43.
«> Cioè stridule, sonore, come arguto bosco, argute spole, arguti
gridi; e precisamente argute seghe, ad esempio di Virgilio:
TuDc inTì ffigQfv tlqiw tfgnte umiiM seins*
Ivi.
«3 Nessun atto in natura palesa tanto l'amor materno, siccome qne»
sto, e son pochi i poeti, che non siansi occupati di questa delicata
pittura. Sentiamo Virgilio:
Et trepida natam pnoen ad pecton ustoi.
Lucano copia Virgilio, e muUndo il trepida in patfidm, indebolisce
l'eridenza dell' ipotiposi:
Et pavida natot pMMvt ad paeton matraa.
Stazio ancor esso sull'orme del maggior latino: pressitque Palamona
mater. Avvi, ne mi ricordo dove, in Euripide un passo consimile. Fra
gl'Italiani, basti nn esempio solo dell'elegantissimo Proteo Ferrarese:
Hodai» e Sonna nfi, Garonna e Reno:
Si itrìnaero le madri i 6gli al mdo.
Pào. 43.
>4 Vedi il tenero ed appassionato atteggiamento di Andromaca,
I08 NOTE AL CAUTO SECONDO
nel VI dell'Iliade^ quando dÌMnade il marito dall'andare in battaglia;
e l'altro di Creosa, nel II dell' Eneide, quando yuoI trattenere Enea
dal tornare fra i perìcoli delle armi nella gran notte deUa mina di
Troia :
Eoo» aalem compien podet in limiiie oanjiix
Hnrdiat, panmmqne patri tendeiiat lolnm.
Sebbene le moderne donne francesi siano assai lontane dalla coniugai
tenerezza delle Andromache e delle Creuse, e sembri cbe la natura
abbia finito di parlare al cuore di quelle genti, nondimeno quante
lagrime, quanti sospiri, quante palpitazioni in quel giorno del maggiore
de* misfatti francesi, in cui stupbco che non prendessero sentimento
le pietre !
Pio. 44.
a^ Prima di parlare di queste orgie, diremo chi fossero questi Druidi.
Erano costoro i sacerdoti, i maestri, i legislatori degli antichi GallL
Vivevano una vita ipocrita, ritirati nel fondo delle selve, ove dalla
credula nazione venivano consultati. Adoravano il dio Eso e il dio
Tentate, eh' erano il Marte e il Mercurio de' Romani ; e le vittime più
gradite erano i prigionieri nemici, i cittadini, i fratelli, e qualche volta
le mogli e i figliuoli. Fra i tanti collegi in cui erano distribuiti per
tutte quelle provincie, e fin anche per la Germania, il più rinomato
era quello dì Marsiglia, ove celebravano in dati tempi le loro conven*
zioni. Cesare lo distrusse; e la descrizione che ne fa Lucano, nel lib. Ili,
in versi animati dallo spirito di Virgilio, mette orrore e raccapriccio.
Leggi il libro VI della guerra gallica, e intenderai com'erano inge*
gnosi nell'essere scellerati e crudeli. Con tutta ragione adunque ne
vengono qui introdotti gli spettri a pungere ed infiammare i non de-
generi lor discendenti al maggior de' delitti di cui potessero contami-
narsi e insuperbirsi.
Le allegre poi ed orribili saltazioni con cui sono rappresentate le
loro larve, e la gran faccenda che si danno per incoraggire al mislatto
gli animi sbigottiti e sospesi, sembrano imitate dai tiasi, o sia dall'or-
gie Bacchiche, di cui furono piene in tutti i tempi le fantasie de' poeti,
che sempre ne parlano come di cosa oscena, barbara e nefanda. Puor
vederlo nelle favole di Penteo, di Orfeo, di Filomena, e nel lunghis-
simo poema delle Dionisiache.
Ivi.
*^ Cioè torva. Orazio:
OUliquo oculo mca commoda limat,
e Stazio :
RespcctentTe trticcs oliUquo lamioe matres*
Anche Pindaro disse ohUquce meniL
Ivi.
>7 Chiunque sia alcun poco nodrìto nella lettura degli antichi poeti.
DELLA BAS8VILLIANÀ IO9
troTerà facilmente nelle larve de* Druidi il carattere delle Furie, di che
particolarmente Eschilo ed Earìpide fra i Greci, e Stazio fra i Latini
cantarono tante volte ed in tante maniere. Senza ingolfarci negli
etempii di questi, ecco un passo di Virgilio che ci presenta dei tratti
di molta somiglianza col pensiero del nostro poeta:
Gmtinuo iontes ultrix accmeta flagdlo
Tinphone quatit insulUns, Umroiqiie ùnistn
iDtentam angues, vocat agmina um torarani;
le quali d' accordo percuotono le anime de' condannati all' inferno
nella guisa che fanno qui i Druidi le teste e le schiene de* Francesi
onde porli in furore. Alla circostanza delle faci e delle serpi si é ag-
giunta anche quella de' pugnali e de' veleni per denotare il carattere
sanguinario di questi barbari sacerdoti, e de' più barbari loro discen-
denti.
Pàq. 44.
»« Tibullo:
Tùiphoneqtw impexa feroi pio crinibiu anguat
Swit, tt huc iOiic impia tari» fogit:
al qual verso chi sa che invece d' impera non vada letto impUxaì È
Virgilio che me '1 fa sospettare :
. . . Cflrn]eofi|iw impleTw oiaibiu angaai
Eamenides.
Ivr.
•9 Questo tremore della terra sotto il calpestio de' piedi non è che
il puisu pedum tremit excita tellus di Virgilio, che lo tolse ad Omero,
presso il quale è •frequentissimo un tal modo di dire : né troverai
poeta che, parlando di concorso e di moltitudine, non si giovi di que-
•ta sempre comune e sempre viva espressione.
Ivi.
3o Quadra qui molto quel passo d'Ovidio, nel XII delle Metamorfosi:
Nec tamen est clamor, sed pair» murmura vocis ;
Qualia de pclagì, tiquis procul aodiat,' undis
Esse solent; qualemve soDum, cum lupiter atra*
Increpuit nobes, extrema tonitrua reddunt.
Due particolari esempi di rapide ed accumulate similitudini vedili
nel cap. i3 di Osea.
Ivi.
3i Quia Ubi tmic, Dido, oemeoti talia aensusT
Quosqac dabas gemitas ?
Non si può leggere questo passo senza commozione. Tutto vi è
I I O NOTE AL CAUTO SECONDO
cipreiso eon gnmde «ffeito, ed è più quel che ti pensa e ù sente,
die quel che si dice; né si potrebbe dir tanto, che l'uditore nonne
tenta e non ne pensi ancor di più. Gareggia con Viigilio T Ariosto:
Che cor, dna di Son, die conaiglio
Fn aUon il tno^ die tnr redesti Tdino
Fn milk ^ade al gaevoio figlio I
Onesto modo di dire, che porta seco nn profondo sentimento, osollo
anche il padre dell' eloquenza romana nelle Filippidie : Quid Ubi tane
mwmiì e Terenzio : Quia iUi tandem crtdù Jor% animi misero, qui
eum aia eonMum^f
Pa». 45.
3« Sembra legge tra i poeti riceyuta di non descrìrere mu qualche
grande ed orribile ayyenimento senza il soccorso dei deliquii solari.
Cosi Virgilio nella morte di Giulio Cesare ; cosi Lucano nello scoppio
delle guerre ciyiU. Seneca, nel raccontare la nefanda cena di Tieste,
sfiora la delicata idea TÌrgiliana; e Lucano la seontraiià per volerla
troppo ingrandite.
Iti.
33 Capitale della Beozia, fondata da Cadmoy circondata di mura da
Anfione col noto miracolo della lira, e celebre pe'suoi delitti; onde
anche Dante presela per tipo di crudeltà, chiamando Pisa nwella
Tebe, per ayer fatto erudelmente morire gl'innocenti figli del conte
Ugolino.
Ivi.
34 Una bella comparsa di ombre condotte dalla pietà a contemplare
qualche gran fatto tragico puoi vederla nell'Omero Germanico, lad-
dove nella Messiade fa uscire dai sepolcri agitati dal terremoto le om-
bre de' patriardii ad assistere sul Calvario alP agonia di Gesù Cristo in
mezzo agli Angeli, che vanno e vengono su e giù, tutti piangendo. A
questo passo di Klopstock credo die abbia mirato, ma da lontano, il
nostro poeta, introducendo qui le anime di quei buoni Francesi che
per la causa della religione e del re hanno sofferto il martirio.
Ivi.
35 Non fu solo Omero ad immaginare queste bilance in mano di Dio
per pesare i destini: noi le troviamo ancora in Daniele, ove una mano
invisibile scrive a Baldassarre sul muro : Thecel, appensus es in siaUra,
ei inventa» e» minue habens. Vedi l' imitazione che fan Virgilio e Mil-
ton del pensiero omerico, e il tormento che danno i critici al poeta
latino, e la troppa, se non m'inganno, parzialità di Addison veno
l' Inglese.
In quanto al nostro, noi ci asterremo, siccome abbiam fatto finora,
da qualunque giudizio invidioso, e proseguiremo il preso istituto di
tacere, o^ altri avrebbe più luogo a parlare. Ma se il discreto e giu-
sto lettore vorrà per un momento riflettere all' importanza , alla qua-
DELLA BA88TILLUKA III
lità> alla gnndeisa de' destini che qui si pesano , e abbandonarsi al-
l'impeto del proprio sentimento, deciderà subito per sé stesso dii nel^
l' oso di queste bilance sia stato dalle cireostanie e dalla fortuna pia
fiiTorìto; e conoscerà se precipuamente in questo luogo abbia il poeta
nostro adempito quel desiderio di Quintiliano, il qual Tuole che l' imi-
tatone^ perdìè sia perfetto^ si slanci scopra T originale.
Pao. 45.
36 Questa immagine é molto conforme a quella di Stazio bellissima,
nel lib. XI della Tebaide, ove la pietà scende dal cielo per impedire,
se può, il duello tra i due fratelli:
Tiz ttdnrat mapo» minte itiniiiìmoMw psM
AsmiiM* ff^p^■|»«l^^^^ iMofM i timc <m msdttcnnt,
Peclonqiw, et teoitns nibnptit fratriliiu lioiTor . . .
Tela cadant: rmirtintiiT e^
Iti.
37 U intervento impror?iso di queste larve regicide ad impedire Pef-
fetto della pietà, parmi V imitazione continuate dell' indicato luogo di
Stezio. Ivi pure comparisce Tisifone che colle minacce e col flagello
di serpi caccia in fuga la Dea, la quale, coprendosi il volto col lembo
della veste, rimonte in cielo a querelarsi con Giove.
Ivi.
3< Roberto Francesco Damiens assassinò Luigi XV nel di 5 di gen*
naro 1757. I tormenti dati a questo mostro per strappargli di bocca
vna sola parola che potesse far sospetterò eh' egli avesse de' complici,
e F inaudite oostania con cui sofferse la morte, mettono terrore. Il
ano supplizio dorò un'ora e mezzo, e per lo spazio di 5o minuti fu-
rono inutili gli sforzi di quattro cavalli per lacerarlo. Egli era zio pa-
terno del moderno Robespierre, che pid d'ogni altro colla sna furiosa
eloquenza ha contribuito alla morte dell'infelice Luigi XVI.
Ivi.
39 Di questo assassino del gran Gustavo, re di Svezia, é superfluo il
far parole; essendo a tutti manifeste le circostenze e la qualità del
suo strepitoso misfatto.
Ivi.
40 Francesco Ravaillac uccise Enrico IV il di i4 maggio 16 io. Era
nativo d' Angouléme, e non avea più di trentedue anni. Prima di lui,
altri cinque scellerati ^ fra' quali uno scapestrato di soli diciotto anni,
avevano in diversi tempi tenteto lo stesso delitto sulla persona di
questo buon re, di cui 1 Francesi hanno idolatrate la memoria fino
al 1789.
Ivi.
4« Ci prestiamo interamente all' intenzione del rispettoso poete che
ha voluto dir tutto con quel dantesco :
Teocàolo, •ocioocbè tu per te ne cerclù:
I 1 2 NOTE AL CAUTO SECONDO
se pare non ha voluto alludere all' incerteiza in che vimmo tuttora
della razza e condizioDe di [questo quarto assassino^ di cui Pietro
Mattei» istorìografo di Enrico IV , scriye cosi: Jusqu'à cette heure on
n*a 9CSU trai qui a étd le cofueil, ni Pauteur de ìa mori ^Htmy IH,
Pag. 46.
4* AppellatiTO delle Furiej che, propriamente parlando^ Dire in cielo^
Furie in terra ed Enmenidi nell'inferno si chiamavano. Nella lingua
de' poeti il significato è prombcuo.
Ivi.
43 Capeto non per derisione, come stortamente la pensa il derìso
commentatore d' Assisi, ma perchè discendente da Ugo Capeto, illustre
capo della terza stirpe de' re dì Francia, il quale, a testimonianza de-
gli storici, per la sua pietà e pe' suoi savii regolamenti meritò il titolo
di difensore della Chiesa e di ristoratore del regno.
Ivi.
44 Voce latina, significante corda da nave, qui presa in senso gene-
rico. Ma ohimè! questo latinismo non ha esempio in tutta la Crusca.
Nondimeno ricordiamoci del privilegio aristotelico e del parce deiorta
Oraziano, e confesseremo che il salto da rudens a rudente è si breve,
che può arrischiarsi di farlo anche un fanciullo. E poiché abbiamo in
sensi diversi adottato i latinismi rude, rudero, rudimento, non isde-
gniamo di aggregare anche la rudente: e muoia la pedanterìa.
Pac. 47*
4^ Eccoci ad un passo che ha messo il campo a romore con molta
vergogna dell'arte critica, nella quale tanto si ciarla e cosi poco si
ragiona. Si pretende che amendue i poli siano perpetuamente ed egual-
mente freddi, e che perciò l'appellativo di caldo dato ad uno di essi
sia un error grassoìano da emendarsi ( dice una nota dell' edizion di
Pavia) colla geografia de' fanciulli aUa mano* E noi veramente, a fronto
d'una tal decisione, mal sicuri ci stimeremmo sulla sola miserabile
autorità di Lucano, di Dante, di Bernardo Tasso, di Pietro Bembo, e
d'altri mille che infelicemente sono caduti nello stesso errore; se
questa volta la debole ragione de' poeti non venisse soccorsa anche da
queUa de' filosofi, fira' quali sa egli quel cortese annotatore chi sceglie-
remo per nostro Achille? Un tale che lo farà sbalordire, un sommo
professore di matematica appunto nell' Università di Pavia, il eh. P.
Fontana, a cui rimetteremo, se lo consente la sublimità de' suoi studii,
il giudizio di questa lite, perché pubblicamente intentata nella città
ch'egli illustra col suo nome, ed istruisce co' suoi utili insegnamenti.
£ perchè un ingegno assuefatto ad alti raziocini! potrebbe sdegnare
l' umiltà dei nostri e dello scolastico nostro dire, si farà innanzi a ra-
gionare per noi il compagno un tempo del grande Eulero in Pietro-
burgo, ed ora unico successore del celebre Le Seur nell' Archiginnasio
romano, il sig. ab. Gioachino Pessuti, l'autorità del quale lo stesso
Fontana, che ben lo conosce, non potrà non ammettere con compia-
cenza e rispetto. Questo sublime geometra, a cui giustamente appli-
cheremo quel detto che già da un altro grand' uomo fu profierito, non
DELLA BÀSSYlLLLàlU I l3
^ffktìcarU a iódarìù, ma scrùà $okimenié il suo nome, non ha potato
asieneniy in meno al rumor delle critiche i di procedere in campo
egli ttetso a quietarne lo strepito con nna lettera, della quale egli
Tuole che siano fregiate le nostre note. Noi dunque la pubblichiamo
e per utile intrattenimento del nostro lettore , e per disinganno dei
discreti ed onesti critici» fra' quali non dubitiamo di annoverare V an-
Botator di Pavia ; non mai però il brutto mifors M bello che s'infuria
come una Menade, quando ode parlare del caldo polo. Col più intimo
dell'animo nostro noi ringraiiamo questo terribile e corpulento let«
terato dell'onore che ci comparte de' suoi desiderati e cari strapazti,
tanto pia cari, quanto che egli stesso protesta, da queir uomo d'onore
che tutti sanno, di non aver mai letta la miserabile nostra rapsodia,
per molte ragioni, ma specialmente per questa, che non è scrìtta in
greco. La qual protesta è sincerissima , perchè realmente egli giudica
aempre sema leggere e sensa capire; ed è poi giustissima, avendo fin
da ragaaso disimparato l'italiano per ripienezza di troppo greco, di
quel greco cioè, che Maometto proibisce nell'Alcorano, e che si sta-
giona nei barili fHi le burrasche dell'Arcipelago.
•• GtoAcaiso Pessuti jl suo amico Viscehzo Monti,
m La vile e maligna turba de' pedanti e de' poetastri blatererà sem-
pre contro di voi, in quella guisa che gl'infelici abitanti di Congo e
di Angola maledicono e bestemmiano quotidianamente il Sole meri-
diano che gli abbaglia e li cuoce. ^
Urit eBÌm fu%on ino, qui pnegriTSi arlM
Infra ae potiUs
E che? La vostra cantica doveva forse andar esente dai morsi ai quali
soggiacque l'Aristodemo^ e le altre più forbite ed origtnali vostre pro-
duzioni ? Perchè però sempre più vi persuadiate del niun conto in che
dovete tenerli, permettete che vi trattenga alcun poco nell' esame d'un
^roMMolano errore, nel quale pretendono d' avervi colto con tanto loro
trionfo. Voi dite nel II canto che nel momento del barbaro regicidio:
Tremoone il mando, e per la manTiglia
E pel teiTor dal freddo al caldo polo
Palpitando i Potenti aliar le ciglia.
In quella espressione adunque di caldo polo trovano gli seiaorati vo-
stri detrattori uno sproposito fisico ed astronomico, per cui lo stesso
annotatore dell' edizion di Pavia , altronde con voi cosi liberale di
lodi, bruscamente vi manda alla geografia de^Jànciulli per impararvi
che i poli e le regioni polari sono perpetuamente
Conilea giade concrete, atque imliribas ttrìs:
Voi rispondete, e rispondete benissimo, che la parola polo si usurpa
in diversi sensi, vale a dire non solo nel senso rigoroso di estremità
MoHTi. Poemetti, 8
1 1 4 MOTE AL CANTO SBCOHDO
dell'asse terrestre ^ ma aache di regione o plaga del ciclo; cosicché
dal freddo al caldo polo possa significare dalle fredde alle calde, dalle
settentrionali alle meridionali regioni; nel qnal significato appunto dal
medesimo contesto egli è eridente che toì V adoperate, non esistendo
a cognizion nostra sotto i poli, presi in rigore di termine matematico^
né regnanti che tremino, né poeti che scriTano dalle cantiche , e, se
a Dio piace, neppur critici che le yilipendano. E cosi questa malta
censura Ta disgraziatamente a percuotere i poeti tolti^ e latini e ita*
liani, che mille volte usurparono questo Tocabolo nello stessissuno
senso, e precisamente Dante che chiamò l'Austro la calda parta ^ e
fredda parte il settentrione; e Bembo che disse: eealda Febo ilnoetro
poloj e Bernardo Tasso:
■
Or sotto il caldo, or lOtto il btàào polo.
E qualora fosse pure stata Tostra intenzione di parlar realmente delle
due estremità dell'asse terrestre, non avete voi pronto il veiao 54 àA
lib. I della Farsaglia, che consacra la vostra espntsioDe?
Nec poliu adversi calidiu qui mergitur anutri.
Bla perché la censura, per non assolvere il vostro vèrso, non perdona
neppur a quello di Lucano, nel che viene aiutata dagli stessi di lui
commentatori, io prenderò a giustificar l'uno e l'altro; ed avrò cosi
meritato bene deir arte critica, la quale accorta del proprio torto, fi-
nirà di tormentar voi e l' addotto passo di quel profondo e sentenzioso
poeta. Uscendo adunque dalla geografia de* fanciulli , mostrerò che i
poli sono alternativamente caldi e freddi, e da una riflessione che fa-
remo in ultimo sopra alcuni sensibili e particolari rapporti, desome-
remo una verità, se non geometrica, certamente poetica, che sommi-
nistrerà una semplice e naturale difesa del passo che abbiam riportato
del poeta latino. Proverò poi geometricamente che nell'epoca in cui
appunto voi avete parlato, cioè ai ai di gennaio, il polo antartico,
ossia l'invisibile, era veramente caldo, e più caldo ancora di quanto
lo può essere nel colmo della state qualunque paese situato nei nostri
' climi.
M II grande Halley, che più d'ogni altro fra' suoi nazionali si accostò
alla gloria dell' immortale Newton, fu il primo ad accingersi alla sot-
tile ricerca della misura relativa del calore solare in tutte le diverse
latitudini, ed egli diede nel ifigS un'elegante risoluzione sintetica ed
una geometrica costruzione di questo difficil problema, la quale ai legge
al numero ao3 delle Transazioni filosofiche sotto il titolo: The prò*
portional beat of the sun in aU koitudes. Perfezionata l' analisi, dopo
di Halley si avanzarono molto più oltre in questa ricerca altri celebri
geometri, cioè Simpson, Fazio de Duillier, de Mairan, Eulero, Rastner,
Mallet, ed ultimamente il P. Gregorio Fontana, insigne professore di
matematica sublime nell'università di Pavia*, che il nostro commen-
tatore avrebbe pur ben fatto di consaltare, prima di scrivere qnella
incauta ina nota.
DELLA BASSVOLUMA I 1 5
n Alquanto direni sono tr» loro i risaltali ai (juali giongono i men-
torati geometri nelle riaolaiiom dei problema, secondo la diyersità
de'prìncipii che da essi Tengono adottati. Pretese infatti Faiio de
DuUlter che l'intensità del calore solare doTcsse Airsi proporzionale ,
non già al seno dell' elevazione del Sole, siccome aveva supposto l'Hai*
ley, ma bensì al quadrato del medesimo seno. Il de Mairan, ritornando
alla supposizione Halleyana, volle che il calor meridiano fosse in ragion
composta di qnattro quantità , cioè del seno dell' altezza meridiana^
dell'intensità della loce solare residua dopo di aver essa attraversato
tratti di diversa lunghezza nell' atmosfera, de' quadrati reciprocamente
presi delle divelle distanze del Sole dal centro della terra, e de' qua-
drati direttamente presi degli archi semidinmi. Il P. Fontana fece
l'intensità del calore solare proporzionale all'altezza del Sole sopra
l'orizaonte moltiplicate per il tempicctuolo infinitesimo. Noi però, -senza
molto imbarazzarci di questo verità di ruultati, e molto meno de' cal-
coli che ad essi hanno condotto, giacché dessi, per quel che ia al caso
nostro, sostenzialmente consuonano , ci ristringeremo ad estrame cosi
di volo qualcuno che pia faccia al nostro proposito, dalle tre memorie
ionghissime del sig. de Mairan, che si leggono negli Atti della R. Ac-
cademia delle Scienze di Parigi per gli anni 1719, 17QI e 1766; e
dalle tre Dissertezioni del P. Fontena che tengono il primo , secondo
ed ultimo luogo tra le quindici eh' egli pubblicò, riunite in un grosso
volane In 4^» a Pavia nel 1780. Morite il primo di essere prescelto
per aver fatto per si lungo tempo oggetto delle sue meditazioni que-
sto argomento , e perchè ci somministrerà in seguito alcune conside-
razioni fisiche di grandissimo uso al nostro intento; ed il secondo €
per essere il pia recente, e per la singolare acutezza che ha posto
nella soluzione del problema, e molto più per estere un testimonio
domestico che il commentatore pavese non potrà ripudiare.
« Il de Hatran adunque, facendo uso de* quattro elementi che abbiamo
^pii aopm accennato, istituisce e determina il rapporto numerico del
calore solare ne' due solstizii per tutte le latitudini tento dell' emisfero
boreale che del meridionale. Ora cercando nella tavola, ch'ei n'esi-
bisce calcolate su questi principii, il numero esprimente il calore estivo
che l'azione de' raggi solari dee cagionare nella latitudine di Roma di
oim 49 gradi, noi troviamo questo calore espresso dal numero 159711,
mentre il calore del solstizio estivo sotto il' polo trovasi espresso dal
numero 26988. Sterà dunque il calore solstiziale estivo, cioè il maggior
caldo de'poli, al calore solstiziale estivo, cioè al maggior caldo di
Roma, prossimamente come 27 a i5, ossia come 9 a 5; vale a dhre che
l'uno sarà pressoché due volte maggiore dell'altro. Ora questo maggior
caldo de'poli, siccome in Roma e in tutti gli altri climi, non dovrà
aver luogo precisamente nel sobtizio estivo, ma circa un mese dopo,
per la ragione che un effetto prodotto dall' azione eontinoate di una
cansa variabile divien nuutimo, siccome e' insegna la Geometria, non
già quando l' azione della causa diviene massima, ma bensì quando il
decremento proveniente dalla diminuzione della causa che lo produce.
1 i6 NOTE AL CAUTO SECONDO
ai fa egnale all' incremento competente alla continuazione dell' azione
della medesima caosa. Cosi reggiamo la marea fiuni la più alta, non già
quando l' attrazione Ioni-solare, che la cagiona, è la più energica, cioè
quando gli astri sono nel meridiano, ma circa due o tre ore dopo ; .cosi
il maggior caldo della giornata cade a we circa dopo mezzogiorno;- e
cosi ancora il massimo freddo non corrisponde alla minima azione
de' raggi solari de' ai di dicembre, né il massimo caldo alla massima
loro azione de' ai di giugno, ma posticipa l'uno e l'altro di circa un
mese. Cadendo adunque il solstizio estivo del polo antartico od invi*
sibile ai ai dicembre, il maggior caldo per esso sarà verso la fin di
gennaio; e voi perciò potete a buon diritto, e secondo la pia rigorosa
verità fisica e matematica, chiamarlo ctUch in quell' epoca, se i calcoli
del sig. de Mairan dimostrano , siccome abbiam veduto appunto che
dimostrano, che doveva allora provarvisi un caldo circa due volte più
intenso di quello che provasi in Roma nel colmo della state.
«Né questo risultato de' raziocini! e de' calcoli del signor de Mairan
potrà parere inammissibile a chiunque , non affatto ignaro de* primi
rudimenti della sfera, rifletterà che in quell'epoca, cioè ai ai di gen-
naio, eran già più di quattro mesi che il polo australe godea di un
continuato giorno senza veruna notte, e eh' eran circa due mesi che il
Sole senza veruna interruzione lo saettava da una costante altezza di
più di ao gradi sopra l'orizzonte. Questa medesima considerazione
potrà ancora servire a render credibile un altro risultato della citata
tavola del sig. de Mairan, che in maggior conferma del nostro assunto
ci piace di accennare, vale a dire che il calore solstiziale estivo dei
poli sia circa tre volte maggiore del maggior calore estivo presso l'equa-
tore, cioè nel bel mezzo della zona torrida, d'onde voi ben vedete
quanto maggior diritto acquistiate di chiamar caldo uno de' poli nel-
l'epoca a cui si riferisce la vostra espressione. Che se i vostri rigidi
censori vi permettessero di prendere la parola polo con qualche lati-
tudine, e di scostarvi alcuni pochi gradi dal medesimo, voi trovereste
nella citata tavola di Mairan un parallelo posto al di là del cerchio
polare ai 74 gradi circa di latitudine, ove il maggior calore estivo ci
ai esibisce anche più grande che sotto il polo, vale a dire quattro
volte maggiore del maggior calore estivo del mezzo della zona tor-
rida; risultato in vero alquanto paradosso, e che dee forse unicamente
ascriversi all' indole de' principii e delle ipotesi che han servito di
guida al sig. de Mairan nelle sue supputazioni.
M Alquanto più miti, è vero, sono i risultati che ricava da' suoi calcoli
il P. Fontana, benché però sempre egaalmente concludenti pel caso
nostro. L'elegante formola ch'egli dimostra nella prima delle tre so*
▼raccennate Dissertazioni, gli dà il modo di paragonare il calore diurno
solare di due luoghi qualunque della terra, in qualunque giorno ed
in qualunque ora, ed egli ne fa l' applicazione col cercare il rapporto
tra il calore solstiziale estivo e l' iemale di Pavia, ed il calore solsti-
ziale estivo di Pavia e di Pietroburgo ; dando infine una tavola calco-
lata dietro alla detta formola, in cui si esibisce per tutte le declina-
BELLA BASSVILLIÀNÀ I I ^
Bioni del Sole di grado in grado il calore diamo sotto l'equatore e
sotto i poli. Ora cercando in questa tayola il calore estivo de' poli per
una dedinasione di ao gradii qoal era allMncirca quella de' ai gen-
naio^ noi troriamo questo calore espresso dal numero ii 4345, mentre
quello dell' equatore, cioè del bel mezzo delhi zona torrida^ non giunge
mai a looooo. Il caldo adunque del polo antartico ai ai di gennaio
starà al maggior caldo del mezzo della zona torrida in maggior ra-
gione di II 4345 a 100000, cioè quello sarà circa un settimo maggiore»
di questo. In questa medesima tavola il maggior caldo polare^ cioè
quello che per le ragioni anzidette deve provairisi non già nel sol*
stizio estivo, ma circa un mese dopo, trovasi segnato col numero i364i4>
eh' è più di un terzo maggiore di quello che nella medesima . tavola
rappresenta il maggior caldo della linea equinoziale.
» A queste prove, che pienamente e geometricamente la vostra espres*
aiqne di caldo poh giustificano, se il luogo, lo permettesse , potrei ora
aggiungere molte osservazioni fisiche che dimostrassero il medesimo
aasnnto in grazia di quei che non sono in grado di seguire i raziocinii
ed i calcoli che han condotto agli accennati risultati i loro autori, ed
in grazia anche di quei che malignamente potessero opporre che non
sempre i fenomeni della natura vanno d' accordo colle astratte geome-
triche speculazioni. Mi ristringerò ad un solo fatto rilevato in prima
dal 8ig« de Réaumur, e che potè esser facilmente avferato dopo che
il suo termometro fu trasportato in tutte le quattro parti del mondo
e in tutti gli angoli della terra. Le osservazioni termometriche adun-
que istituite in tutta l'estensione del globo per il corso di più di
mezzo secolo han manifestato che mentre il freddo, cioè il minimo
calor degl'inverni, differisce comunemente da un clima all'altro tanto
più quanto è più diversa la loro latitudine; il calor dell'estate per lo
contrario è sensibilmente eguale in tutti i climi, con una piccola varia-
zione di uno, due 0 tre gradi, la quale d' altronde trovandosi egualmente
ed indifferentemente sparsa in tutte le latitudini, deesi perciò visibil-
mente attribuire al concorso e all' azione di circostanze meramente lo-
cali ed accidentali. Cosi, per esempio, il maggior freddo de' climi me-
ridionali d'Europa, e molto meno delle altre tre parti del mondo, di
rado giunge al zero della scala Reaumuriana; a Pietroburgo scende
sotto al zero sino ai 3o e più gradi, ed in Siberia sino ai So e ai 5a;
ed intanto il calor mezzano estivo tanto nel cocente Senegal, quanto
nella ghiacciata Lapponia trovasi egualmente e dappertutto di circa
a6 gradi sopra il zero della detta scala.
w Questa portentosa eguaglianza di calore estivo, osservata in tutti i
paesi conosciuti , forma per il signor de Mairan una dimostrazione
che l' azione de' raggi solari non è l' unica cagione effettrice del calore
che in essi si prova, poiché in virtù di questa sola cagione il calore
estivo non dovrebbe essere meno diverso da uno all'altro clima di
cpiello che sia V iemale ; e noi abbiam veduto difatti che il calore sol-
stiziale estivo ai 74 gradi di latitudine, attesa la sola azione de' raggi
solari^ si trovava dal signor de Mairan quattro volte maggiore che
1 18 NOTE AL GANTO SECONDO
quello dell' equatore^ quello de' poli triplo di quello dell' equatore ^ e
doppio di quello di Roma. Per prodarre quest'osserrata cgnagliansa
generale del calore estivo in tutti i dimi, si richiede una cagione ge«
nerale in tutta la terra, la quale si combini coli' altra parimente ge-
nerale cagione dell'azione solare; ed il signor de Bfairan, da buon
Cartesiano qual egli è, la ritrova in nn fiiociò centraie, che nondimeno,
per iscansare ogni disputa , egli si contenta di considerare come nn
^oco intemo, il quale penetra per tutte le viscere della terra, e ne
riscalda tutta la massa. Un' altra pmova, o, com' egli la chiama, dimo-
strazione dell'esistenza di questo fuoco intemo o centrale, la ravvisa
il signor de Mairan nell'enorme diversità che si discopre tra il rap«
porto del calore estivo e dell'iemale, ricavato dal calcolo dell'azione
de' raggi solari , e quello che si deduce dalle termometriche osserva*
zioni. Sono da vedersi nella terza sua memoria del 1765 i sagaci ra-
ziocinii coi quali egli si fa a provare: 1. che l'ascensione del mereorìo
nel termometro è proporzionale al calore che la produce; a. che il
%gro, o il primo infinitesimo grado di calore, debba computarsi looo
gradi sotto il zero segnato nella scala Reaumnriana ; cosicché se qoe»
sta segna a6 gradi sopra il zero, debban veramente contarsi ioa6 gradi
di calore; e se ne segna 6 al di sotto, se ne debban veramente con-
tare 994* Egli dimostra il primo di questi due principi! per mezzo di
alcune sue esperienze, nelle quali, avendo esposto un termometro al-
l'azione della luce riflessa da nn diverso numero di specchi eguali in
superficie, osservò che l'ascensione del mercurio era sensibilmente
proporzionale al numero degli specchi ch'egli adoperava. Stabilisce
poi il secondo principio, cioè che il primo ed infinitesimo grado di
calore debba fissarsi al 1000 sotto il zero della graduazione di Réaumur»
servendosi delle ingegnose ed originali scoperte annunciate dal si-
gnor Braun nella sua Memoria De admirando /rigore arlificialù Egli è
noto che questo valente fisico , stando il freddo naturale a Pietroburgo,
ov' egli istituiva le sue esperienze , ai gradi 3i sotto il zero^ potè per
mezzo di un freddo artificialmente prodotto fissare e render solido il
mercurio ai gradi 1 70 del termometro di Reaumur, e quindi, rendendo
il freddo sempre più intenso, farlo discendere sino ai gradi Sga. Di-
mostrò poi il medesimo signor Braun che il freddo artificiale è pros-
simamente proporzionale al freddo naturale che regna nel luogo del*
l' esperimento; cosicché giungendo alcune volte questo freddo natorale
in Siberia sino ai gradi 53, se quivi si fosse fatta V esperienza, il fineddo
artificiale avrebbe fatto abbassare il mercurio sotto il 1000. Ora pre-
supposti questi principii, siccome il termometro nel maggior caldo non
sale comunemente a Parigi oltre ai a6 gradi, né discende nel maggior
freddo sotto ai 6, quindi ne deduce il signor de lAairan che il calore
estivo di Parigi stia al calof iemale come 1026 a 9^4 9 cosicché il primo
superi il secondo appena di un trentaduesimo. Questo adunque è il
rapporto tra il calore estivo e il calore iemale di Parigi che il signor
de Mairan deduce dalle osservazioni termometriche, mentre qnello che
gli dà il calcolo dell' azione de' raggi solari e circa 5oo volte maggiore^
DELLA BASSVILLIÀMA I I Q
cioè eguale a qaello di 16 e oitantadae centesimi ad uno. Or d*oà
piendroù^ duf egli , une si prodigietut d(fférencé entra ces deux rap-
porte, n ee n'eet de ce feu intérieur quelconque qui agit sane cesse uers
la eurfiiee de la terre en èie et en hiver, et dans tous les climtOSy ab'
straction /aite dee uariadons que les circonstances locales et accidentelles
peupentx ^q^porter?
M Checché ne sia però di questo fuoco in temo ^ o centrale a col quale
il signor de Mairan rìduoe all' eguaglianza il calore estivo di tutta la
anperficie del globo, noi non abbiamo bisogno di molto imbarazzarcene»
attenendoci al puro fatto deir eguaglianza medesima , dimostrata dal
consenso d' infinite osservazioni che dall' equatore si estendono alle
più inoltrate latitudini tanto boreali che meridionali. Che se ci man-
cano le osservazioni termometriche pei poli, e per le regioni ad essi
pitt vicine, noi abbiamo invece le relazioni e i giornali di quegP intre-
pidi navigatori i quali, cercando un passaggio all'Indie orientali pei
mari del Nord, ed essendosi a quest' oggetto avanzati sino ai 75, 80, 8a
ed anche 83 gradi di latitudine, ritrovarono che a misura che più si
•ocostavano al polo, il mare diveniva sempre più aperto e profondo,
€ che in esso, libero affatto da ghiacci, vi si respirava un'aria piutto-
sto dolce e calda ohe temperata. (Vedi Prevòt^ Recueil des Voya^es
ott Nord), Celle mer ouuerte et libre des glaces, riflette qui molto a
proposito il signor de Mairan , ce tempa plus doux que tempere^ qu* on
treuve autour du pole arctique, n'est donc qu'une suite de la Ipi gétié'
ralej et il est ainsi plus que probable que les deux zones polaires jouis-
sent du ménte été que les autres zones, abstractionjaite des causes par'
ticulières et locales,
» Epiloghiamo dunque le nostre idee , e raccogliamone il frutto che
ci siamo proposto. Tolto ai polì il freddo perpetuo, e sostituito il caldo
alternativo per buona parte dell'anno, resta evidentemente provata la
proprietà dell'espressione di Lucano, polus adversi calidus qua mergi»
tur austri. Poiché, sebbene questo stato di caldo, secondo le nostre
dimostrazioni, egualmente in dati tempi convenga anche al polo set-
tentrionale; nuUadimeno avendo riguardo alle nostre sensazioni, le
quali ci avvertono dei venti infocati che costantemente spirano dalla
regione antartica, e dell'aria ghiacciata che all'opposto ci viene dal-
l'artica, nasce da sé medesimo il diritto di chiamar caldo {1 primo e
freddo il secondo per fissare un termine di poetica distinzione tra
l'uno e l'altro. Cosi e** insegnano a parlare le impressioni che rice-
viamo dair atmosfera, per cui appunto gli antichi, così dilìgenti nella
nomenclatura delle cose, appellarono australe ( che in buon greco vuol
dir ccUdo ) (*) il polo meridionale, e cosi porta il dover del poeta che
(*) Che un critioo ignorante di lingua greca non ti accorga A* avvilupparsi nella propria
sna oensura condannando \* appellativo di eafdo e ammettendo quello A* australe, che vuol
dire k» stesso, paaienaa. Ma che non se n' avvegga 1* acutissimo ScapuUno , che ha copiata
in hellissimo carattere una biblioteca intera di greco, questa e pure la gran vei^(^a. Ecco
nn' altra delle seicento prove eh* egli non conosce altro greco che quello delle bottiglie.
Queste note non è nostra, ma di Vossio e d'Enrico' Stefano.
120 NOTE AL CANTO SECONDO DELLA BASSVILLIANA
segue sempre il criterio del senso^ non quello della ragione» ed enan*
eia popolarmente le verità astratte senta risalire alla radice delle me«
desime, per non confondere le operazioni dell'immaginarione con qadle
dell' intelletto, e trasformare ciecamente la pittrice poesia nella calco*
latrice filosofia. Sa questo principio sono fondate quelle forme di dire:
I lidi/iiggono, il sole si u^ffà nel mare, le stelle cadono, siccome disse
Virgilio parlando de' notturni fbochi atmosferici, e mill' altre di tal
natura in fisica falsissime, e in poesia Terissime e nobilissime.
» Assoluto Lucano in vigore di ragion poetica, a più buon dritto lo
dovete esser voi che, oltre la poetica, avete in difesa vostra, siccome
abbiam veduto, la ragion matematica. Della quale se per avventura
foste stato non consapevole nel momento di scrivere, avreste col fatto
verificato F ispirazione fiitidica da cui Platone fa procedere il sacro
linguaggio de' poeti, i quali non per altro vien detto ehe sono pieni
d' un Dio che li riscalda, se non perchè parlano la parola della nata-
ra, che detta e che mai non mentisce.
99 Ma il piacere di trattenermi con voi non mi fa accorgere che io
posso forse distrarvi dal lavoro della vostra sublime Cantica, il prose»
guimento della quale, incoraggito da dieci edizioni che finora in ter-
mine di tre mesi ne sono comparse, confonderìi i vostri nemici assai
meglio che non potrà fare il mio geometrico fisico cicaleccio. Riguar»
datelo, vi prego, dalla parte del motivo che V ha dettato, vale a dire
dal desiderio di darvi un nuovo attestato dell'alta stima e della sin-
cera amicizia con cui mi confermo, ec.»
Pag. 47*
46 Ariosto in una delle sue più belle similitudini:
Ad ogni sterpo che passando tocca.
Esser si crede all'enfia fera in bocca.
Ivi.
47 Imita qui pure l'Ariosto, ove dice di Ruggiero:
Uno il salata, on altro se gl'indiina^
Altri la mano, altri gli bacia il piede.
Ivi.
48 Voci di animo perturbato, ad imitazione di quel celebre passo
di Virgilio: Me me adsum qui feci, in me convertite ferrum, ec, che La
Gerda pretende preso da Euripide, quando Ecuba vede condotta al
sagrificio Polissena sua figlia.
N
lai
NOTE AL CANTO TERZO
Pao. 4^.
I QaesU tacrt allegoria uscita la prima Tolta* dalla booea del mo-
nbondo Giacobbe , quando profetò le fatare vicende de' saoi dodici
6glt^ applicata poscia a G. C. e alla Chiesa^ non deve aver bisogno di
apiegasiooe. Entra qai il poeta nelle lodi del sommo Ponte6ce consi-
derato come Prìncipe e come Pastore, e adombrando con veli allego-
rici le sue ottime e coraggiose provridenze per la salate dello Stato
non meno cbe della Religione > ricorre opportunamente ti misterioso
atile de* libri bpirati. Chionque sia alcun poco versato nella lettura
de' medesimi potrà ' ftcilmente ravvisarne qaa e là sparse le immagini,
e le arcane forme di dire, di quel dire; cbe principalmente conviene
a Lai, cbe po$uà Unebroi laiibìdum suum^ e al sao sapremo Rappre-
•entante, del quale temeremmo di avvilire, parlando, la grandezza e la
maestà. Poniamo perciò questa nota in luogo di molte, cbe cadereb-
bero in acconcio nel decorso di questo canto^ e cbe il lettore supplirà
meglio da sé.
Ivi.
* Verso derivato da questi due di Dante:
Cà'ella mi h tremar U Tene e i polsi > ec.
RiTeiento mi 6 le gambe e il ciglio. (*)
Pào. 5o*
3 Stando gli Amaleciti ed i Madianiti accampati nella valle di Jez-
rael. Iddio comandò a Gedeone di scegliere al fonte di Arad trecento
guerrieri d'Israele, i quali di nottetempo, suonando le trombe e gri-
dando : La spada del Signore e di Gedeone, sparsero lo scompìglio nel
campo numeroso di que' nemici del nome Israelita, e li misero in fuga.
Le circostanze di questo fatto vedile nel capo VII del libro de' Giudici.
Ivi.
4 Si é già detto nelle postille al Canto I cbe l'armata francese era
stata dispersa al principiare dell'anno 1793 sulle coste della Sardegna
da fierissime tempeste. Ora è da aggiungere cbe le soldatesche, le quali
la componevano, erano parte di quelle cbe stanziavano nella Contea
di Nizza. Perciò il poeta cbiama antenne del Varo le navi mandate
al conquisto della Sardegna. Tutti sanno cbe il Varo scorre nelle vi-
cinanze di Nizza.
Pao. 5i.
s Vedi le Notizie Storiche premesse a queste Note.
O Qui flniacooo k Note deU*Autore. L'EMtor^
1 2QL NOTE AL CA5T0 TERZO
Pag. 5i.
6 Fq stampato nella narrazione pubblicata in Roma nel giorno i6 gen-
naio 1793» cbe Bassville vicino a morte dicbiarò, prima di ricerere i
Mgramenti della cbiesa: Di ritrattare i giuramenti da sé fatti, e di
detestare ogni atto contrario alla religione cattolica nel quale fosse
caduto. È detto nella medesima, cbe i sentimenti co^ quali esso andò
incontro al suo fine, furono tutti di edificazione, di rassegnazione e
di pietà , e cbe solo fu udito lagnarsi di morire vittima di un pazzo.
Pel quale intenderà un certo ia Fiotta che, volendo ad ogni costo far
inxialzare in Roma le armi della Repubblica francese , e comparire ia
pubblico colle nuove insegne della sua Nazione, suscitò il tumulto
popolare nel quale peri Bassville.
Pao. Sa.
7 Le due zie di Lnigi XVI erano rifuggite a Roma sino dal princi-
pio dell'anno 1791.
Pag. 53.
* È nolo per le sacre carte che essendo stato Israele assalito dagli
Amalectti, Mosè comandò a Giosuè di uscire contro di essi a battaglia,
e ch'egli, presa la sua verga, sali sull'Oreb accompagnato da Aronne
e da Hur. Quivi tenendo le mani alzate al cielo , faceva si che gli
Israeliti vincevano, ma s' ei le abbassava, superavanli quei di Amalec-
co : e fu d' uopo , poich' egli stancavasi , che Aronne ed Hur lo faces-
sero sedere su d' una pietra , e , sostenendogli le braccia fino al tra»
monto del sole, ottenessero alle armi di Giosuè per tal modo una
compiuta vittoria. — Esodo, cap. XVII. — Sotto il nome di imporpo»
rati Ararmi e Cafebidi più avanti s' intendono i Cardinali, de' quali sono
immagine Aronne ed Hur figlio di Caleb.
Pag. 55.
9 Si è già detto nelle Note al Canto precedente, che nelle vicinanze
di Marsiglia eravi un bosco entro cui i Druidi celebravano i loro mi-
steri lordi d'umano sangue.
Pag. 56.
10 Non è d'uopo di dire che questo è lo spettro di Voltaire.
Ivi.
s> Elvezio. Ne' suoi Discorsi De VEsprà si attribuiscono alla materia
le operazioni dell' anima, e si vuol mostrare che gli uomini non sono
retti che dalla uoluuà e dall' infsresfe.
Ivi.
I» Ognuno qui ravvisa Giangiacomo Rousseau. Le sue lettere di
Giulia, nelle quali l'amore parla veramente un linguaggio di fuoco,
non sono meno celebri del Contratto sociaU^ deW Emilio, ec. Se ne
va S0I9 anche perchè egli non entrò propriamente nella lega dei cosi
detti Enciclopedisti, con alcuni de' quali ebbe anzi fierissima guerra*
Ivi.
>3 D'Alembert, insigne matematico, promotore e compilatore insieme
con Diderot dell* Enciclopedia o Dizionario ragionato delle Scienze,
delle Arti e de' Mestieri,
DEIXA BÀSSVIIXIÀIIÀ Ia3
Pao 56.
■4 Raynalj autore déiVHùtoire philoaophique et potiiique de» étahlùse^
meni et du commerce des Europeens dan$ le$ deus Indes^ nella quale ad
ogni passo s'incontrano declamazioni contro i principi ed il sacerdozio.
Pag. 57.
•S Pietro Bayle 9 autore del libro intitolato: Pensée» dit>erses^ icrites
à un docteur de Sorbonne à foccation de la Comète qui parvi au moie
de dècemhre i68o> e del Dictionnaire hùtorique et crùique. Il costui
pirronismo é sostenuto da un immenso corredo di erudizione, ed a
questa fonte beyette largamente la maggior parte àtìfiloaefi del se-
oolo XVIII, che non erano tutti certamente dotti al pari di lui.
Ivi.
•* Lo studio delle opere di Bayle produsse VExamen de» tipologùte»
de la reUgion dirétienne e la Lettera di TViuiòuìo a Leucippe attribuite
«ir Accademico Niccola Freret, e stampate dopo la sua morte. Di lui
qui parla il poeta. Il signor Raoul Rochette nella Biographie MtniveraeUe
ancienne et moderne si è studiato di Tcndicare la memoria di quel
dotto uomo dall'oltraggiosa supposizione ch'egli abbia dettate si em-
pie scritture.
Pào. 58.
17 Giambattista Mirabaud. Fu questi un modesto letterato, e tradusse
in prosa francese la Gerusalemme liberata. Dopo la sua morte venne
in luce col nome di lui il Sjrtiéme de la Nature^ ou de» loix du monde
physique et du monde mora!. V opera da molti venne attribuita a Di-
derot, ma era propriamente lavoro del barone d'Holbach (V. le Me-
morie dell'ab. Morellet^ sec. ediz. t. I, pag. i38); e per ispacciarla
più sicuramente le si pose in fronte il nome di un morto, e si disse
ch'ei l'aveva lasciata come il proprio Testamento, L'autore nega aper-
tamente l'esistenza di Dio; spingendo l'atrocità fino a provocarne,
come qui dice il poeta, la folgore tuprema.
Ivi.
«< Cioè il sale di Luciano, notissimo autore di molG dialoghi e di
altre opere scritte in greco , il quale nacque in Samosata città della
Siria sul cominciamento dell'impero di Adriano. — Voltaire suole
chiamarsi Luciana moderno per lo stile festivo ed arguto; e cosi a vi-
cenda Luciano vien detto il f^oltaire dell' antichità j perche non meno
di quel di Ferney fu scrittore leggiadro, ed al pari di lui burlasi nelle
sue opere della religione e della morale.
1^4
NOTE AL CANTO QUARTO
Pào. 59.
■ Baynal Tirerà afncon quando scoppiò la Rtrolazione; e convinto
che le massime da Ini troppo liberamente inculcate rinscÌTano fatati
alla sua patria, le ritrattò in uno scritto, che mandò ai Rappresentanti
della Francia, prima delia morte di Luigi XVI. La sua ritrattazione
(n però ben lungi dal produrre l'effetto che prodotto averano le sue
opere; anzi Raynal conTcrtito fu a que' tempi riguardato siccome ìu\
vecchio delirante.
Pag. 60.
» L'Angelo che in una notte esterminò tutti i primogeniti dell'Egitto,
acciocché Faraone si risoWesse di lasciar partire gli Ebrei , a' quali
Iddio aveva ordinato di tingere col sangue dell'agnello le porte delle
;<'>ro case per distinguerie da quelle degli Egiziani.
Pag. 61.
3 Sennacheribbo re degli Assirii accampava contro Ezechia re di
Giuda, alloraquando un Angelo gli mise a morte in una notte cento
ottanta cinque mila nomini, e lo costrinse a ritirarsi in Ninive.
Ivi.
4 u Misit .... Angelum in Jemsalem ut percuteret eam .... Le-
vansque David ocolos snos, vidit Angelopi Domini stanlem inter oce-
lum et fterram , et evaginatum gladium in manu ejns et versum contra
Jerusalem ». — ParaUpomenon , lib. I, cap. XXL
Ivi.
s Racconta Ezechiele, nel capo IX della sua Profezia, che gli oom*
parvero dalla parte dell' Aquilone sei Angeli , ognuno de* quali aveva
nelle mani uno strumento di morte. In mezzo ad essi stava un altro
Angelo che aveva appeso a' fianchi un calamaio da scrivere ; a questo
disse il Signore che andasse per mezzo a Gerusalemme, e segnasse
un Tau sulle fronti di coloro che erano afflitti per le abbominazioni
della città; comandò poscia agli altri sei che esterminassero quante
persone vedevano non avere sopra di sé il Tau^ incominciando dal
santuario.
Ivi.
<* Vogesus saltila era detta dai Latini quella catena di monti che
separano la Franca Contea e l' Alsazia dalla Lorena, e che ora appel-
lansi f^osges. — Di Gebenna si è già parlato nelle Note al Canto I.
— Ai monti Pù'enei il poeta dà l' aggiunto di Bebricio^ perche il loro
nome vuoisi derivato da Pirene figlia di Bebricc, la quale ebbe in
essi la tomba dopo di essere stata violata da Ercole e straziata dalle
HOTB AL CANTO QUARTO DBLLA BASSVILUANA I aS
fiere. Un tal fatto vedilo narrato da Silio Italico nel libro III della
Guerra Punica. — Ardenna, detta dai Latini Arduenna^ è una selva
che comincia alla ettremità dei Vosges ed occupa un grande spazio
della Sciampagna. Ai tempi di Cesare (giusta il testimonio di lui) sten-
devast per cinquecento e più miglia di terreno.
Pao. 63.
7 Nella prima di queste due Donne il poeta simboleggia la Fede 9
nell'altra la Carità.
Ivi.
* La foga di Luigi XVI a Varennes tentata nella notte del ai giu-
gno 1791* È noto ch'egli e la sua famiglia furono riconosciuti a Sainte-
Menehould, inseguiti e ricondotti a Parigi nel giorno 25 dello stesso
mese.
Pao. 6S.
9 Nella giornata del 6 di ottobre 1789 una torma di scellerati^ uo-
mini e donne, venuti a Versailles, entrarono nel castello reale, e.
Decise le guardie, s'introdussero per una scaletta nella stanza in coi
poc'anzi dormiva la regina, e trovato il letto ancor tiepido, ma non
lei che^ air udire l'orrendo trambusto, erasi occultamente sottratta,
quello per atroce rabbia trapassarono con più colpi di pugnale o di
lancia. £ fu buona sorte che i ribaldi non conoscessero l'adito alla
stanza del re, dove la regina erasi rifuggita.
Ivi.
•o La giornata del 10 agosto 1793, nella quale si segnalarono per
la loro fedeltà, di cui tutti rimasero vittima, i pochi Svizzeri che erano
a guardia «delle TuiUries, combattendo contro alle migliaia di furibondi
venuti ad 3ssaltare quella regia abitazione.
Pag. 64.
■ < La chiesa del Carmine in Parigi era stata convertita in una pri*
gione per rinchiudervi i vescovi ed i sacerdoti che avevano rifiutato
di prestare giuramento alla Costituzione. La maggior parte di essi fu
trucidata nel giardino annesso alla chiesa dagli emissarii di coloro che
reggevano il Municipio di Parigi, nel giorno 3 di settembre 1793.
Pao. 65.
■» 11 poeta in queste due terzine pose in versi alcune sentenze del
Testamento di Luigi XVI.
Pag. 66.
■3 Bfarat, membro della Convenzione e del Comitato di Salute pub»
blica. Maria Carlotta Corday lo uccise con un colpo di pugnale, men-
tre stava in un bagno, nel giorno i3 giugno 1793* Questa donzella si
mosse a bella posta da Caen, ov' ella soggiornava, venne a Parigi, trovò
il modo di presentarsi a lui, che per grave malattia non poteva uscire
di casa , e dopo qualche discorso gli immerse il ferro nel seno. Con-
dannata a morte, incontrolla con molta fermezza, piena del pensiero
di avere liberata la Francia da un mostro assetato di sangue.
Ivi.
*i Robespierre, dopo aver fatta tremare del suo nome la Francia,
ia6 HOTB AL CASTO QUARTO DELLA BASSYILLIAHA
accusato di affettare la Dittatura, Temie dalla CooTensione dichiarato
fuori della Ugge in uno co' wtoi partigiani; indi fu preso e mandato a
perdere la testa sotto quella scure medesima che per lui aveva mietute
tante vite delle più illustri ed incolpabili della nazione. Questa parve
colla sua morte respirare alquanto dagli atroci mali che avea sofferti
la tirannide di lui.
Pao. 68.
>S L'Aquila è l'arme delle tre grandi monarchie del Nord, Anstrìis
Russia e Prussia.
Ivi.
16 L'arme dell'Inghilterra è un Leone , quella dell' Elettorato , ora
regno di Hannover « è, un Cavallo. Il poeta chiama ./Tvismo il ruggfto
del Leone d'Inghilterra rispetto al Cavallo di Hannover, perchè am-
bedue questi Stati appartengono alla casa di Brunswick.
Ivi. •
>7 Nella battaglia che avvenne il giorno 19 di novembre dell' an*
no 1734 * Guastalla, i Francesi, In quell'anno medesimo già più volte
sconfitti dagli Austriaci, sarebbero stati messi nuovamente in rotta se
non accorreva sul bel principio colla sua cavalleria il re di Sardegna
Cario Emmanuele, che sostenne l'asione e rintuzzò l'impeto dell'ini-
mico. — Nel 1747 il< Cavaliere di Belle-isle, fratello del maresciallo
di questo nome, volendo segnalare con qualche grande impresa, tentò
di penetrare in Italia per le Alpi dalla parte di Susa. Ma giunto al
passo dell' Assietta, si incontrò ne' Piemontesi che lo attendevano, difesi
da altissime e ben munite trincee. La pugna fu micidiale e disperata;
i Piemontesi, quantunque minori di numero, avevano il vantaggio del
luogo , e per ben due ore fecero macello de' Francesi a' quali sopra*
stavano. Il Cavaliere di Belle-isle diede non ordinarie prove di valore,
e finalmente ricevette l'ultimo colpo, gloriosa magii morte occumòens
(dice negli aurei suoi Commentarli Castruocio Bonamici), quam qum
prudenttm deceret ducem.
Pa6. 70.
<8 Ninno ignora gli avvenimenti che con tanta rapidità si succedete
tero gli uni agli altri negli ultimi anni del secolo XVIII, e mutarono
quasi interamente le relazioni politiche dell'Europa. Per questi il poeta
dovette interrompere il suo componimento, il quale avrebbe dovuto
chiudersi coli' ingresso di Bassville nella Gloria. Nondimeno i quattro
Canti di questa altissima poesia hanno già bastante consistenza per
se, e certamente assai maggiore di quella delle Stanze del Poliziano,
che cosi imperfette vengono tenute per uno de' più eleganti poemi
italianL
LÀ
MUSOGONIA
AFFERTIMENTO
PREMÉSSO ALL EDIZIONE DEL I797<
(Venezia, pel Curii j in 8.®)
Pochi versi tt Esiodo , che ognuno può riscontrare sui
bel principio della sua Teogonia ^ formano tutto il fonda'^
mento di questo tenue poemetto. Die* egli che Giove trasfoT'
moto in pastore si giacque nove notti continue con Mnemo^
stncy che lo fé padre delle Muse^ le quaU appena nate sa*
Urano in cielo , ed ivi accolte con festa cantarono t origine
delle cose y e le imprese degU Dei contro i Titani. Nel se^
guxr questa traccia non ho voluto dipartirmi punto dalla
genesi et Esiodo , la quale ^ a dir verOy non è molto degna
del nostro secolo , ma che pormi si presti più d'ogni altra
al maraviglioso poetico ; e pormi ancora che sarebbe da re-
putarsi soverchia temerità il rovesciare V antica mitologia ,
consacrata da tanto tempo in Parnaso y per sostituirvi le
stravagante moderne.
Era mia mente y allorché intrapresi questo lavoro, di di'
latarlo in due Canti, nel secondo de* quali mi proponeva di
ricondurre in terra le Muse a beneficare il genere umanoy
traendo gli uomini {lolla vita selvaggia , congregandoli in
società j e insegnando loro la virtù , la giustixia , e tutte le
arti e tutte le scienxe; le quali cose furono dagli antichi s(u
pienti adombrate nella faivolosa predicaxjione d^ Orfeo , e di
quegli altri poeti che furono i primi istitutori della morale.
Intervenivano esse, secondo il mio piano, alla celebre scuola
di Chùroney vi educavano gli Argonauti, e tutti quei più fa--
mesi che poi passarono alC assedio di Tebe e di Troia j an^
davano a conversar con Omero nell'isola di Chio, e a det'
largii f Iliade e t Odissea j scorrevano per la Grecia, cele*
brando i bravi atleti di Elide, cantando inni di Ubertà dap^
MoHTi. Poemetti, o
i3o
pertuUOf e ispirando sulle scene l'amor della patria e l'o^
dio contro i tiranni. Dalla Grecia facevano quindi passag»
gio in ItaUoy seguendo tarmi del vincitore romano , ite ad-
dolciano i feroci costumi ^ e riprendevano il maestoso loro
àbito per le mani di Virgilio e dt Oraxjùo, Bivestite di lutto
alla morte di Mecenate, erravano disperse qua e là per
t Italia f senxa onori e senxa tetto sicuro j si nascondevano a
tutti gli occhi mortali alt arrivo dei FandaUj e dopo ir^
nite vicende, rilavandosi fra i Bardi, e t^ffàcciandosi fuggitive
da un luogo aW altro nei freddi paesi del settentrione, ri-
comparivano finalmente ut Italia a far vendetta dei sofferà'
lor danni sulla fiera Ura di Dante, e su quella del Petrarca
e dei due grand* epici italiani, Finché, dopo mott aUre ora
prospere ed ora triste avventure ^ si mostravano fra noi,
nuovamente accompagnate dalla filosofia, per cantare in Ita*
Ha il risorgimento della libertà e il trionfo della ragione.
Tale si era in ristretto la tela da me ordita per un secondo
lavoro. Ma non consentendo le mie circostanxe dingo^armi
adesso ut questa vasta materia, o la serberò a tempo più
Ubero, o ùmterò a terminarla qualche miglior ingegno ita*
liano, a cui non manchi o^io per meditarla e perfexjonarla,
ne attico gusto, onde allettare, com* è d'uopo augurarsi, e
come non 40 far io, la studiosa gioventù nostra alt amore
de' Greci e de' latini, veri e soli maestri dell'ottima poesia^
LA
MUSOGONIA
CANTO
I
Cor di ferro ha nel petto, alma villana
Chi fa de^ canni alla bell^arte oltraggio,
Arte figlia del Cielo, arte sovrana,
Voce di Giove e di sua mente raggio.
O Muse, o sante Dee, la vostra arcana
Orìgine vo^ dir con pio linguaggio ,
Se mortai fantasia troppo non osa
Prendendo incarco di celeste cosa.
n
Ma come in pria v^ invocherò 7 Tespiadi
Dovrò forse nomarvi, o Aganippee?
O titolo di caste EHiconiadi
Più vi diletta, o di donzelle Ascree?
So che ninfe Castalie e Citerìadi
Chiamarvi anco vi piace, e Pegasèe^
E vostro suUe rive d^Ippocrene
Di Pieridi è il nome e di Camene.
m
Qualunque suoni a voi più dolce al core
Di sì care memorie, a me venite^
E qvLsl fuwi tra^ Numi il genitore,
E <jual la madre tra le Dee mi dite \
Che ben privo è di senno e mentitore
Chi di seme mortai vi stima uscite:
Né Sicion sue figlie or più vi chiama,
Né d^Osiride serve, invida fama'.
l32 LA MUSOGO^'IÀ
IV
Ma il maggior degli Dei , V onnipossente
Giove di nembi adunator v^è padre,
E a lui vi partorì Diva prudente
Mnemosine* di forme alme e leggiadre^
Diva del cor maestra e della mente,
E del caro pensier custode e madre,
Àll^ Èrebo nipote, e della bella
Temi e del biondo Iperi'on sorella.
V
Reina della fertile Eleutera^,
Sovente errava la titania Dea
Per la beozia selva, e di Piera
Visitava le fonti e di Pimplea.
Sotto il suo pie fiorìa la primavera,
E giacinti e melisse ella cogliea.
Amor d'eteree nari, e quel che verno
Unqpa non teme, l'amaranto eterno^.
VI
n timo e la viola, onde il bel suolo
Soavemente d'ogni parte oliva ^,
Va depredando la sua mano, e solo
Solo del loto e del narciso è schiva ^^
Che argomento amendue di sonno e duolo
Grescon di Lete sulla morta riva,
E l'uno di Morfeo le tempie adombra,
L'altro il crin bianco delle Parche ingombra
vn
Mieter dunque godea l'avventurosa
Il vario aprii dell'almo suo terreno:
Ella sovente un' infiammata rosa
Al labbro accosta ed un ligustro al seno^
E il candor del ligustro e l'amorosa
De' fior reina al paragon vien meno ^
E dir sembra: Golei non è si vaga,
Ghe vermiglia mi fé colla sua piaga 7.
LA 3CUS0G0NIA l33
vm
Ma la varia beltade, onde natura
Le rive adoma de^ ruscelli e il prato,
L^ antica non potea superba cura
Acchetar, di che porta il cor piagato.
Incessante la punge ed aspra e dura
La memoria del cielo abbandonato,
Alla cara pensando olimpia sede
Venuta in preda di tiranno erede ^.
IX
Quindi neir alto della mente infissi
Stanle i firatelli al Tartaro sospinti,
Ivi in quei tenebrosi ultimi abissi
Dal fiero Giove di catene avvinti.
E molto è già 9 che in quell^ orror son vissi,
. Né gli sdegni lassù son anco estinti^
Che nuova tirannia sta sempre in tema,
E cruda è sempre tirannia che trema.
X
Arroge, che del suo minor germano '°
Novella piil non intendea, da quando
Re Giove usurpator figlio inumano
Dal tolto Olimpo lo respinse in bando:
Né sapea che Saturno iva di Giano
Per le quete contrade occulto errando,
Ai nepoti d^Enotro", al Lazio amico.
Del secol d^oro portator mendico.
XI
In tante d^ odio e d^ ira e di cordoglio
Altissime cagioni ella smarrito
Del gran titanio sangue avea P orgoglio,
E fior parca depresso, abbrividito.
Quando soffiar dallMperboreo scoglio
Si sente d'Orizia'" l'aspro marito^
E tutta carca di soverchia brina
L'odorosa famiglia il capo inchina.
l34 ^^ MUSOGONIA
xn
Sol che il nome tremendo oda talvolta
Del saturnio signor la sconsolata,-
Tutta nel volto turbasi, e per molta
Paura indietro palpitando guata.
Ma che? la Parca indietro era già volta,
E decreto correa che alfin placata
Del patrio ciel ricalcheria le soglie
Mnemosine di Giove amante e moglie.
xin
Sotto vergine lauro un giorno assisa
Di Piera ei la vede alla sorgente.
La vede^ e d^ amor pronta ed improvvisa
Per le vene la fiamma andar si sente,
E dalle vene all^ossa^ in quella guisa
Che d' autunno balen squarcia repente
La fosca nube , e con veloec riga
Di lucido meandro i nembi irriga.
XIV
Per quell^almo adempir dolce disfo
Che Venere gli pose in mezzo al core,
Che farà il caldo innamorato Iddio ?
Che far dovrà, che gli consigli. Amore?
Amor che già scendea propizio e pio ,
Manifestossi in quella all^ amatore,
E gli sorrise cosi caro un riso.
Che di dolcezza un sasso avrìa diviso.
XV
Ed umile pigliar sembianza e panno '^
L^ esortò di pastore e portamento.
Villano e illiberal parca F inganno
Al gran Tonante, e ne movea lamento.
Oh! gli rispose quel fanciul tiranno.
Oh ! che dirai , superbo e firodolento ,
Quando giovenco *^ gli agenorei liti
Empirai di querele e di muggiti ?
LA uvaoùoffik i35
XVI
Quando di serpe vestirai la sqiiamma ^
E or d' aquila le piume, ora di cigno?
Quando pioggia sarai , quando una fiamma^
E r erba calcherai con pie caprigno 7
Si dicendo lo tocca, e più rinfiamma,
E il bel labbro risolve in un sogghigno.
Pensoso intanto di Saturno il figlio
Né mover chioma si vedea, né ciglio '^.
xvn
Stavansi muti al sito silenzio i venti,
Muta stava la terra e il mar profondo^
Langm'a la luce delle sfere ardenti.
Parca sospesa V armoma del mondo.
AUor l4dalio Dio delle roventi
Fólgori gli togliea di mano il pondo,
Arme fatali '^ che trattar sol osa
Giove e Palla Minerva bellicosa.
xvm
Ed or le tratta Amore '7^ e nella mano
Guizzar le sente irate , e non le teme ^
E appiè d^un^elce le depon sul piano.
Che tocco fuma '*, e V elee suda e gemca
Ne pute r aria intomo, e da lontano
Invita i nembi, e roco il vento fireme.
Dir sembrando: Mortai, vattene altrove^
Che il fulmine tremendo è qui di Giove^
XIX
Fatto inerme cosi l' egioco Nume '9^
Tutta deposta la sembianza altera^
Di pastorel beóto il volto assume,
E questa di sue frodi è la primiera *^i
S' avvia lunghesso il solitario fiume ^
La selva si rallegra e la riviera^
E del Dio che s^appressa accorta V onda ,
Più loquace a baciar corre la sponda^
l36 LA MOSOGOinA
XX
Guida al fervido amante è quell^alato
Garzon che V alme a suo piacer corregge ,
Contro cui poco s^assecura il fato,
Il fato a cui talor rompe la legge.
Egli alla Diva Tappresenta, e au]*ato
Dardo allor tolto dalla cote elegge^
E al vergin fianco di tal forza tira,
Gh^ ella tutta ne trema e ne sospira.
XXI
Loda il volto gentil, le rubiconde
Floride guance e il ben tornito collo ^
Loda le braccia vigorose e tonde,
E Fornero che degno era d^ Apollo^
Bel sorriso, bel guardo, e vereconde
Gare parole, e tutto alfin lodollo.
Amor si dolce le ragiona al core,
Ghe in lui <{uesto pur loda, esser pastore.
xxn
Verrà poscia stagion ch^ altre due Dive
Faran la scusa del suo basso affetto,
Quando Anchise *' del Xanto in su le rive
E cpiel vago d'Arabia giovinetto '*,
Famoso incesto delle fole argive,
La Dea più bella stringeransi al petto \
E sul sasso di Latmo Endimione *^
Vendicherà Galisto ed Atteone.
xxm
In poter dunque di due tanti Dei
Congiurati in suo danno. Amore e Giove,
Gess^ ella al frodo, e Gastitate a lei
Porse r ultimo bacio , e mosse altrove.
Fornirò il letto "^ allegri fiori e bei
Spontaneo-nati ed erbe molli e nuove,
E intonar consapevoli gli augelli
n canto nuzì'al fra gli arboscelli.
LA MtrSOOOHIÀ 187
XXIV
Facean tenore alle lor dolci rime
L^aure fra i muti e ancor non dotti allori,
E il vicino Parnaso ambe le cime
Scotea, presago de^fiitori onori.
Le scotea Pindo ed Elicon sublime,
Che i lor boschi sentian farsi canori^
E Temide*^ di Vesta in compagnia
Dall' antro a Febo già dovuto uscfa.
XXV
Tre volte e sei V onnipossente padre
Della figlia d' Urano in grembo scese ,
Ed altrettante avventurosa madre
Di magnanima prole il Dio la rese :
Di nove io dico vergini leggiadre
Del canto amiche e delle belle imprese:
Melpomene che grave il cor conquide,
E Taha che Perror flagella e ride^
XXVI
CaUiopea che sol conforti vive,
Ed or ne canta la pietade, or Pira **^
Euterpe amante deUe doppie pive,
E Polinnia del gesto e della lira^
Tersicore die salta, e Clio che scrive,
Erato che d'amor dolce sospira^
Ed Urania che gode le carole
Temprar degli astri, ed abitar nel sole*
xxvn
A toccar cetre, a tesser canti e balli
Si dier concordi F inclite donzelle,
E pei larghi del ciel- fulgidi calli
Al padre s'awiàr festose e belle "7.
Dalle rupi ascendeva e dalle valli
n soave concento all'auree stelle,
E Fineffabil melodia le note
Rendea men dolci dell'eteree rote.
i38 hk MUSOGONfA
xxvm
Tacquero vinte al canto pellegrino
Le nove delle sfere alme Sirene ^^
Quelle che viste da Platon divino
Cingono il ciel d^ armoniche catene.
E già Polenio raggio *9 era vicino ^
E in nubi avvolta di tempesta piene ^
La gran porta ^' apparia, donde ritomo
Fan gP Immortali all' immortai soggiorno*
XXIX
Alla prole di Temi ^% alle vermiglie
Ore r ingresso i £aiti ne fidare
Pria che lor poste in man fosser le briglie
Del carro che a Feton costò si caro.
Per questa di Mnemosine le figlie
Carolando e cantando oltrepassare ,
E bisbigliar di giubilo improvvise
Fér la cittade dell'eterno riso.
Dagli alberghi di selide adamante
Tutta de' Numi la famiglia uscia^
E dell' Empire fefvida e sonante
Sotto i piedi immortali era la via.
All'affollarsi, al premere di tante
Eteree salme cupe » sentia
Tremar l'Olimpo^ e nel segreto petto
Giove un immenso ne prendea dilette.
XXXI
Alle nuove del cielo cittadine
Surse dal trono ^ per la man le strìnse ,
E le care baciò firenti «divine
Come patema tenerezza- il vinse.
Poi die lor d' ore il seggio , e di reine ^^
L'adornamento, e il crin di laure avvinse,
D'eterno lauro che d' accanto all'onda
Del nettare dispiega alto la fironda.
LA MVSOGONIA tìg
xxxn
Strada è lassù regal ^ sublime e bianca ^
Cbe dal giunonio latte ^ il nome toglie^
De^ più possenti Numi a destra e a manca
Vi son gli alberai con aperte soglie.
Ma dorè più del ciel la luce è stanca ,
Confuso il volgo degli Dei s^ accoglie.
Le Nebbie erran laggiù canute i crini,
E r ignee Nubi delle Nebbie affini ^
xxxm
E i Turbini rapaci , e le Tempeste
Co^ Zefiri che V ali han di farfalle ,
Tal menando un rumor, che la celeste
Ne risuona da lunge ampia convalle.
Un più licpiido lume infiora e veste
Le sponde intanto di quel latteo calle.
Ivi i palagi del Tonante sono,
Ivi le rocche tutte d' oro e il trono.
XXXIV
Ed in questa del ciel parte migliore
Giove accoke le Muse, e alle pudiche
Liberal concedette il genitore
Splendide case eternamente apriche^
À cui d'accanto la magion d'Amore
Sorge con quella delle Grazie amiche,
Dive senza il cui nume opra e favella
Nulla è che piaccia, e nulla cosa è bella.
XXXV
Fra le Grazie e Cupido e le Camene
Dolce allor d^ amistà patto si feo.
Poi qual pegno d'amor^ più si conviene
Ogni Nume lor porse: il Tegeeo
Le sette amate disuguali avene ^
Ciprigna il mirto ^ i pampini Lìeo^
E a Melpomene fiera il forte Alcide
Donar F insegua del valor si vide.
l4o LA MUSOGONIA
XXXVI
Venne Mercnrio, e alle fanciulle ofierse"
La prima lira ^7 di sua man costrutta^
Apollo Tenne, e del futuro^' aperse
n chiuso libro e la scienza tutta.
Pito ancor* essa ^9^ onde il bel dire emerse ,
Le Muse a salutar si fa condutta,
E Parte insegnò lor dolce e soave
Che deir alma e del cor volge la chiave.
xxxvn
Più volubili allor V inclite Dive
Mandar dal labbro d^ eloquenza i fiumi ^
Allor con voci più sonanti e vive
La densa celebrar stirpe de^Numi:
Quanti le selve, e de'ruscei le rive,
E de^ monti frec[uentano i cacumi,
Quanti ne nutre il mar, quanti nel fonte
Del nettare lassù bagnan la fi*onte.
XXXVffl
Primamente cantar Popre d^ Amore ^**^
Non del figliuol di Venere impudico,
Che tiranno delP alme feritore
La virtù calca di ragion nimico^
Ma delle cose Amor generatore ^*,
Il più bello ^* de' Numi ed il più antico,
Che forte in sua possanza alta infinita,
Pria del tempo e del moto ebbe la vita.
Ei del Gaosse sulla faccia oscura
Le dorate spiegò purpuree penne,
E d'Amor Paura genitrice e pura
Scaldò P Abisso , e fecondando il venne.
Del viver suo la vergine natura
I fi*emiti primieri allor sostenne,
E da quell'ombre già pregnanti e rotte
L'Èrebo nacque e la pensosa Notte.
LÀ MVSOGONIÀ l4l
XL
Poi la Notte d^Àmor Palmo disio
Senti pur essa, e all'Èrebo mischiosse,
E dolce un tremor diede e concepio,
E doppia prole dal suo grembo scosse :
n Giorno, io dico, luminoso e dio^,
E r Etere che lieve intomo mosse ,
Onde i semi si svolsero dell' acque ^
Della terra,- del foco, e il mondo nacque.
XLI
Quindi la Terra all' Etere si giunse
Mirabilmente, e partorinne il Cielo,
n Giel che d' astri il manto si trapunse
Per fame al volto della madre un velo^
Ed ella allor più bei sembianti assunse^
L'erbe, i fior si drizzaro in su lo stelo ^
Chiomosi i boschi, scaturirò i fonti,
Giacquer le valli, e alzar la testa i monti.
XLH
Forte muggendo aUor le sue profonde
Sacre correnti^ l'Oceàn diffuse,
E maestoso colle fervid'onde
Circondò P Orbe^^, e in grembo lo si chiuse.
Poi con alti imenei nelle feconde
Braccia di Teti antica dea s' infuse ^^,
E di Proteo fatidico la feo
E di Doride madre e di Nereo ^
XLin
E dei fiumi taurini ^7 e dei torrenti,
E di molte magiianime donzelle^*.
Cui del cielo son noti i cangiamenti,
E del sol le fatiche e delle stelle.
Predir sann'anco lo spirar de' venti,
E il destarsi e il dormir delle procelle^
San come il tuono il suo ruggito metta ,
E le prest' ale il lampo e la saetta.
l42 LA MU80GONIA
xuv
San quale occulta fonuidabil esca
Pasce i cupi tremuoti, e li commove ^
San qual forza i vapori in alto adesca,
E dell^ arsa gran madre in sen li piove ^
Come il flutto si gonfi, e poi decresca ,
E cento di natura arcane prove ^
Che natura alle vaghe Oceanine
Tutte le sue rivela opre divine.
XLV
E son tremila, di che il grembo ha pieno,
Del canuto Oceàn Palme figliuole,
Che FEtìopio pelago e il Tirreno
Fanno spumar con libere carole.
Ed altre dell'Egeo fendono il seno,
Altre quell^ onda in cui si corca il sole ,
Là dove Atlante lo stridore ascolta
Del gran carro fd>eo che in mar dà volta.
XLVI
Altre ad aprir conchiglie, altre si danno
Dai vivi scogli a svellere coralli^
Per le liquide vie tal altre vanno
Frenando verdi alipedi cavalli ^9.
Qual tesse ad un Triton lascivo inganno,
Qual gP invola la conca^ e canti e balli
E di palme un gran battere e di piedi
Tutte assorda le cave umide sedi.
xLvn
Così cantar dell^ Orbe giovinetto ^^
Gli alti esordj le Muse e P incremento;
E un insolito errava almo diletto
Sul cor de^Numi alP immortai concento.
Poi disser come dal profondo petto ''
La Terra suscitò nuovo portento ,
Col Ciel marito ^* nequitosa e rea ,
Che i suoi figli, crudel, spenti volea.
LA MUSOGONIA 1 43
xLvm
Quindi i Titani di cor fero ed alto
Con parto ella creo nefando e diro^',
Congiurati con Oto ed Eftalto
Ad espugnar V intemerato Empirò.
La gioventù superba ^^ al grande assalto
Con grande orgoglio e gran possanza ujiciro,
E firagorosa la terra tremava
Sotto i vasti lor passi, e il mar mugghiava.
XLIX
Ma Piracmon, dall' altra parte, e Bronte,
GoMor fratelli affumicati e nudi,
Sudor gocciando dall' occhiuta fronte
Per la selva de' petti ispidi e rudi,
Cupamente facean V eolio monte ^^
Gemere al suon delle vulcanie incudi,
I fulmini temprando, onde far guerra
Giove ai figli dovea dell' empia Terra.
L
Tutte di ferro esercitato e greve
Son F orrende saette, ed ogni strale ^
Tre raggi in sé di grandine riceve ,
E tre d' dementar foco immortale,
Tre di rapido vento e tre ne beve
D' acquosa nube, e larghe in mezzo ha V ale.
Poi di lampi ima livida mistura '?
E di tuoni vi cola e di paura ^
LI
E di furie e di fiamme e di fracasso
Che tutto introna orribilmente il mondo.
Prende il Nume quest' arme e move il passo :
n ciel s'incurva, e par che manchi al pondo.
Sentinne il re Pluton l' alto conquasso ,
E gli occhi alzò smarrito e tremebondo ^
Che le volte di bronzo e i ferrei muri
All' impeto stimò poco securi.
i44 'la mvsogonià
Ln
Da^ fulmini squarciata e tutta infoco^
Strìde la terra per immensa doglia.
Rimbombano le valli, e caldo e róco
Con fervide procelle il mar gorgoglia.
Vincitrice di Giove in ogni loco*
La vendetta s' aggira^ e par che voglia
Sotto il carco de^Numi il gran convesso
Slegarsi tutto dell^ Olimpo (^presso.
Lin
E in cielo e in terra, e tra la terra e il cielo
Tutto è vampa e ruina e fumo e polve.
Fugge smarrita del signor di Delo
La luce, e indietro per terror si volvé.
Fugge avvolta ogni stélla in fosco velo,
Ed urtasi ogni sfera e si dissolve:
E immoto nell' orribile frastuono
Non riman che del Fato il ferreo trono.
UV
Ma coraggio non perde la terrestre
Stirpe, né par che troppo le ne caglia.
Di divelte montagne arman le destre,
E fan con rupi e scogli la battaglia.
Odonsi cigolar sotto V alpestre
Peso le membra, e ognun fatica e scaglia.
Tre volte ^ all' arduo ciel diero la scossa,
Sovra Pelio imponendo Olimpo ed Ossa:
LV '
E tre volte il gran padre fulminando.
Spezzò gP imposti monti e li disperse^
E dalle stelle mal tentate in bando
Nel Tartaro cacciò le squadre avverse:
Nove giorni ^ le venne in giù rotando ,
E nel decimo al fondo le sommerse:
Orribil fondo d' ogni luce muto ,
Che da perpetui venti è combattuto.
LA KU80G0NU l45
LVI
E tanto della terra ** al centro scende,
Quanto lunge dal ciel scende la terra*
Di pianto in mezzo una fiumana il fende ^
Di ferro intomo una muraglia il serra^
E di ferro ^* son pur le porte orrende
Che Nettuno vi pose in quella guerra.
I Titani là dentro etema e nera
Mena in Tolta la pioggia e la bufera.
Ivi Giapeto si rirolTc e Geo,
E r altra turba cbe i Celesti assalse.
Ivi Gige ^, ivi Goto e BrXareo
Gui la forza centimana non valse.
Fuor dell^ atra prigion restò Tifeo ^^j
Gh^ altramente punirlo a Giove calse^
Su rineflhbii mostro in giù travolto
Lanciò Sicilia tutta ^ e non fii molto.
Lvm
Peloro la diritta, e gli comprime
Pacbin la manca, e Lilibeo le piante.
Schiaccia V inmiensa fronte Etna sublime ,
Di fornaci e d^incudi Etna tonante.
Quindi come il dolor dal petto esprime,
E mutar tenta il fianco il gran gigante,
Fumo e fiamme dal sen mugghiando erutta.
Ne trema il monte e la Trinacria tutta.
UX
Del sacrilego ardir sortì compagna
Encelado a Tifeo la pena e il loco.
Gli altri sulla Flegrea vasta campagna ^^
Rovesciati esalar di Giove il foco:
Ond^ivi ancor la valle e la montagna
Mandan fumo, e rumor fimesto e roco.
Della divina Creta ^ alcun satolle
Fé del suo sangue le feconde zoUe.
Moni. Poemetti. io
l46 LI KUSOGOIIIA
LX
E tu pur desti agU empj sepoltura,
Terribile Vesero^ che la piena
Versi rugghiando di tua lara impura
Vicino, ahi troppo! alla regal Sirena.
Deh sul giardin d'Italia e di natura
I tuoi torrenti incenditori affirena.
Ti basti, ohimè! Parer di Pompejano
I bei colli sepolto e d' Ercolano.
LXI
Il sacro delle Muse almo concento
Del ciel rapiti gli ascoltanti avea.
Tacean le Dive^ e desioso e attento
Ogni Nume V orecchio ancor porgea.
Del nettare il ruscello i pie d' argento
Fermare anch'esso, per udir, parca,
E lungo r immortai santissim'onda
Né fior r aure agitavano né fronda.
Lxn
Qual dell' alba discende il queto umore
Sull'erbe sitibonde in piaggia aprica,
Tal discese agli Dei dolce sul core
La rimembranza della gloria antica.
Rammentò ciaschedun del suo valore
In quel duro certame la fatica ^.
Polibote a Nettmio e gli Aloidi
Di gran vanto fìir campo ai Latonidi.
Lxm
Favellò del crudel Porfirione,
Alto scotendo la fulminea clava ,
L' indomato figliuol d' Amfitrì'one ,
E con superbo incesso il capo alzava^.
Ma delle Muse l' immortai canzone
Te, più ch'altri, o Minerva, dilettava,
Te che il primo recasti, o Dea tremenda ,
Soccorso al padre neUa pugna orrenda.
LI MUSOOONIA l47
LXIV
Né alle sacre cavalle h in mar tergesti
I polverosi fianchi insanguinati,
Né il gradito a gustar le coi>i%U!esti
Fresco trifoglio '• ne' Cecropi! prati,
S' ai Terrigeni in pria morder non festi
La sabbia in Flegra , e non fìir pieni t fati,
I fati che ponean Giove in periglio
Senza il braccio d'Alcide?' e il tuo consiglio.
LXV
Cosi gV immani Angnipedi ?* pagaro
Di lor nefanda scelleranKa il fio^
Ài superbi così costar fé caro
Quel famoso ardimento il maggior Dio.
Egra la Terra in tanto caso amaro
Ài caduti suoi figli il grembo aprio ,
E di cocenti lagrime cosparse
Le lor gran membra folgorate ed arse.
LXVI
E ardea pur ella, e i folti incenerire
Sul capo si sentia verdi capelli
Dal fulmine combusti, e in sen bollire
L'alte vene de' fiumi e de' ruscelli.
In sospiri esalava il suo soffirire.
Gli occhi alzando offuscati e non più quelli.
Volea pregar, ma vinta dal vapore
La debil voce ricadea nel core.
Lxvn
Le volse un guardo di Saturno il figlio,
Pietà n' ebbe, e le folgori depose,
E tornò col chinar del sopracciglio
n primo volto alle create cose.
Scorse le sfere col divin consiglio ,
E la rotta armonia ne ricompose.
Alla traccia dell' orbite smarrite
Richiamando le stelle impaurite.
i48 tul msoGomk
Lxvin
Scorse la tetra, ed alle piante uccise
Ricondusse la vita e ai morti fiori ^
E fiior di sue latebre il capo mise
n fonte, e sciolse i trepidanti umori..
Tu il mar scorresti ancora, e il mar sotrise,
Posti in silenzio i fremiti sonori.
Sdegnato lo guardasti, ed ei sdegnossi:
Lo guardasti placato, ed ei placossi*
LXIX
Salve, massimo Giore: o che vaghezza
D'errar ti prenda per gli eterei campi
Sul carro in che Giustizia e Robustezza 7^
Sublime ti locar fira tuoni e lampi:
O che deposta la regal grandezza
Pel nativo Liceo 74 P orma tu stampi^
O le melie nutrici, e la contrada
Della tua Greta visitando vada;
O le parlanti querce dodonee 7' ,
E di Libia lasciando le cortine, 7^
Nel sen ti piaccia delle selve Idee 77
Le stanche riposar membra divine \
O colle Muse su le rote elee 7>
Ir d'olimpica polve asperso il crine.
Mentre il canto teban 79 P aquila moke
Che su r aureo tuo scettro^ in piò si folce:
LXXI
Tu beato, tu saggio e oimipossente,
E degli uomini padre e degli Dei:
Tu provvida del mondo anima e mente:
Tu regola de' casi o fausti o rei:
A te cade la pioggia obbediente:
A te son ligi i di sereni e bei :
A te consorte è Temi, e Palla è figlia,
E da te scende il saggio, e ti somiglia.
Là IIUSOGOHU l49
Lxxn
Sacri sono a Gradivo i buon gaenieri,
Gli artefici a Valcano, a Febo i Tati;
A Cinzia i cacciator selvaggi e feri
Della sposa fedel dimenticati;
De' popoli a te, Giove, i condottieri,
E tu la mente ne gOTemi e i fati.
Deb! P anime supreme, in cui s'affida
L'umana compagnia, proteggi e guida.
Lxxm
Proteggi insieme delle Muse il canto,
E ciò tomi a tuo prò. Morta è la lode
De' Numi e degli eroi dove del santo
Elicona sonar l'inno non s'ode:
Molta virtù sepolta giace accanto
Alla viltà, perchè non ebbe un prode
Vate amico al suo fianco: e le bell'opre
Che non hanno cantor, l' obbbo ricopre.
VARIANTI DELLA MUSOGONIA
tratte dalla stampa mcomùìciaia ùi Rema per Luigi Perego SaWioni
nel 1793, i>i-8. (*)
>»
w I.
>» I.
Stamsa ni.
V. 7. Né grido han pia le Sicionie fole,
M 8. Né d'Osiride i caDti e le carole.
V.
M 3. Per la selva beota, e di Fiera
7. Amor d'eteree nari, e quel che il verno
VI.
La tuberosa e il timo, onde il bel saolo
VII
Fiori adunque mietea l'avventurosa
>» a. Ilari e vivi, e sen dolea il terreno.
X.
" 5. Né sapea la dolente, che di Giano
'» 6. £i pel regno venia peregrinando;
XI.
M 3. Del gran sangue Titanio avea V orgoglio,
XII.
'* 5. Ma che? la Parca in meglio era già vòlta,
XV.
» 3. Vii troppo e illiberal parca l'inganno.
(*) Questa ediaione per le lopravyenute vicende poUlidie rimase imperfetta , e 1* Autore nel
1797, «Tendo di quoto rÌTolto P animo al suo kToro, ne cambiò Videa eia divisione, corno
potrà Tedersi dal confronto del testo e delle Tarìanti qui riportate , non meno che dall' avvcr-
tinento premesso a]l*ediaioiM veneta del pradetio anno 1797 , die ho ristampato innansi al
poemetto. Per T intero testo e per le note ho seguita T ultima edizione del 1826, presso la
Soctetli tipografica de' Classici Italiani , riveduta e corretta dalV Autore. L'Sditore.
I» I.
» 2.
M a.
» X.
f» a.
l5a VARIiSTI
Stahu XVI.
y. 4' £ l'erba calcherai col pie caprigno?
xvn.
Stavano muti al suo silenzio i Tenti,
XX.
8. Ch'ella fatta ne trema: e già sospira.
XXI
Pienotte guance, e il ben tornito collo;
xxn.
4- E il famoso d'Arabia giovinetto,
5. Lnngo argomento delle carte Argive,
XXIV.
6. Che sentian come diverrian canori^
XXV.
Di Hnemosine in grembo egli discese^
M 8. E Talia, che Ferror percote, e ride;
XXVI.
Calliopea, che sol co' regi vive,
E canta degli eroi T affanno e l'ira;
xxvn.
M 5. S'adian da lungi armODizzar le valli
M 6. Soavemente, e ne stapian le stelle,
w '7. Vergognose d'intendere che note
M 8. Spandean men dolci le sideree rote.
xxvm.
» a. Le sette delle sfere alme Sirene,
M 6. E in nubi avvolta sempiterne e piene
XXIX.
w 5. Per questo varco le Mnemosie figlie
XXX.
M 5. AU'affoUarsi, al correre di tante
XXXI.
M a. Snrse, e all'incontro con decor si spinse:
» 3. Quelle care abbracciò fronti divine
M 5. E lor die d'oro il seggio, e di reine
XXXII.
M 3. De' nobili Immortali a destra e a manca
» 5. Disperso abita il vulgo ove già stanca
»» 6. L'eterea luce in basso il ?ol raccoglie.
XXXIV.
»» ^. A cai d'appresso il tetto aureo d'Amore
nEixà mnooosu i53
Staaa XXXV.
V. I. Fra le Cariti aDora e le Camene
» a. Saldo legame d'amistà si feo»
« 7. E a Bfelpomene fiera il fiero Alcide
xxxvn.
m 8. Dell'ambrosia lassù bagoan la fironte.
xxxix.
» I. Del Caos infbnne sa la &ccia oscura
XLH.
» I. Roco mn^cDdo allor le sue profonde
XLm.
n 6. E il dormire dell' onde , e le procelle»
LXVIt
» 8. Che i SQoi figli, cmdel, le nasoondea.
XLvra.
» 5; La terrigena stirpe al grande assalto
XLIX.
«• I. Dall'altra parte Piracmone e Brente
L.
I» 6. Di densa pioggia, e larghe in meao ha l' ale.
Ln e LUI
(Quetie stampe mancano neltedù^jbne rcnuoui)
LIV.
MI. Lo senA da lontan Pambiaosa
Antica madre, e si copri d'nn Telo;
De'snoi %Ii il senti la (Ssiticosa
Penrersa torba, e akò la testa al cielo;
E forendo ciascnn d'una petrosa
Rape si fece incontro a Giove nn telo.
' Tre volte all'arduo ciel diero la scossa,
Sovra Polio ponendo Olimpo ed Ossa*
Lvm.
* 3. Sa la fronte gli grava Etna sublime
« 4. E sul petto infocato e crepitante.
M 5. Quindi come i sospir dal fianco esprime
M 6. E si contorce e sbufia il gran gigante,
» 7. Fumo e foco dal sen mugghiando erutta.
LIX.
M 3. Gli altri di Flegra alla feral montagna
M 5. Ond'ivi il passeggero ancor si lagna
M 6. Del caldo suolo, e il pie va incerto e poco.
» 7. Della divina Creta altri satolle
l54 YABUVTI
Stara LX«
0 Yesevo fatai » ta die la piena
Versi iracondo di Ina schioma impura
1 tuoi torrenti iooencbosi affiena;
Non imitar lo scempio e la mina
Del Grallioo ladron cLe s'avyicina'^.
LXV.
Ai superbi cosà parer fé caro
Ai cadati suoi figli il grembo ayaro
Allor la Terra sospirando apHo,
E di cocenti lagrime dirotte
Le lor membra bagnò filmanti e cotte.
LXVI.
£ fiuBaya ella por; che abbrustolire
I verdi si sentia fohi capelli,
L'ampie vene de'finmi e de'msceUi.
In vapori esalava il sno soffrire»
Gli occhi akando oscurati e non pia belli:
£ dal manto arso tuttavia scotea
Le celesti faville , e si dolea.
LXVIL
Di Saturno Tudlk l'inclito figlio,
£ pietà n'ebbe, e il fulmine depose,
n primo aspetto alle create cose.
Al costume dell'orbite smarrite.
Lxvm
Ricondusse la vita e a' morti fiori;
Pacificando i fremiti sonori.
'* 7. Sdegnato lo guardasti: egli sdegoossi.
LXIX
» 7. O le meUe nudrici, e la contrada
LXXL
»> 8. £ da te scende il rege, e ti somiglia.
Lxxn.
» 5. A te, Giove, i regnanti, e tu > pensieri
» 6. Ne tempri, 0 padre, e ne proteggi i fiiti.
'' 7. Al crudo nembo ch'or gli awolve e preme,
^> 8. Deh! tu li togli, e te difendi insieme.
*) Le sUnae LXI, LXII, LXIU • LXIV dell'edmcne MikiMse, con pochi caotbiamaiU,
erano il principio del secondo canto dell' ediiione Romtna.
VEditmrt.
V.
2.
»
3.
J*
6,
M
7-
M
8.
M
3.
M
5.
»
6.
H
7-
»>
8.
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1.
M
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4.
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99
I.
99
3.
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4.
99
7-
»
3.
>*
6.
DELLA mSOOONIA. l55
Starsa LXXIII.
(Questa stanca non è nell* edizione romana j in essa il Canto
termina colle Stanxe seguenti:)
Gasare salva, che U auguste gote
All'egra Europa rasciugando Tiene ^
E la Franca sul Reno idra percote
E i yacillanti troni erge e sostiene.
Salvalo; e tante fumeran devote
L'are al tuo oume sulle vinte arene,
Che men poscia ti fia dolce e gradilo
D'Etiopia l'ospizio e il pio convito.
E voi 9 Numi del Frigio pellegrino,
Cui dier le fiamme rispettose il passo.
Dèi Penati, e tu, Marte, e tu, Quirino,
Che immoto del Tarpeo serbate il sasso;
Voi che tutu dell'Italo destino
Mai non volgete la potenza in basso.
Contro il Gallo fellon, che varca il monte,
Destatevi, e levate alto la fronte.
Pietà d^'Ausonia, a cui di pianto un rio
Bagna la guancia delicata e casta,
E nel sen v'addimostra augusto e pio
n solco ancor della vandalio' asta.
Assai pagò la dolorosa il fio
D'antiche colpe che Than doma- e guasta.
Deh! più non la percota iniqua spada;
Che non v'ha parte intatta ov'ella cada.
Tu, Germanico Eroe, che in biondo pelo
Mostri, invitto Francesco, alto consiglio,
Tu ricomponi alla piangente il velo,
Ch'ella t'è madre, e madre prega al figlio.
Yien, pugna, e salva la ragion del Cielo;
Che ben per Dio sì corre ogni periglio;
Vieni, e al furor del seme empio di Brenno
Il petto opponi di Camillo e'I senno.
Fine del canto /.
i56 TÀKunTi
Prìndpio del secondo Canto della Musogomia
stampato in Soma presso Luigi Perego Salmni.
n saero deUe Muse alto concento (*)
Del ciel rapito gli ascoltanti avea;
Tacean le Dìtc, e disioso attento
Ogni Nome i' orecchio ancor porgea.
Il rivo dell'ambrosia i pie d'argento
Fermare anch'esso per udir parea,
E Inngo r immortai santissim' onda
Né fior Taorette perootean, ne fronda.
n
Qnal yiensene rìdendo il primo albore
Le amanti a rìsyegliar rose pudiche,
Tal discese agli Dei dolce sul core
La rimembranza delle glorie antiche.
Rammentò ciaschedon l'ira e il terrore
Di quell'alto certame, e le fatiche:
Polibote a Nettuno, e gli Aloidi
Alla mente tomAr de'Latonidi
m
Ragionò del crudel Porfirione
Li man scotendo l'onorata dava
n figliuolo fatai d'Anfitrione,
E magnanimo e grande passeggiava.
Ha delle Muse l' immortai canzone
Te più ch'altri, o Minerva, dilettava,
Te, che il primo recasti, o Dea tremenda.
Soccorso al padre nella pugna orrenda;
(*) Non credo di dover dùginogen dal oonioito deOe tnisegnenti qvesU ptime qnittro
otUTCf qnutuoqne» conio ho di già avrartito» siano dall'antoro ttale trasportale ndl' unio»
canto, a coi gli pièeqoe di ridurre il poenu. X'JSA'Awv.
DBXJJL KV80GONU ìSj
TV
Né alle sacre cavalle in mar tergesti
I polverosi fianchi insanguinati,
Né 1 gradito a gustar le conducesti
Fresco trifoglio ne' cecropj prati j
S'ai terrigeni in pria morder non festi
La sabbia in Flegra, e non fur pieni i £iti
I fati che ponean Giove in periglio
Senza il braccio d'Alcide, e'I tuo consiglio.
In cielo adonque nata, in cielo udire
Fé poesia sue prime alte parole,
E la sublime verità vestire
Del vel le piaccpie di profonde fole.
Come poi scese in terra, e gli odj e l'ire
Qui temprò di Giapéto all'empia prole.
Ditelo, o caste Dee; che vostra è l'opra:
Né dritto parmi che d'oblio si copra.
VI
Quel saggio delle cose Autor primiero,
Che del mondo miglior fu l'architetto,
Imprimendo con raro magistero
Nel limo inerte il suo celeste aspetto,
Già l'uom formato avea, ch'alto il pensiero
Al cielo ergesse, e l'ardua fronte e il petto,
L'uomo, animai bellissimo e divino.
Delle steUe compagno e cittadino.
vn
Ei norma de' creati enti e misura.
Pieno dell'aura dell'eterno Spiro,
Strappar dovea (piel velo alla natura.
Che a spron fu posto dell'uman desiro,
E la cagion s velame, e con secura
Mente il vasto abbracciar sidereo giro;
E nell'opre del Nume i pensier sui
Immerger tutti, ed inchinarsi a lui.
i58 TAUAim
vin
Lui rayyitar fra'! tuono ed il baleno
Passeggiarne sol dorso alle procelle;
Lui nel riso de' fiori, e nel sereno
Tremolare ddl'onde e delle stelle;
Nel Tennicciaol che striscia in sul terrenOy
Nel leon che sonar fa le mascelle ,
£ tutte brame sottopor felice
Alla ragion dell'alme imperatrice.
IX
Ha di bujo e d'error cinte le genù
Vivean ne' boschi orrenda yita in tatto.
Feroci al par de' setolosi annenti
Pasceansi l'epa del caonio fratto;
E contro i nembi e il flagellar de'yenti
Yestìan di frondi il corpo fero e bratto.
Disputando sovente nelle selve
U cibo e l'onda alle medesme belve.
Libera errar la colpa si vedea
Di Cerro armata, e il fianco nuda e il basto;
Che a noi non era ancor discesa Astrea
Del giusto a por le mete e dell' ingiusto ;
Bla sola il capo fra' mortali ergea
L'abborrita ragion del pivi robosto.
Ahil ch'ella troppo allor gigante nacque,
E tiranna divenne, e più non giacque.
XI
Nel vigor dunque delle forti braccia
Tatto quei crudi riponean lor dritto.
Ognun di sé pensoso, ognuno in traccia
Del proprio, e nullo del comun profitto.
Prostrata la Pietà tenea la faccia,
L'uman piangendo universal delitto,
Ed Innocenza al prato ed al ruscello
Iva errando col cervo e coli' agnello.
. DELLA msoeosik 159
XU
Quindi uè d"alma né di cor TÌitute,
Non infiammati d'amiciiia i petti,
Non di nome timor, non conosciate
Del talamo le leggi e degli afietti.
Le Todi tutte dell'onesto mate,
Turpi e roxù di Venere ì diletti;
Che d'or gli strali allor non ebbe Amore,
Nò compagne le Grazie ed il Pudore;
xin
Afa violenta, ma lascÌTO istinto.
Né da ragion, né da rimorsi domo,
Sì che parre comune e non distinto
Del quadrupede il rito e quel dell'uomo.
Questo sol loderò, che di non finto
Amor fii presto un fior soyente, un pomo.
Or costume sì santo Amor rifugge,
E per auro si compra, e si distrugge.
XIV
Cosperse un'altra naturai dolcezza
Lor vita, e tenne di yirlude il loco :
Grande nel poco possedean ricchezza,
Né penuria giammai vi fu del poco.
Era il resto ferocia, era stoltezza,
L'uom dell'uomo avversario e di sé gioco ;
E sull'orrido volto la bell'orma
Tutta perduta dell'eterea forma.
XV
Di là, donde col guardo il mondo scote,
Mirò Giove la terra, e ratto avvisto
Che di Pandora la funesta dote
L'orbe allagava desolato e tristo.
Pietà di padre il vinse, e delle gote
Il bel sereno annuvolar fu visto;
E poiché darne aita in cor concluse,
Voi mandò sulla terra, o sante Muse;
l6o TARUIITI
XVI
Voi delToomo conforto, e àtf^ Dei
Eterna Tolottà, Toi che reine.
Sole reine degli affetti miei.
D'onesto allòr nu proteggete il crine,
E il timor di destini ingiusti e rei
Bli soggetute al pie, Ninfe divine ;
Ond'io, se nembo mi minaccia infido.
Con Toi tocco la cetra, e canto e rido.
xvn
Del bnon Hercorio adunque e del figliuolo
Di Latona movendo in compagnia,
Al)bandontr le Muse il patrio polo ,
£ yeioci quaggiù preser la via.
Al partir delle Dee tristena e duolo
In ciel si sparse, e un firemere s'udia,
E tale un lamentar, che d'improvviso
Morto il gaudio vi parve, e spento il riso.
xvni
Due son d'oro lassi porte stupende.
Che d'Itaca nell'antro altri già pose:
Degli Dei l' una, al ciel nel segno ascende
Che vi fan d'Amaltea le stelle acquose;
E degli uomini l'altra, in già discende
Per le branche del Cancro luminose.
Quella le Muse in ciel condotte avea,
E questa in terra le riconducea.
XIX
Fin sulle soglie contristati e spessi
Le accompagnaro i Numi, e qui segufo
Un suon di baci, un gareggiar d'amplessi,
E di tenere voci un mormorio.
Uscir d'Olimpo alfine, e i suoi convessi
Sonar d'un lungo doloroso addio;
Poi la porta si chiuse, e Urania bella
Rimase in ciel, di nove una sol' dia.
DELLA MVSOGONIA l6l
XX
Ella scruna in ciel rimase al freno
Delle saperne rote, e di là, come
Casto amor pioTe de' mortali in seno,
Di Yener ebbe e di Celeste il nome.
Scettro ancor le fa dato, e di sereno
Nimbo le Parche le fregiar le chiome ^
Le Parche un di vedute in bianche stole
Cantar sugli astri , e far suo trono il sole.
XXI
E danzando frattanto ed esultando.
Dalle curve scendean liquide sfere
L'alto del padre ad eseguir comando
Le divine sorelle messaggere ;
Come stelle che rapide strisciando
Soglion di notte per lo ciel cadere,
E trar di luce a tergo un lungo solco.
Argomento di nembi al pio bifolco.
XXII
Il venir delle figlie alme di Giove
Sentì tosto la terra, e ne sorrise,
E di fior care temperanze nuove
Con allegro e gentil parto sommise:
E dove l'elee stillò mele, e dove
Vesti la vite porpore improvvise:
Si celaro i colubri, ed appassito
Sullo stelo chinossi l'aconito.
xxra
Deposero le belve immansuete
I feroci costumi, e serbar fede.
Benigne tutte seguitando e quete
La melodia, che dolce al cor le fiede.
Anche il platano s'ebbe, anche T abete
Ad ascoltare orecchio, a seguir piede;
E l'onda stupefatta e taciturna
Fennaro i fiumi colla man suU' urna. (*)
(*) L'auton non andò più ckre colla stampa romana. L'Editore.
MoMTi. Poemetti, ii
NOTE
ALLA MUSOGONIA
Pio. i3l.
A Varia nelle fiivole è rorìgine» come il nomerò delle Biase. I Sicio-
neti ne adorayano da principio tre solamente, e s. Agostino^ lib, I, a,
De doeir, dbrùt, Ulastrando un passo oscuro di Ausonio^ raccoota, sul-
l'aatorìtà di Varronej che ayendo nna città delia Grecia (creduta
Sicione) ordinato a tre valenti artefici di scolpire ciascuno separata-
mente le tre statue delle Muse, con promettere un premio a chi le
avesse meglio eseguite^ accadde che tutti riuscirono cosi bene nell'o*
pera, che il pubblico stimò buona e giusta cosa non rigettarne veruna^
e eoUocarie tutte nel tempio d'Apollo. Cosi fu fatto, e le Muse di tre
divennero nove.
Diodoro racconta diversamente l'origine di queste Dee, dicendo
ch'esse furono nove donaelle esperte nel canto e nel ballo, le quali,
•otto la diresione d'un generale nominato Apollo, accompagnavano
Osiride nelle sue spedixioni militari. Altri autori altre sentenze.
Pio. i3a.
• Questa fra' Mitologi è V opinione più ricevuta. Mnemosine , dea
della memoria, come il suo nome stesso significa, era, secondo Esiodo,
dell'infelice famiglia de' Titani, e perciò sorella di Temide, d'Iperio*
ne, e di molti altri personaggi assai celebri nella Teogonia di quel
poeta.
Ivi.
3 Luogo della Beozia. Esiodo nella Teogonia, v. 53, ne assegna il
comando aUa madre delle Muse,
Le quai feconda nj pTerio giogo,
A Giove padre partorì Mnemoiioe ,
D'Eleotifra ubertoai impeFatrìce^
E Fedro, copiando Esiodo, nel prologo del lib. III.'
Pieriiiin jugom ìq <pio taaaiiti cancta MneiuutyiM
J«TÌ foBConda noviei artiam pepeiit dumun.
Ivi.
4 Chiamano i poeti immortale V amaranto , perchè conserva lunga-
mente il suo colore, et madtftKtm aqua rmiruciL Plin., lib. XXI, e. 8.
l66 HOTE
Pag. i33.
S^Impe^fetto del verbo olire, che invece di oUsàare adoprasi elegan-
temente da caitigati scrittori. Dante nel canto XXVIII , y. 5, 6 del
Purgatorio :
PvBDdfeado la camptgiui lento knto
Stt per lo suol die d' ogni parta oliva.
E Boccaccio: la quaU di rote, dijiori d'aranci, e tt aiiri adori tutta
oliva, NoT. i5.
Ivi.
<» Ninna coaa offende tanto Mnemosine, cioè la memoria, quanto il
torpore simboleggiato nel loto e nel narciso, fiorì consecrati al Sonno
e alla Morte. Il citato Plinio, parlando del secondo, dice che gratHe
efiu odor torporem affert, e Pindica abbastanza la stessa parola. Quanto
al loto, parlasi dell'egiziaco, pianta simile a quella del papavero. Il
Sonno rappresentasi ordinariamente con questo fiore sopra la testa.
Ivi.
7 Favoleggiarono i poeti che la rosa a Venere sacra fosse prima di
color bianco, e diventasse poscia vermiglia col sangue di questa Dea
che ne restò ferita nel piede, passeggiando pe'suoi giardini. Altri nar-
rano che una tale disgrazia le accadesse in un dito nel battere il suo
figlio Amore con un flagello di rose. Nonno poi vuole che la rosa sia
nata dal sangue di Adone, come l'anemone dalle lagrime di Venere.
Pàg. i33.
' Per diritto di nascita V impero del Cielo apparteneva ai Titani.
Ma Giove, rimasto lor vincitore, gli escluse dal regno paterno, e parte
ne cacciò nel Tartaro, parte ne lasciò andar dispersa sopra la terra.
Ivi.
9 La condanna dei Titani nel Tartaro, secondo la cronologia de'Mi-
tologi, si perde in età remotissime. Si può questo inferire dalla sola
favola di Prometeo, il quale, secondo Eschilo, dopo essere stato le*
gato trecento secoli alla rupe scitica, fu poi precipitato a colpi di
fulmine nel Tartaro, ove rimase molte altre migliaia d'anni.
Ivi.
*o Saturno era l' ultimo dei Titani. Divenuto padrone del Cielo per
la transazione fatta con Titano suo maggior fratello, fu avvertito dal-
l'oracolo che i propri figli l'avrebbono privato un giorno del regno:
per Io che prese il partito di divorare tutti i maschi che Rea gli
partoriva. È noto come Giove venisse sottratto dalla madre alla patema
voracità. Sopra di esso, già cresciuto negli anni e nell'audacia dell'a-
nimo, caddero principalmente i sospetti di Saturno, il quale perciò
studiava il modo onde disfarsi di questo figlio intraprendente e peri-
coloso. Ma Giove, accortosi delP insidia, prevenne il padre, lo mise in
carcere^ e dopo qualche tempo lo esigilo da tutto il regno celeste.
L'esule Saturno si ricovrò in Italia, ove fu accolto da Giano con molta
ospitalità. Vedi il di più nel primo dei Fasti Ovidianì e nclF ottavo
delP Eneide, v. Ssq^ ove intendesi la ragione per cui fa detto aver
AZXi MVSOGONIÀ 167
egli porUU l'età deU'oro in Italia» che dal tio boom lii chiamata
SatumÙL
Pag. i33.
■ ■ Figlio di Peìasgo. Fa il primo a passare in Italia con uni colo*
nia di Greci, dal che gì' Italiani si appellarono snoi nepoti.
Iyl
>* Piglia d'Eretteo re di Atene 9 rapita dal vento Borea re della
Tracia. Non é oziosa V espressione iptròorw^ tcoglio , perchè allude
alla spelonca di Borea di cai parla Callimaco; insegnandoci che da
quella si scatenavano le sue procelle {^Bjrmn, in Diaru), e che stava
in essa la mangiatoia dei cavalli di Marte {^Hjrmn. in DeL)
Pào. i34«
>3E fu realmente in questa sembianza che Giove deluse Blnemo-
sine: circostanza taciuta da Esiodo, ma toccata da Ovidio nel sesto
delle Metamorfosi. Sidonio , carm. iS, v. 175, dice in figura non di
pastore^ ma di serpente^ e confonde la favola di Mnemosine con quella
di Proserpina.
Ivi.
>4 Amore 4 beffandosi delle delicatezze di Giove ^ non accostumato
ancora alle frodi amorose ^ gli predice le future sue metamorfosi; e
come sarebbesi trasformato in toro per Europa, in serpente per Pro-
serpina, in aquila per Asteria, in cigno per Leda, in pioggia per Da*
nae, in fuoco per Egina, e in satiro per Antiope. Vedi il citalo Ovi-
dio, Metamorfosi lib. VI, ove tutte queste favole sono rapidamente
accennate nella tela d'Aracne*
Pag. i35.
>S II moto delle chiome e de'sopraccigli era l'atto più maestoso di
questo Dio. È mirabile il passo d^Omero, nel primo dell' Iliade^ allor-
die Giore promette a Tetide la vendetta d'Achille:
Dine) e Q gnu 6glio di Saturno i neri
Sofmedgfi ìiicIimi&. Su P immartele
Capo del Sire le dirine cUone
Oadaggieio, • tnoMBiie il vello OnflB|Ki.
Dalla qual soblime immagine tolse Fidia il pensiero del suo Giove
Olimpico e Orazio il concia $up€rcilio mot^entis, tanto lodato.
Ivi.
>6 Nessuno degli Dei, tranne Pallade , aveva forza bastante per ma-
neggiare i fulmini di Giove. Illustreremo questo passo di favola con
molti esempi di bella poesia. Sia primo Virgilio, En. I, t. i6, ore
parla della vendetta di Pallade contro Ajace d'Oileo.
Ipn, Joirii rqncliiDi iecnkte e nobibttt ignem,
Disjediqoe ratei, erertitqiae lequon ventili
Hliun ci^inntem tnnifixo pectore flammei
Tnriiine eerripuit, |oopiiloq[iae infbdt acato.
Dopo Virgilio daremo luogo a Quinto Calabro, lib. I de' suoi Para*
lipomeni, aUorehè GioTt consegna a Minerya il suo falmine per Vìtt-
i68 iroTB
dicaU yendetta. Mi proverà di indurne i reni, cb« mi semluruio non
indegni d'Omero:
Dioe; e il npàdo Impo^ é b hnttUM
F(9gare, e il tuono ttum-tolof di tana
A pik àéP mtpn intrepida «hnauBa
Depose; e tatto per la gto)a il core
Fianmeggiò deBa Diva. Inoontanenu
L'egida pnae poderosi e Mlda,
D' ogni lato oonuca^ e tal die il guardo
Lo itesao sgnaido diigottia de' Nomi ;
Ch^ fculto v'era di Medusa il ca^
Terribile nel meno, e aoTn il capo
Molta e gran fona d'inestinto fòco
SoflSavano le serpi. Alto sol petto
Della reina risonar s' udia
Tatto quanto Io scado, in qudla guisa
Cbe di fulmini pieno fl del rimbomba.
Indi 1* arme impugnò del genitore ,
Cui de' nomi trattar altri non osaj
Lo aoosse, e ne tremò l'immenso Olimpo.
Euripide nelle Troadi introduce Pallade che si gloria della promessa
fattale da Giove di darle il suo fulmine per vendicarsi dei Greci; ed
Eschilo fa che questa Dea si vanti di saper ella sola /ha gli Dei ove
stanno riposte le chiatti dell'armeria in cui si custodiscono ijidmini di
Giove*
Seneca nelP Agamennone tocca questo medesimo privilegio, dicendo:
Juhnine Jouis armata Pallasj e vi allude anche Valerio Fiacco nel IV
deU'Argonautica ^ v. 670:
Prima cornicanti aignum dodit «gide virgo
Fulmineam jaculata &cem.
Non debbesi tacere un passo d'Aristide che nell' Orazione seconda
lasciò detto che la sola Minerva si adoma delle armi paterne. Anche
in alcune medaglie di Domiziano vedesi nel rovescio Pallade che im-
pugna il fulmine.
Pag. i35.
s? Fra i pensieri dell'immortale Pikler uno ne fu trovato^ quando
egli venne a morire, disegnato in matita rossa, rappresentante Amore
col fulmine in pugno in atto di scherzo; pensiero che quel sommo
artefice aveva forse in animo di eseguire in cammeo per accompa-
gnarlo ad un altro ^ cui potè terminare negli ultimi giorni della sua
vita, rappresentante lo stesso Amore, che tiene sospesa per le ali una
farfalla, e ridendo l'abbrucia. Ho cercato di colorire in verso il primo
di detti pensieri, ed ora il restituisco con trasporto alla memoria di
quel grand' uomo , solla cui tomba la tenerezza di figlio mi fa spar-
gere questo fiore di gratitudine.
Ivi.
. *BHo avuta qui di mira una bella immagine del non sempre sb»*
ALLA MUSOGONIX 169
▼agante Nomio nelle Dionisiache, lib. I, t. i5o, ove parla dei fulmini
che Giove naaconde in una apelonea per giacersi liberamente con
Plotide^ che fti poi madre di Tantalo. Ne tradurrò, come meglio m-
prò , i versi che mi paiono del carattere omerico più sablime :
Eruttavano al del globi di forno
Le Icflgorì naaooM, onde dintorno
Di bianca dÌTenìa n^^ra la rupe.
1>egli strali, che punta banno di loco,
Facea P occulta ed immortai icintiUa
BoDir l' urne de* fonti , e la eoounofsa
Del Migdonio tomnte alta vorago
MTettea vapori gorgogliando e ^nma.
Pag. i35.
*9 Cognome derivato a Giove dalla capra che lo allattò, non dall'e-
gida, come altri pretendono. Che anzi l'egida non desunse altronde
il suo nome che dalla pelle di quella capra, perchè di essa ricoperse
Giove il suo scudo quando andò a combattere coi giganti. Divenne poi
sinonimo dello scudo ancora di Pallade : lo che sia detto per togliere
V errore di alcuni che confondono P egida di Giove colPegida di Minerva.
Ivi.
•^ Non apparisce infatti nella Mitologia veron' altra frode amorosa
di Giove prima di questa. Egli aveva però avute fin d'allora due altre
mogli, Meti figlia dell'Oceano, e Temide madre delle Ore.
Pào. i36.
•■ Fu Anchise un pastore Trojano amato da Venere, che l'alzò al-
l'onore de' suoi amplessi a patto di non rivelare ad alcuno la sua for-
tuna. Non l'avendo egli saputa celare, ed essendosene incautamente
vantato fra' suoi amici , Venere ne fece lagnanza con Giove , che su-
bito lo fulminò. Mossa allora la Dea a compassione dell'infelice, deviò
il fulmine, ma non tanto che la vampa e l'aria dal fulmine agitata
non lo colpisse, e infermo e debole lo rendesse per tutto il tempo
della sua vita. Odasi come ricorda egli stesso la sua disgrazia nel
secondo dell'Eneide, v. 647:
Jampridet inritw Ditii, et iontilis annoe
Demoior} ex qoo me divijbn pater alqne hominum rei
Fohninit aflarit ▼entis, et contigift igni.
Ivi.
** k chi non noto l'incesto di Mirra? Cacciata dal padre andò ella
vagando in Arabia col frutto del suo delitto nel seno 5 finché gli
Dei la convertirono per compassione nella pianta di questo nome.
Venuto il tempo del parto, si apri la corteccia, e coli' aiuto delle
Najadi che fecero la vece di levatrici, ne nacque Adone, amato tanto
da Venere, e cagione fra i posteri di tante superstizioni. Si avverta
per cagione di questa nota che Adone fu pastore ancor esso. Et/ov'
moiUi ov€$ adflumina payit Adonù. Virg., £g. X, 18.
Moiri. Poemeth, 1 1 '^
1^0 NOTE
Pag. i36.
a3 Ecco un altro pastore drudo d'ana Dea. Stava egli dormendo
nella spelonca di Latmo, monte della Caria, quando Diana, lodata
tanto per pregio di castità, lo vide, e ne fu presa d'amore. Cosi En-
dimione fece la vendetta della Ninfa Callisto, maltrattata da quella
Dea per non aver saputo custodire la sua virginità ; e la fece pur
d'Atteone , trasformato da lei in cervo , e lacerato dai propri cani ,
perché ebbe la temerità di mirarla nuda mentre si bagnava nel fonte
di Gargafia.
* Ivi.
H Non è diverso in Omero il talamo di erbe e di fiori che la terra
somministra a Giove , quando si addormenta in braccio a Giunone sul
monte Ida.
Pag. 137.
»& Era alle falde del Parnaso una spelonca che al riferire di Pan-
sania fu sacra primieramente alla Dea Tellure (la stessa che Vesta),
la quale mandava di là i suoi oracolL Vesta cedette poscia il suo tri-
pode a Temide, e Temide ad Apollo quando divenne preside delle Muse.
Ivi.
•6 Si accennano i due più celebrati poemi : la Pietà di Enea, e V Ira
d'Achille.
Ivi.
>7 Esiodo non descrìve altrimenti il loro viaggio all'Olimpo:
Esultando le Dive, e la genlile
Voce foggiando in immortai concento ,
AttESltsì all'Olimpo. ADa divina
D<^1* inni melodia tutta dintorno
Echeggiava la terra; e le domells
Verso il padre affiettando il passo allegro.
Destavano per via grato ad udirsi
Un tripudio di piedi.
Teog. V. 68.
Pag. i38.
^ Platone, che era tutto armonia, si avvisò nei sublimi suoi sogni
di porre in cielo nove Sirene che incessantemente cantavano, e rego-
lavano le sfere a forza di melodia. Queste non erano in sostanza che
le nove Muse sott' altro nome, alle quali attribuiva quel filosofo il
governo dell'universo si morale che fisico. E s'egli avvenne che
bandisse poi i poeti dalla chimerica sua repubblica, ciò fu solamente
per la paura che i poeti, arbitri del cuore umano 5 non turbassero la
tranquilla apatia de' suoi cittadini, ch'egli voleva esenti affatto dalle
passioni. Dal che si conclude che l'ostracismo platonico, lungi dall'essere
un'ignominia per i poeti, è anzi il massimo degli encomj. Mi si per-
doni questa digressione in grazia di un'arte di cui sembra che pochi
conoscano l'importanza e la dignità.
Ivi.
^9 Questa è la costellazione di Capricorno, o sia della capra Amal-
tea , detta olenia perchè nutrita nei prati di Oleno, città dell' Acaja.
Olenium astrum l'appella anche Stazio, Teb. lib. IIJ, y. 25 e altrove.
ALLA MVSOGOmX IJl
PàO. i38.
3o II segno di Capricorno é sempre pioyoso: Naacitur oUma tidus
pluviale capella. Or. Fast. lib.V^ ii3. Quantus^ ab occtuu uenieru^ pluvia"
libua HtHUs, ferberai imber hwnum, Virg. En. 9 lib. IX, y. 668, G6gMfec
OUniis manani tot cornibut imbres. Stazio, Teb. lib. VI, v. 4^3*
Ivi.
3> Dae sono, secondo i Mitologi, le porte del cielo, situate ana nel
tropico del Capricorno, l'altra in quello del Cancro. Per la prima le
anime ascendono in cielo, per la seconda discendono in terra. Perciò
quella chiamasi degli Dei , questa degli uomini. Ne parla Macrobio
nei Saturnali , e pia eruditamente Dupuis , Origine de tou» le$ cuUes.
Ivi.
3a Tre erano dapprima le Ore , Eunomia , Dice , Irene. La più an*
Uca Mitologia le fa portinaje del cielo, in cui introducono a lor pia-
cimento la nebbia e la serenità; Omero, II. lib. V. Posteriormente
divennero ancelle del Sole, a cui apparecchiavano il carro e i cavalli.
Jungere equos Titan uelocibus impetra Horis, Or, Met lib. II, 11 8«
Altri ne contavano nove, altri dieci, come tornano a far adesso i Fran-
cesi. Sette ne ha poste Guido intorno al carro del Sole ncll' Aurora di
Rospigliosi 4 e fino a ventiquattro le ha portate il Marini:
Dodici bruM e dodici Termiglie.
Ivi.
33 II titolo di reine è comune presso i poeti a tutte le Dee di pri-
mo ordine. Beine son chiamate espressamente le Muse negl'Inni orfici;
e regina Calliope disse Orazio e come Musa e come la prima.
Pag. iSg.
34 De' primi sei versi di quest'ottava renderà ragione Ovidio, Met.
lib. ìf 168:
Eit Tia suUimis colo manifesta senno :
Lattea nomen habet, candore notabilis ipoo.
dextra laevaque deorum
Atria noKilinm Talvis celebrantor aperti*.
Plebe habitat diverta locU.
Dei quattro seguenti renderà ragione Stazio, Teb. lib. I, descrivendo
ì Ntimi che vanno in folla a consiglio:
mox turba ▼agonim
Semideùm, et summis cognati Nubibns Amnes,
Et compressa meta tervantes mormura Venti.
£ rendere io ragione adesso perchè Stazio ed Ovidio abbiano intro-
dotte in cielo queste deità vagabonde e plebee; e commentando i due
poeti latini, avr^ difeso me stesso. Erano varie presso gli antichi le
specie degli Dei. Perocché altri possedevano la pienezza della divi-
nità ^ e chiamavansi Dei massimi; altri la possedevano imperfetta, e
questa appellavasi la plebe degli Dei , come i Venti , le Nebbie , i
Piami, ec. Quanto alla divinità delle Nuvole e delle Nebbie, può ve-
] ya MOTE
deni la derisione con coi le tratU Aristofane; sebbene negl'Inni or^
fici siano invocate con tutta la serietà come Dee. Quanto a quella
dei Turbini e delle Tempeste, odasi Cicerone (lib. Ili Ih Noè, Deor.)i
Quod si nubes retuleris in Deoi, refòrendof certe erunt tempeetateSs
qum populi romani rkìbui consecrajut sunt. Ergo imbres, procellm, ficr-
bines sunt dU puuutdL Qie per tali si avessero realmente , lo racco-
gliamo in primo luogo dallo stesso Ovidio tiel VI dei Fasti , v. 198:
Te quoque, tempeitas, mmUim delubra firtemm,
Cnm pene eit Conif obruU dasiis aqoii.
Lo raccogliamo da Virgilio, quando Enea nel lib. Ili sagrìfica n^rtmi
Hyemi pecudem, e nel V nuovamente Tempestaiibus agnam. Lo racco-
gliamo da Orario neiP ode X Epod. libidinosus immolabitur caper ^ Et
agna Tempestatibus, E finalmente lo raccogliamo da una buffonerìa del
citato Aristofane nelle Mane, facendo dire a Bacco: Un' agnellai presto
un* ugnella nera^ o ragazzi, perchè un turbine di parole minaccia di
scoppiare. Mi sono diffuso alquanto su questo, passo per quietare i
timori d' un critico a cui pareva che mi fossi abbandonato troppo al
capriccio*
Pào. 139.
35 Giove per dare ad Ercole ancor bambino l'immortalità, lo ap-
pressò un giorno alla poppa di Giunone mentre dormiva. Svegliatasi
la Dea, e respinto da sé il fanciullo, venne a spargersi il divino latte
parte pel cielo, e fece la via che adesso si chiama lattea ; parte sopra
la terra, e diede la bianchezza ai gìgli che prima erano di color cro-
ceo. Vogliono alcuni che non Giove, ma Pallade facesse quell' inganno
a Giunone, e Natale Conti cita un verso di Licofrone in soccorso di
questo parere. Del resto a tutti è noto presentemente che la via lat-
tea altro non è che un aggregato di Soli cosi numerosi, che Herschel
nelle ultime sue osservazioni asserisce averne distintamente notati
oltre cinquanta mila nel solo arco di i5 gradi; non computandone un
numero molto maggiore che il suo gran telescopio debolmente rac-
colse, e l'occhio non potè fissare.
IVL
36 Era frequente fra gli Dei il costume dei doni in contrassegno di
particolare benevolenza. L'osserviamo nelle nozze di Tetide con Pe*
leo , in quelle d' Ermìone con Cadmo , e nella prima comparsa che
fece in cielo Pandora. Rende poi convenienti i doni che qui si fanno
alle Muse, la consuetudine de' poeti, che danno lor per compagni non
solamente le Grazie, Cupido e Venere, ma Bacco ancora, e Mercurio,
e i Satiri, e lo stesso Ercole, la clava di cui, simbolo di fortezza, di-
venne particolar distintivo di Melpomene, per significare che questa
Musa non prende ad argomento del suo canto che le vicende degli
Eroi. Intese assai bene questo costume il Raffaello de' nostri giorni,
Mengs, quando nel Parnaso di Villa Albani rappresentò Melpomene
colla maschera tragica gettata a guisa di cappello sopra la testa , e
colla destra gravemente appoggiata sopra la clava.
ALLi IfOSOGONlA ir3
é
Pao. i4o.
3? Mereurìo» nato e cresciuto e diTCDOto ladro tutto in mi giorno^
•Tendo troTata il giorno medesimo della sua nascita una testuggine
per caso 5 l'accise, la rotò ben bene, e tanto vi si adoprò intomo ,
che tì congegnò sette corde , e cominciò a suonarle con maestria ;
questa fu l'inTenàone della lira. Altri la narrano diversamente; ma
tutti ne concedono l' onore a Mercurio » il quale la cedette poscia ad
ApoUo in cambio del caduceo.
Ivi.
3B La sciensa dell' avvenire era singolarmente propria d'Apollo, i cui
oracoli superarono tutti gli altri.
Ivi.
39 Pilo i Greci, SuatUla e Suada ì Latini appellarono la Dea del-
l'eloqnenaa. Plutarco ci fa noto che presiedeva alle none, e lo con-
ferma Fumuto, avvisando che Venere, oltre le Grazie e Mercurio ,
veniva accompagnata anche da Suada, perchè questa Dea persuadeva
gli amanti coli' incanto dell'eloquenza. Né stimo che la pensi diversa-
mente Orazio quando ironicamente enumera i privilegi deUa rìochesia
(Lib. I, £p. VI, V. 36.):
£t glMM et lOnMBI NigìllB p6I.HUÌa OQMt,
Et boM rnimmatmn deooni Snadéla, Yaaiii^.
Ivi.
40 In tutta la seguente poetica dottrina sulla generazione delle
cooe non mi sono dipartito punto dalle traode d' Esiodo nella Teo»
gonia.
4> Allude a questo pensiero anche l'inno d'Onomacrito ad AmorCj
attribuendogli le chiavi dell'aria , del mare e della terra.
Ivi.
4« Platone nel Convito , ragionando sulla sentenza d' Esiodo, con-
clude che Amore é il più antico, il più onorato, il più degno di tutti
gli Dei* Ebbe in vista l'Amore del poeta , greco anche Virgilio in
quel verso (Geoi^. IV, 347 ):
Alfigne Cbso daoM* Diviim niunonbat amom.
E vi alluse più chiaramente Aristofane negli Uccelli ^ quando disse
che non ebbe esistenza alcun Dio atfantì che Amore ordinasse e fecon*
dasse tutte le cose.
Pàg. i4i*
43 Luce più dia, spera più dia, region più dia usò Dante, C. x4,
a5, a6 del Paradiso. E dias luminis auras disse Lucrezio, lib. I, v. aa,
e altrove dia pabuìa, dia otia.
Ivi.
44 Omero parla sempre del mare come d'un fiume, e assolutamente
fiume lo chiama nel penultimo verso dell' XI dell' Odbsea. Adottò
questa espressione anche il principe della poesia latina quando disse
Oceani spretos pede rtpulit amnes nei quarto delle Georgiche. E Serse
in Erodoto , lib VII , lagnandosi del mare , non lo chiama con altro
titolo che di Jiunw amaro e fallace.
174 ''o™
Pag. i4y.
45 NessiuMi idea più vera e più ripetata di quatta nei poeti greci e
latini. Qaindi l' opinione che V Oceano fosse generatore di tutte le
cose: la qoal sentenza Omerica riscaldando la testa di Talete, par-
tori il sistema di quel Glosofo, riprodotto poi in iscena a* di nostri.
Oli pon mente alle idee degli antichi intelletti» le trova spesso rinate
e syUnppate sott' altro aspetto nei cervelli moderni ; e neiramictzia e
inimicizia dei corpi d'Empedocle è facile ravvisare il sistema delPat*
trazione.
Ivi.
46 Bisogna non confondere ( come firn molti ) Teti moglie dell'Ocea*
no colla Teti Nereide moglie di Peleo e nipote della prima.
Ivi.
4? La ragione di attribuir le coma di toro ai fiumi si ha nello Scoliaste
di Sofocle.» il quale dice che rappresentansi i fiumi col capo taurino
per significare il muggito con cui sboccano nel mare. Perciò Virgilio
nel IV della Georgica» v. 371: Et gemina auìxmu taurino comua
vuku EridanMj e taurifbmùt vob^itur Atfidus^ Oraz., lib. IV, od. f4-
Ghe anzi Omero paragona il muggito dello stesso mare a quello del
toro» qd Euripide nell'Oreste gliene attribuisce immediatamente la
testa chiamandolo Taitrocrano,
Ivi.
48 Altre sono le Nereidi, altre le Oceanidi. Qui parlasi delle se*
conde » che erano tre mila » secondo Esiodo » laddove le prime non
erano che cinquanta. Si attribubce loro la cognizione dei fenomeni
della natura» perchè ordinariamente lo stesso lor nome esprime una
qualità fisica. Dicast altrettanto delle Nereidi.
Pào. 143.
49 Verdi» perchè algosi» o perchè imitanti il colore dell'acqua ma-
rina che si risolve in un verde cupo. Perciò Ovidio nel secondo della
sua Arte» v. 93 : Clauserunt uirides óra loquenUs aqua; e precisamente
nello slesso mio caso Glaudiano {DeteruCons, Honorii, v. 197) : Fobis Ionia
virides Neptunus in alga Nutrii eguos. Né in altro significato debbeai
intendere il uirideM Nereidum cornai di Orazio» e il viride» capillos di
Aretusa in Ovidio» il quale nella seconda elegia del primo dei Malin-
conici chiamò espressamente verdi gli Dei marini : vùridesque Dei^ qui'-
bus aquora cura.
Alipedi poi o vogliasi prendere per positivo» ovvero per metaforico
a indicare velocità» l'epiteto è conveniente nell'uno e nell'altro senso;
perocché realmente» quanto al primo» i cavalli marini si rappresen-
tano colle zampe che terminano in cartilagini alate» come quelle degli
uccelli acquatici \ e quanto al secondo » abbiamo l' autorità di Virgi-
lio» En.» lib. XII» 484'* AUpedumque fugant cursu Untava equorum ^
abbiam quella di Catullo» ObtuUt Arsinoes Chloridos alea equus , e
quella finalmente di Lucrezio che» nel lib. VI»v. 766» dà Pepitelo di
alipedi ai cervi. Che anzi Valerio Fiacco non ha dubitato di darlo fino
ad un carro (Arg. V» 61 a): alipedi pulsantem corpora curriu
AXXA miSOGONIA ìjS
Pag. i4a«
S» Filone^ ditpnUndose il mondo sia eterno o no, lo chiama barn»
Amo, e Apnlejo pubere. Meglio di tutti Virgilio:
ut bis exordia priinti
Oumia, ai ^ise tener mondi eoaaewrìl Orint,
Ed. VI» 33.
Ivi.
Si Anche negl'Inni orfici il seno della Terra è detto prolòiido; e
largo in Esiodo : V ano e 1' altro per indicare la pienena della ana
lèconditk. «
Iti.
S* La ragione dello sdegno della Terra contro Urano ano marito, e
le disoneste sue conseguense si possono Tcdere in Esiodo, v. i84 •
aegnenti.
Pàg. 143.
53 tnm putn Tena nefimdo
CvBBHjne^ Jipetmn^oe OMSty mitubm|M Ty|iBafty
Et eoiijuniM toBun raondera iratw»
Virff, G9org.f ÌA, A 278.
Iti.
54 Espressione d'Orazio applicata appunto ai Titani^ lib. Ili, ode ii
Magnnm Ola temnem Intnletit loti
FidMu iaventot honrida Imcliliii
e Telluris juvenes appellò pure in altro luogo i giganti. Titanùt puhu
11 chiama Virgilio, e corrisponde al modo Oraziano perfettamente.
Ivi.
55 Discordano i poeti nelL' assegnare a Vulcano la sua fucina; pe-
rocché altri la pongono nelle ìsole denominate Eolie, la maggior delle
quali è Lipari; altri sotto l'Etna, altri in Lenno, altri nelPEubea. O-
mero la pone in cielo; per la qual cosa si tira addosso le contumelie
dello Scaligero. Io mi sono attenuto a Virgilio, di cui non so saziar»
mi di riportare i Tersi sempre divini:
Insula Sicaniom juxta latos JEoliamqno
Erigitnr Liparen fumantibui ardua Muds;
Quam subter ^mscus, et Cydopum ezesa caminìs
AnUa BUiea tonanti valldiqoe incndlbnj ictus
Auditi referunt gemitum , stri««untque cavrmis
Strictuns chaljbnm, et fbniadbtts ignis anhelat ;
TulcaDÌ domos, et Vukania nomine tellns.
jBk. nn, 416.
Iti.
56 Ho presa tutta dal maestro Virgilio la formatone di questi fui*
mini. Eccone i Tersi, Eneide lib. Vili, 4^9:
Tres imbris torti radios, tres nulns aqnoMB
Addidonnt; rutili tra ignis, et alitis austri.
La precisione di questi due Tersi è ammirabile, se non che pare che
manchi il quarto tres innanzi vXV alitis austri. La copia ch'io n'ho
tratta, è ben lontana dalla bellezza dell'originale: tuttaTolta credo non
I 76 NOTE
averla pregiadicata coli' aggian^rvi le ali nel mezzo: il che ho fatto
sulla £ede di aottco moDumento rìporUto nei commenti dell' eruditis-
simo La Gerda.
Pàg. 143.
s? Segue sempre Virgilio^ En. VIII^ iZi:
Fulgores nn^ texrifioof , ■oniUnnqne meiamque
AlUoefauit operi, flammisqne sequacibas iras.
Quale ardimento di poesia assoggettare alla potenza £di>brile il lampo,
lo strepito, la paura, lo sdegno, e impastarli, fonderli, fabbricarli oo«
me materia! E se questVopera può parere alle timide menti esagerata
pur nelle mani di artefici divini, siccome appunto i Ciclopi, che sarà
nelle mani di Lisippo, di cui dicesi in antico epigramma, che incar-
nava nel bronzo e nel marmo il dolore, la rabbia, la compassione?
Alla fucina poetica, in cui la splendida immaginazione di Virgilio
ha saputo con chimica maravigliosa stemprare, dirò cosi , nei fulmini
il fracasso , V ira , il terrore , alla stessa fucina aveva Omero già fab-
bricato con ingredienti molto diversi il famoso Cinto di Venere, com-
ponendolo tutto di lusinghe, di desideri, di care parole e di quanto
v'ha di pia dolce in amore. Venne in seguito il Tasso (Ger. Liber. ,
e. XVI , st 25 ) eh' ebbe bisogno di fame uno consimile per Armida,
e sai disegno Omerico raffinò il suo layoro nella seguente maniera :
Teneri sdegni, e placide e traoMjnille
Repulse, cari vessi , e liele paci ,
Sorrisi, pardette, e dolci stille
Di pianto, e sospir tronchi, e molli baci :
Fuse lai cose tulle , e poscia unìDe,
Ed al foco temprò di lente uà %
E ne formò quel d mirabil cinto.
Di eh' eDa avera il bel fianco snccinto.
Non voglio partire da questa nota senza avvisare i dilettanti di
questi Cinti amatorii, che un altro ne sta in mostra nelle Dionisiache,
in occasione di nn congresso maritale tra Giove e Giunone , copiato
interamente da Omero, ma col solito lusso Panopolitano.
Pàg. i44*
58 Leggasi la descrizione che ci dk Esiodo di questa battaglia nella
Teogonia, dal verso 678 fino al verso 810. Si ravviserà in quello squar-
cio divino di poesia che V immaginazione del poeta di Ascra sapeva
riscaldarsi e sublimarsi quanto quella d' Omero. Chi poi bramasse ve-
dere fin dove in soggetto fertile può arrivare l' intemperanza d* ana
fantasia non castigata, legga Claudiano nella Gigantomachia.
Ivk
59 Ter Bunt conati impooere Pelio Osom,
Scilicèt, atque 0$am frondoram involvere Olympum^
Ter pater exstractos disjadt folmine montes.
Viao. Geor. A, aSl.
Quanto siano licenziosi i poeti nel trattare le stesse materie, si può
conoscere dalla sustruzione di questi tre monti famosi, di cui Greci
e Latini parlarono perpetuamente. Omero nell' undccimo dell'Odissea
ALLA MUSOGONIA I77
si «llonUDa affatto dalP ordine Virgiliano^ ponendo Ossa sopra Olimpo,
e Pelio sopra Ossa. Oridio nel primo dei Fasti 9 Orazio nell'ode
quarta del tenoj Seneca nel Furente e nell'Agamennone li sovvertono
anch'essi a capriccio. In mezzo a tanta licenza io ho tenuto l'ordine
che la rima ha yolnto.
Pàc. i44*
€0 Esiodo dice che il gigante Aoraone impiegò nove giorni nel ca-
dere dal cielo in terra, ed altrettanti dalla terra nel Tartaro. Ho
imitata la disci«zione di Milton , il quale non fa perdere ai diavoli
più di nove giorni nel precipitare dal Paradiso all'Inferno, ed ho
sfuggita la troppa fretta d' Omero , che nello spazio d' un giorno solo
fa cader Vulcano dall' Olimpo nell' isola di Lenno, allorché Giove in
un certo momento di stizza lo arrandeilo per un piede fuori del
cielo. Fu allora che il dbgraziato rimase zoppo.
Pao. 145.
61 Tale è il sentimento d'Esiodo, Teog. v. 730} tale ancorTqncUo
di Omero nell'ottavo dell'Iliade; ma non tale quello di Virgilio , se-
condo cui il Tartaro
Bis patet ÌD pnMflps tantum, tenditqoe lub umlms
Qnuittts ad «thereom cali suspectoi Olympam.
Si. fi, 578.
Ivi.
€« Mi fa scorta Esiodo, il quale vuole che Nettuno abbia messe
queste porte di ferro all'ingresso del Tartaro non per altro^ cred'io,
che per dinotare la profondità delle acque che investono il centro
della terra.
Ivi.
^ Esiodo racconta tutta al contrario l'avventura di questi tre Ccn«
timani. Egli li fa partigiani di Giove contro i Titani, e li pone nel
Tartaro a custodia soltanto dei condannati. Anche Omero nel primo
dell'Iliade ci descrive Briareo come difensore dello stesso Giove in
occasione di certa congiura contro il re degli Dei. Io ho aderito al
volgo degli altri poeti per non confondere maggiormente la testa de'
miei lettori.
Ivi.
^4 È incredibile la dissonanza delle favole sul conto di Encelado e
di Tifeo. I poeti tanto greci che latini cacciano ora l' uno ora l'altro
sotto l'Etna. Per Tifeo sta Eschilo ^ Pindaro, Esiodo, Nonnio, Ovi-
dio e Valerio Fiacco; per Encelado sta Callimaco, Orfeo, Oppiano,
Q. Calabro^ Virgilio, Lucano e Sidonio. L'Ariosto seppellisce il primo
sotto l'isola d'Ischia, appellandola
lo scoglio che a Tifeo à stende
Sulle Imocìa , sul petto e sulla panda.
Seppellisce il secondo sotto il Mongibello,
Là dove calca la montagna Etnea
Al fulminato Encelado le spalle.
178 VOTE
In tanta diMffepanta di opinioni io mi tono pietà la libertà di dare
ad ambcdae un solo aepolcro « un solo oaatigo^ rorcaeiando sopra di
oasi €oU'a|ato di Ovidio tutta l'isola di Sicilia. Eooo i suoi Tersi nel
V delle Metamorfosi, y. 345« di cui mi sono gìorato, temperandoli con
quelli di Virgilio:
Vuls giganteis iiqecte «t iaaàà menfccM
Trinaoii, K m^M MèiteUiiD «Uoi wgrt
Nitìtiir (Da qoàden, pngutqiie Rnaigen a«pe>
Deitn aed Antonio nunns est «ulijecui Pdoco i
Itmn, Packjiie, ULi; Lflybao cnuni pwamnlnr;
Degrarat JEdu opat | sub qua resupiuns arenas
Ejectat, flammamque (èro vomit ore Thyjhaau.
Non posso contenermi dal riportare anche il pasto di Virgilio, per-
chè il lettore giadichi della lor differenxa, che mi sembra molto sen-
sibile e per l'economia dei pen«ieri, e per la scelta delle parole, e
per l'ammirabile meccanismo dei Tersi:
Fama eit, Enodadfi ■wiìinttiini fuluùaa empuf
tJigan noia liae» ingontarnijiia imi^par nteauk
Inpotitai n^cif 6aminam «npiran cmiaia}
Et, ftnom quotiea mutat lalna, iatmiMn onmera
Murmure Trinacriam, et cobIubi fubteiere fumo.
JBt. I/I, 578.
Pac. 145.
65 Fa questo il campo di battaglia che diede fine alla gaerra tra
Giove e i Titani, la quale era durata dieci anni. È situato nella Ma-
cedonia, e si serre alla poesia dicendo che ivi la campagna e l'aria
sono ancora calde e fumanti, perchè Flegra significa foco.
Ivi.
60 Anche in Creta fu balzato non so qual gigante dall'impeto dei
fulmini; e appellasi dùnna quest'isola per l'educazione che T'ebbe
GioTC dai Goribanti: per lo che fu detta sua cuna.
Pao. i46.
67 Si denominarono campi Flegrei anche i Campani, ov'era il Foro
di Vulcano Ticino a Pozzuoli e alla palude detta Achenuia. Ne fanno
testimonianza Plinio, Silio e Strabone, di cui traduco qui le parole:
ai quali luo^ attribuiscono parimente i poeti la pugna dei giganti con
gli Deij peróhè abbondano di zolfo e di foco. Quindi Properzio par- •
landò della spiaggia Campana (Lib. I, El. XX, v. 9):
Sire gigantea ^atiabeie litorU ora.
E precisamente in Silio phlegrmus vertex è la fiamma che sbocca dal
Vesuvio.
Ivi.
68 E veramente tutti gli Dei ebbero una gran faccenda in quella
giornata, ed ognuno segnalò il suo valore. Nettuno mise a morte Po-
libote, lanciandogli addosso un' isolar dell'Egeo mentre fuggiva; Diana
ed Apollo disfecero Oto ed Efialto, figli di Alceo; Ercole, Porfirionc
mentre violava Giunone. Io non ho accennati che questi. Quanto alle
ALLA MUSOGONIÀ I79
prodezze degli altri Numi, Merenrio accise Ippolito; Marte, Mimantej
le Parche, Agno e Teone; Ecate, Gliiio; Minenra, Eneelado^ Fallante
e Alcioneo ; e Gìoto il resto. Anche le Ore ebbero parte nella gloria
comone ; perocché furono eB$e che corsero a svegliare gli Dei per
tutto l'Olimpo, acciò si armassero e non perdessero tempo ^ perchè i
Giganti erano già alle porte del delo.
Pao. i47«
H Che Pallade andasse anch' ella con cavalli a battaglia, P accenna
Pindaro nell'Olimpica XIII, Sofocle nell'Edipo Coloneo^ y. iiaft « ce
ne assicura Pausania, asserendo che esisteva un' ara in Atene dedicata
a Pallade equestre. Ma ninno lo dice più espressamente di Callimaco
nel Lavacro di Pallade. Ne riporterò V intero passo da me imitato ,
servendomi della traduzione del Ghecozzi, che parmi superiore a quella
del Poliziano:
Foctit non PsUm peifiindet moulm prinaqoam
Coeno loidsBtfls tenerit «Upedoi.
Tnm quoque cnm bello «ìecedent nCalit amui
Tinjne dinrom onguine Tenrigenain,
Famsntei prìnunn soItìI tiimifntt ìngalftì,
AUnil et msgm fiMtibnt OoaMii
PulTereiun snaomn*
Ivi.
70 Non altrimenti veggiamo nel citato Callimaco le ninfe Amnisiadi
sciogliere dal carro di Diana le cerve, e dar loro mangiare in abbon-
danza il trifoglio mietuto nei ptnti di Giunone j erba (soggiunge il
poeta ) di cui si pascono anche i cavalU di Giove, Aggiungerò, che il
trifoglio non è celebre soltanto nelle stalle dei numi, ma nei libri
ancora di Plinio, il quale dopo il citiso gli accorda il principato fra
le erbe pratensi; e in Columella, che gli attribuisce molta virtù me*
dica, e una si facile produzione, che quattro e talora sei volte Tanno
si miete.
Ivi.-
7* Correva lama incielo che niuno de' Giganti sarebbe rimasto per-
dente, se Giove non prendeva in aiuto il braccio di qualche mortale.
Giove allora per consiglio di Pallade chiamò in soccorso Ercole, che
fa il primo a menar le mani e a fissar la vittoria.
Ivi.
7* Il piede de' Giganti finiva in serpente. Vaglia fra mille la testi-
monianza d'Ovidio nel quinto dei Fasti, v. S5:
T«m feroi peitui, manmia monitn, gìguitai
Edidit, aiunros in Jovù ire domum.
MìHs manm iHis dedii, et pro cruiibas angue*.
óve notisi il milU manus, nnmero indeterminato di moltitudine, che
panni non potere star in luogo di eentum, nomerò detenninato dalla favola.
Pào. i48.
73 Callimaco dà per assistente al soglio di Giove la I\obustezza;
Orfeo la Giustizia, per testimonianza di Demostene nell'orazione se-
conda contro Arìstogitone; ed Eschilo l'una e l'altra nelle Coefore.
l8o NOTB ALLi MUSOGONIi.
Pio. i48.
74 Monte d'Arcadia, sulla cima del quale Rea partorì Giove dentro
una spelonca, donde poi il mandò segretamente in Creta raccoman-
dato alla cura de'Coribanti e delle Ninfe Melie. Pansania negli Ar-
cadi parla di questa spelonca, e ci significa ch'ella era a tutti inac-
cessa, fuorché alle sacerdotesse di quella Dea. Sul contrasto de'Mito-
logifse Giove sia nato in Creta piuttosto che in Arcadia, Callimaco
decide la lite sul principio dell'inno a quel Dio. I saoi versi, non so
se bene o male tradotti, sono i seguenti:
Ma qual chiamarlo ne' miei carmi or deggio T
Ditteo forse , o Liceo T Dohliio e il pensiero ;
Chfc la tua patria^ o Giove, e di gran lite
Fra noi niUàetto. Peroodiè te nato
Firtiman altri anll'Uea monti^na,
Abn in Arcadia. Or dà mentiioe, o padre T
Certo il Cretenae, ognor bugiardo. Egli alto
Un sepolcro t* eresse, e tn sei vivo ,
E immortalmente ttvo. Adunque Rea
Te sol Panatio partorì ft dova
Sorge più denso d'ariiosodli il monta.
Si badi di non confondere Ida di Creta con Ida di Troja.
Ivi.
7^ Vicino a Dodona, città dell'Epiro, sorgeva una gran selva di
querce dedicate a Giove, di cui rendevano in voce umana gli oracoli.
L'albero della nave Argo fu costruito con una di queste querce; per
la qaal cosa la nave divenne anch'essa fatidica. Ciò fece dire a Lieo-
frone che gli Argonauti erano stati portati per mare da una garrula
pica. Chi più ne vuol sull'oracolo dodoneo, legga la nota delio Span-
hemio al verso a84 dell'inno di Callimaco a Delo.
Ivi.
76 Era celebre nei deserti della Libia l'oracolo di Giove Ammone,
le cui risposte erano sempre di doppio senso. L'orìgine di questo
culto si ha nel comento di Servio Gramatico al v. 198 del IV del-
l' Eneide.
Ivi.
77 Ad ogni passo dell' Iliade si fa menzione del monte Ida immi-
nente a Troja, sulla cima del quale, denominata Gewgaro, Giove era
solito di ritirarsi a rìposo, circondato di nebbie e di tenebre.
Ivi.
7^ Elide città del Peloponneso, celebre pe'snol certami in onore di
Giove Olimpico. Vi si segnalavano con gli atleti anche i poeti.
Ivi.
79 Cioè il canto di Pindaro nativo di Tebe e prìncipe dei Lirìd
greci, di cui abbiamo quattordici Ode sopra i detti certami.
Ivi.
^ Rappresentasi Giove frequentemente coli' aquila sulla sommità
dello scettro; e un bastone d'avorìo parìmente coli' aquila sulla cima
portavano i Romani quando entravano trìonfanti.
IL
PROMETEO
BloHTi. Poemetti, l'k
t
At CITTADINO
NAPOLEONE BONAPARTE
COMANDANTS SUPAKMO
DELL'ARMATA D'ITALIA
Al più maraYlgIio90 Guerriero della storia moderna
presentasi il più Celebre personaggio del? antica Mito«
logia. Piacciavi, Cittadino Generale, di accoglierlo cor-
tesemente, e scorgerete che le virtù delP infelice Pro«
meteo appartengono a quelle del fortunato Bonàpàktb
per molti riguardi. Zelatore ardentissimo delPindipen*
denza del Cielo, da cui traeva l'origine, egli combattè
lungamente, e con valore e con senno, contro il despo-
ti$mo di Giove, e divenne co' liberi suoi sentimenti il
flagello perpetuo dei congiurati aristocrati dell'Olimpo.
Voi avete fatto altrettanto co' Despoti della terra; e in
ciò solo vi siete mostrato dissimile da Prometeo , eh' egli
fii perdente, e Voi vincitore. Per consiglio di Temide,
e coli' aiuto di Pallade infuse egli nell'uomo il foco del
Cielo; e Voi infondete nelle Nazioni il foco della liberti,
adempiendo gli alti e generosi disegni del primo Go-
verno dell'Universo. Beneficò egli il genere umano se-
polto da Giove nelle miserie per la funesta dote di
Pandora; e Voi beneficate i popoli sommersi nel fango
della schiavitù, restituendoli ai naturali loro diritti, e
i84
obbligando col bràccio delle vostre legioni invincibili gli
ostinati vostri nemici a lasciar in pace la terra abba-
stanza coperta di sangue, di lagi;juAe e di delitti. Conciti-
segnatnento delle arti, della sapienza e della giustizia
egli fu il rigeneratore degli uomini^ ^ Voi lo siete della
più bella parte d^ Europa, con dettarle delle provvide
leggi, ed infiammarla dei sublimi sentimenti di libertà
colla grande emanazione del vostro genio e dei profondi
vostri pensieri. Per lui insomma rinacque la natura a nuova
vita^ e per Voi rinasciamo noi pure ad una nuova morale,
ricuperando la perduta nostra ragione. Sia dunque Pro-
meteo il vostro amico, come Voi siete il suo emoloj e non
vi stupite se egli, che fìx il primo e il più veggente di tutti
i profeti , ha contemplato fira le tenebre dell' avvenire le
ammirabili vostre imprese, e ne ha parlato sovente con
compiacenza trecento secoli prima che succedessero.
Cesserà di parervi strano un tal vaticinio, quando sa-
prete (e potete saperlo subito da Callimaco) che Apollo
medesimo, rinchiuso ancora nell^utero di L&tona, predisse
la futura grandezza di quel Tolomeo che per V eccel-
lenza delle sue virtù potè meritare fra gli uomini il bel
cognome di Filadelfo, cognome che più giustamente a
Voi si darebbe.
Tacciasi dunque dinanzi a Voi per istupore la Tetra,
come tacque una volta dinanzi al Macedone^ ma non si
tolga alle Muse P antichissimo privilegio di parlare a
lor senno de' vostri pari. Ricordatevi che queste Dee
sono state sempre le amiche de' bravi soldati; che esse
godono di confondere i loro cantici collo strepito del-
le armi; e che gli Eroi non sono mai comparsi sì glo-
riosi, che allor quando gli hanno celebrati i poeti.
PREFAZIONE
NON INUTILE
La Mitologìa ci offre in Prometeo il pia interessante
personaggio che mai esercitasse, pe'suoi rapporti morali
e politici, FinteUetto de^ filosofi e l'immaginazione de'
poeti. Ma tante sono e sì diverse e sconnesse le maraviglie
che di lui si raccontano, che volendo noi trattarne TargO'*
mento in poema , sarà pregio dell' opera il riunire a mag-
gior comodo di chi legge le molte e disperse fila di questa
tela.
Giapeto figlio del Tartaro e della Terra, e capo della ri-
voluzione dei Titani contro Giove usurpatore del cielo,
fa padre di trenta figli, quattro dei quali acquistarono sopra
gli altri celebrità , Prometeo, Epimeteo, Atlante e Menezio.
Essendo rimasti in quella impresa infelice soggiogati i Ti-
tani, furono essi dal vincitore parte condannati nel tartaro,
e parte dispersi sopra la terra. Prometeo, che fu di questi
ultimi, si rifugiò sopra il Caucaso, ove, essendo sapientis-
simo, si applicò tutto alla contemplazione della natura, per
consolarsi colla dolcezza di questi studi delle triste vicende
di sua famiglia. Lo stupido ed insensato Epimeteo suo fra-
ìdìo era in sua compagnia.
Yiveano gli uomini in quel tempo una vita aSisitto sel-
vaggia, perchè privi ancora della ragione. Giove divenuto
col terrore de' suoi fulmini assoluto padrone del cielo e
dell' universo , mal sopportando di non essere conosciuto
i86
ancora e adorato fra gli nomini, risolvette , per soddisfare
alb sua ambizione, di rivelarsi al genere umano, e di mi-
gliorarne nel tempo stesso la condizione unitamente a quella
de' bruti. Spedì dunque sulla terra Mercurio con una abbon-
dante dovizia di spirituali e corporali prerogative, e colFor-
dine a Prometeo di ripartirle con senuo fra gli uomini e i
bruti. Scaltro, com' era, ricusò egli fermamente questa diffi-
cile incombenza; ma ne prese in sua vece l'incarico lo stolto
Epimeteo. Diede egli dunque principio alla sua incanta di-
stribuzione; e cominaando dai bruti, fu si prodigo coi me-
desimi, che in ultimo presentatosi l'uomo per ricevere
anch'esso la sua porzione, trovò che tutto era stato già dato.
Accortosi allora Epimeteo del suo errore , che lasciava la
condizione dell' uomo inferiore d'assai a quella del bruto,
ebbe ricorso al fratello, perchè emendasse col suo sapere una
tanta mancanza. Promise egli di farlo, e si recò nella Gre-
cia per eseguire il suo alto disegno. Arrivato nella Focide,
si consigliò primieramente con Temide, da cui era stato
erudito, anche prima delle guerre celesti, nella scienza de'va-
ticinj, e che stabilita aveva fin d' allora in una spelonca del
Parnaso la sede de' suoi oracoli, de' quali si mantenne grande
la fama fino ai tempi di Deucalione. Istruito da questa Dea
pose mano al lavoro; e presa la creta del Parnaso (essen-
do questa la più sacra, e la sola che fosse degna di essere
impiegata in quella grand' opera ), formò con mirabile ma-
gistero un novello umano sistema, scegliendo da ciascun
animale una particella del loro temperamento e carattere ; e
fattane una ben purgata mistura , Y infuse tutta nella sua
macchina; con che venne a riunire in un solo individuo
tutte le perfezioni della natura. Restavagli di dare al suo
uomo un' anima immortale: e Minerva venne opportuna al
bisogno. Rapita ella di maraviglia alla vista di si bell'opera,
profferse a Prometeo la sua assistenza in tutto che potesse
contribuire a renderla più perfetta; ed egli allora, per farsi
ancor piò benevola quella Dea, le rivelò una sua antica
i87
benemerenta, la quale acquistavagU tutto il diritto alia rico-
noscenza della medesima. Perocché quando Giove , avendo
il cervello gravido di Minerva, implorava Y aiuto degli Dei
perchè pure Io liberassero da quel peso, non fu Vulcano,
siccome venne poi divulgato, ma Prometeo che gli aprì il
capo con un colpo di saire, e ne fece saltar fuori la Dea
con lutte le armi sulla persona. Riconoscendo dunque Mi-
nerva in Prometeo il principale autore del suo nascimento,
ed aggiugnendo alla benevolenza la gratitudine, lo portò
segretamente a di lui inchiesta nel cielo. Accostatosi egli al
carro del Sole, ne toccò di furto le rote con una ferula che
subito infiammossi; ed agitandola con proiftezza perchè non
venisse ad estinguersi, calò in terra ed animò la sua statua:
in memoria della quale agitazione fu istituito poscia in
Atene il certame dei Lampadiferì. Fu allora ch'ebbe luogo
la curiosa avventura di quel semplice Satiro, che, veduta in
mano di Prometeo la fiammella del foco celeste, invaghito
della medesima, accostò il labbro e la mano per toccarla e
baciarla: al qual atto gridò, ridendo. Prometeo: Guarda,
Satiro, che t'abbruci.
Ricevuta ch'ebbe l'uomo col tocco di quella fiamma Firn-
mortai particella , tanto si sollevò collo spirito al disopra
del bruto, quanto n'era stato prima inferiore. Né contento
Prometeo d' aver redenti gli uomini con questo dono , ag-
giunse al primo moltissimi altri beneficii, insegnando loro
la fisica, la divinazione, l'astronomia, T agricoltura , e tutte
quante le arti.
Sdegnatosi intanto Giove che senza. sua saputa fosse
slato rapito e portato in terra il fuoco celeste, proclamò un
premio a chi avesse scoperto l'autore di questo furto; e gli
uomini, gli stessi uomini da Prometeo tanto beneficati, furono
quelli che l'accusarono: in mercede del qual tradimento Giove
concesse loro la gioventù perpetua. Ma ne fu ben corto il pos-
sesso. Perciocché avendo essi caricato sopra un giumento un
siffatto tesoro, e tornandosene a casa lietissimi, accadde che
i88
il giumento, stimobto dalbsete, p^ssd vicino ad un fonte,
in guardia del quale vegliava un drago. Accostatosi il qua-
drupede per bere, il serpe glielo vieti minacciandolo; ma
condiscese finalmente alle preghiere dell'altro a. questo patto,
che il giumento gli cedesse tutto il carico che portava. Cosi
gli uomini perdettero prestamente il fratto della loro ingra-
titudine, voglio dire la gioventù, della quale poi si rive-
stono ogni anno i serpenti.
G)Dtuttocid vedendo Giove che gli nomini per la subli-
mità del nuovo loro intelletto si approssimavano molto alla
natura divina, e temendo che questi, ad esempio dei Ti-
tapi e dei Giganti, non gli movessero contro una terza guerra
più delle altre ancora pericolosa, conobbe necessario, suUo
stile di tutti i tiranni, di degradare la condizione degli uo-
mini, e punire a un tempo stesso Fautore della loro esal-
tazione. A conseguire il primo di questi fini ordinò a
Vulcano di formare col fango una donna, a cui Minerva
die l'anima, e ogni Dio si affrettò di fare il regalo d'una
qualche prerogativa; per lo che fu chiamata Pandora. Que-
sta dunque abbigliata dalle Grazie e condotta da Mercurio,
fu presentata a Prometeo, perchè la facesse sua moglie, ri-
cevendone in dote un vaso d'oro, dentro cui Giove avea
rinchiusi tutti i mali nascostamente. Rifiutò Prometeo quel
dono, diffidando della mano sospetta da cui veniva. Ma lo
sciocco Epimeteo che aveva rovinato la prima volta il ge-
nere umano colla pessima distribuzione di cui si è già fatta
parola, lo rovinò ancor la seconda, sposando Pandora, e
levando al vaso il coperchio. Ne uscirono tosto tutti i mali
con impeto , i più orrìbili de' quali furono la superstizione
e la guerra, e non rimase in fondo del vaso che la speranza.
Oppressa l'umana natura dal torrente dei disordini fisici e
morali, si ridussero ben presto gli uomini a tale di non
poter più cagionare a Giove verun timore. E soddisfatta
per questo modo la sua gelosia, non rimaneva a quel de-
spota sospettoso e crudele, che contentare la sua vendetta.
i89
Die donque comando a Vulcano di legare Prometeo ad
ima rape della Scizia, stringendogli le mani e i piedi con
catene di ferro, e conficcandogli il petto con un chiodo
grossissìmo di diamante. Stando V infelice Titano in qnel
supplizio, chiamava l'Etere, e i Venti, e i Fiumi, e il Mare,
e la Terra, e il Sole, e tutta la natura in testimonio del-
l'inginslizia di Giove; e venivano a visitarlo le Nereidi,
l'Oceano, ed altri Numi, consolandolo delle sue disawen*
tare, e compiacendosi molto della sapienza ed eloquenza
de' suoi profondi ragionamenti. Vi capitò fra gli altri an-
che la niufa Io, che, trasformata in giovenca e stimolata
dal tafano mandatole da Giunone, andava traversando con
quel tormento al fianco tutti i mari d' Europa , e vagando
senza requie sopra la terra. Mosso Prometeo a compassione
di quella misera, prese a confortarla colla predizione delle
foture di lei vicende; rivelandole che le sue disgrazie avreb-
bono avuto fine quando dopo molti altri errori sarebbe
arrivata in Egitto, ove, ricuperate le prime sembianze, sa-
rebbe stata da quei popoli adorata sotto il nome d'Iside.
Benché tormentato ed oppresso, non depose Prometeo la
fierezza de' suoi nobili sentimenti; e,- lungi dal blandire la
prepotenza del suo persecutore, non fece anzi che inasprirlo
vieppiù, inveendo liberamente contro quella somma ingiu-
stizia; poiché il suo delitto in altro alfine non consisteva
che nell'aver illuminata l' umana ragione.
Giove adunque infuriato di quelle ardite declamazioni ,
infranse a colpi di fulmine lo scoglio , a cui stava affisso
Prometeo, e precipitò lui nel Tartaro, giurando di non trar-
lo di là , se non quando si fosse trovato un Immortale
che si fosse contentato di divenire mortale. Ora essendo
dopo molti secoli accaduto che Chirone, per un eccesso di
dolore cagionatogli da una freccia di Ercole, desiderava la
morte, discese questi nel Tartaro, e rinunziò a Prometeo
la sua immortalità: per. lo che 1' uno e V allro fu liberato
dal suo supplizio. • - ^
Restituito Prometeo alla luce del Sole , non cessarono
tra esso e Giove i privati rancori, e gli accrebbe fortemente
il fatto che ora diremo. Solevano ^ nomini con gran ce-
rimonia e dispendio amministrare i sacrificj divini, e con-
sumare nel foco tutte le vìttime. Inveiva Prometeo contro
quella troppa avidità degli Dei, che rendeva impotenti i
poveri a placarli co' sacrificj, e propose a Giove di prescri-
vere, che parte della vittima si gettasse nel foco, e parte si
ritenesse dal sacrificante per proprio vitto: lo che venne
accordato. Ma volendo inoltre Prometeo far conoscere quanto
fosse immeritevole Giove di que' sacrificj, scannò egli stesso
dne tori, e nascose acconciamente tutte le caroi in una
delle pelli , e tutte le ossa nell' altra: il che fatto, invitò
Giove a prendersi la parte che più voleva.. Ingannato Giove
dell'apparenza, scelse le ossa per sua porzione. Ma accortosi
della beffa, involò per dispetto agli uomini il foco, e lo na-
scose dentro le pietre, acciocché non potendo più essi
cuocere le carni, rimanessero privi di quel modo di sus-
sistenza, e di tutti gli altri vantaggi che sì ritraggono da
questo benefico elemento. Non resse la pazienza di Pro-
meteo a questa nuova ingiustizia, e lasciò tutta la briglia
alle sue parole: finche Giove montato piucchè mai in fu-
rore perchè Prometeo osasse di rinfacciargli il suo torto,
e patrocinare . la causa degl'infelici, lo fece di nuovo affig-
gere non più alla rupe Scitica, ma al Caucaso ; e mandò
un'aquila generata dal concubito di Tifone e d'Echidna
a rodergli il fegato rinascente; giurando di non mai più
srìoglierlo da quello scoglio. Ma ben ebbe a pentirsi poscia
del suo giuramento. Imperdocchè Prometeo, che mai non
dormiva, avendo una notte udito le Parche profferir un
decreto, il quale minacciava Giove del pericolo di restar
privato del trono da un suo proprio figlio , cominciò egli
a spaventarlo con questo vaticinio, senza volerlo mai rive-
lare. Temendo Giove che altri non. facesse a lui ciò ch'egli
aveva fatto a suo padre, si abbassò con Prometeo alle pre-
'9»
ghiere: ma inatilmente; persistendo l'altro nel sao sdensio,
e giurando anch' esso di non voler parlare , se non veniva
prima rimesso nella saa libertà. Non trovavasi mezzo di
conciliare le pretensioni dell' uno e deli' altro , perchè am*
bedne avevano giurato per la palude stigia. Ma Giove fi-
nalmente pensò una furberia, che mise in salvo i reciproci
giuramenti, e fu quella di liberar Prometeo, a patto che si
obbligasse di portar sempre nel dito un anello di fefro,
nel quale fosse inserita una scheggia del Caucaso. Fu ac-
cetlata la condizione : e di là venne fra gli uomini la con-
saetudine degli anelli. Allora fu spedito a quella volta Er-
cole, il quale avendo terminata l' impresa di separare Abi-
ta e Calpe ( che poi furono denominate le colonne di Er-
cole ) per aprire a beneficio de' commercianti la comunica-
zione tra r Oceano e il Mediterraneo y si pose in mare
dentro una grande tazza regalatagli dal Sole; e così navi«
gando giunse al Caucaso, ove sciolse immantinente il no-
stro filosofo da quel patibolo, non prima però d' aver nc-
cifla con un colpo di freccia \ aquila , che il divorava. Della
qiial freccia raccontasi che fosse stata prima scavata da
Apollo nei monti iperborei; che con questa egli trafiggesse
i Ciclopi , per aver fabbricalo il fulmine con che Giove
tolse la vita a Esculapio di lui figlio ; che la medesima
essendosi smarrita, fu dal vento riportata ad Apollo, dalle cui
mani passò in quelle di Ercole e da Ercole finalmente nel Cielo,
ove fu collocata fra le costellazioni. Adempiè intanto Pro-
meteo la sua parola , e rivelò l' oracolo delle Parche , le
quali decretavano che la Nereide Tetide partorir dovesse
un figlio più potente del padre: perlochè Giove, che erasi
di lei invaghito e stava sul punto di divenirne marito, si
astenne da' suoi amplessi; e, fatto il salto di Leucade per
togliersi dal capo quell'amoroso pensiero, la diede in isposa
a Peleo, da cui nacque Achille tanto più forte del genitore.
Benché mal corrisposto, non desìstette Prometeo dal con-
tinuare agli uomini le sue beneficenze, scoprendo ai mede-
192
simi il foco nascosto da Giove dentro le selci, riduamandoli
alle dolcezze della società, ammaestrandoli piucchè prima
nelle arti, nella morale, nella politica, e diminuendo, per
quanto in lai era, il peso delle tante loro calamità. Quindi
fu che gli nomini dalle miserie loro meglio eruditi, e fi«
nalmente tocchi di gratitudine , gF innalzarono simulacri ed
altari , e istituirono in onor suo delle feste solenni , e gli
assegnarono comune il culto con Vulcano e con Pallade,
adorandolo come dio, e introducendo nei sagrifiq la consue-
tudine di ardere le viscere delle vittime per .saziare con
esse gli Dei, in luogo delle viscere di Prometeo.
Molte m(^li e molti figli si danno a lui da' poeti. Fra
le prime la ninfa Asia figlia dell'Oceano lo fece padre di
Deucalione, a cui egli stesso insegnò l' arte di fabbricare le
navi, e di essa si parla principalmente, in questo poema,
di cui non ho fatto che . delineare la traccia. Tutto il resto
dell'invenzione si concatena talmente colla mitologia, che
questa non solo non ne riceva veruna alteratone ed oflesa,
ma serve anzi di guida e base costante alla ragione poe-
tica, anche quando sotto il velo degli avvenimenti passati
si dipingono le cose presenti.
DEL
PROMETEO
CANTO PRIMO
L^ accorto Prometèo, T inclito figliq
A cantar eli Giapeto il cor tai sprona,
E quanti sopportò travagli e pene
Per amor de^ mortali^ e qoal raccolse
Di largo beneficio empia mercede,
Se la Diva, cui tutta a parte a parte
La peregrina istoria è manifesta,
Del suo favor m^aita, e non ricusa
Sovra italico labbro alcuna stilla -
D^ antica derivar greca dolcezza.
Ma de^guoi duri memorandi affanni
Qual dapprima diro? Forse la pena
Del celeste suo furto, e di Pandora
n fatai vaso e la fatai sembianza,
Cfhe di poca favilla al Sol rapita
Fé sopra il rapitor Falta vendetta?
O primamente del regal suo padre
Canterem la magnanima caduta,
E con lui tutta del Titanio seme
Sterminata la gloria e la speranza.
Quando il forte Giapeto incontro a Giove
Stette, e gran pezza del poter di sue
Folgori in cielo dubitar lo fece?
Certo il grande conflitto, onde prostrata
Giacque d^Uran la generosa prole,
Cbe di sorte minor, ma non d^ ardire.
1^4 ^ PROMETEO •*• ^
•
Del ciel paterno la ragion perdéo,
Di gran suono potrebbe empierla cetra,
E dar moka al mio crin delfica fronda.
Ma lunge troppo il canto andria, né penne
Per si gran volo alle mie terga or sento.
E già sull^ erto. Caucaso mi chiama
De' liberi miei carmi disì'oso
n solitario Prometèo, che seco
Le rie vicende nel pensier volgendo
Di sua stirpe infelice, e Pire ancora
Del superbo oppressor temendo accese,
(Che nel cor de' potenti a lunga prova
Ratto nasce lo sdegno e tardo muore),
Su quefl' orride balze sconosciuti
Tragge misero eroe giorni dolenti:
Se non che quando sotto il sacro velo
Delle tranquille tenebre notturne
Tace del biondo Iperìon la luce ,
Ei sovra il sommo della rupe assiso,
Delle stelle, che son lingua del fato.
Alle armoniche danze il guardo intende^
E, con lor ragionando, i vaghi errori
Co' numeri ne frena e le fatiche ,
Prillo degli astri assalitor felice:
Felice, se voler d'empio destino
Alla sciagura del suo lungo esiglio
Non aggiungea compagno Epimetéo,
L' incauto Epimetéo stolto fratello.
Pel cui folle consiglio su la terra
Versò l'uomo ingannato il primo pianto,
E de' morbi ^enti la ptmta acuta.
Come volgesse un s\ gran danno il fato,
Ditelo, o sante Muse, e far vi paccia
Al ver, che teme di mostrai* la fronte,
De' vostri accenti un verecondo velo.
Vita vivendo incolta, orrenda e dura
*'^^ CANTO PRIMO ig5
L' umana gente, di pudore in tutto,
D^ accorgimento e di ragion spogliata ,
E mal soffrendo del saturnio Giove
n superbo pensier , che alla tremenda
Sua deità né tempio ancor sorgesse,
Né aitar fumasse , né suonar s' udisse
Su le labbra terrene il suo gran nome.
Di sé mandar quaggiù prese consiglio
La conoscenaa alfine e la paura ^
E dell^ alma del par che delle membra
Le consonanti qualità diverse,
Ond^ abito novello e 'più gentile
DeW uom vestisse la mortai natura.
Vols^anco il guardo agli animanti, e manche
Le facoltà veggendone, e d'emenda *
Necessitose sa, che nulla ornai
Differenta avvisar sapea tra loro, •
Che di membra e di pelo e di figura,
Pietà n' ebbe il gran padre, e di.lor pure
Fatto pensoso, noverarli a parte
Del nuovo beneficio in cor concluse.
AgP imperi di Giove obbediente
Scese adimque Mercurio, in aureo vase
U celeste tesor seco recando,
E di partirlo fra' mortali e bruti
Al saggio Prometèo die norma e cura.
Ed allo stolto Epimetiéo; che tale
Era il senno di Giove ed il consiglio.
Meravigliò, turbossi a quel comando
Il maggior Giapetide^ e perché tutti
E di prudenza e di saper vincea.
Arretrarsi modesto, ed escusarsi,
E non atto chiamarsi a tanta impresa,
Del cui solo pensiero il cor tremava.
Ma r altro, che di senno e d'intelletto
Avea povero il capo, e nondimeno
Presuntaosi, indocili e. superbi
I pensieri nudria (che d'ignoranza
Ostinato figliuol seippre é roi^glio)^
Si trasse innanzi baldanzoso, e nullo
Timor prendendo del fetale incarco,
Sopra Fornero suo F assunse, e disse:
Onorato di Maja egregio figlio,
AlF Olimpo ti rendi, e questa reca
Non ingrata novella al tuo Signore,
Che del provvido suo supremo cenno
Esecutor lasciasti Epimetéo.
Disse: e Mercurio i bei talari aperse.
Caro dono d'Apollo, onde volsmdo
Le preste superava ale de' venti ^
]S deUa verga da Pluton temuta
Agitando le serpi, in un baleno
Fra le nubi si spinse, e sparve agli occhi.
Ma del firaitemo temerario ardire
Dolente Prometèo, con amendue
Le man coprissi, vergognando, il volto;
E poiché tanta ad impedir follia
Opra invan fé di preghi e di consigli,
S'involò sospirando, e al Ciel converso:
O Sole, ei disse, o tu che tutte osservi
Maestoso e tranquillo in tua carriera
De' mortali le cure e de' celesti.
Se nell'ampio tuo corso unqua t' awegna
Fuggitivo e ramingo in su la terra
Mirar qualcuno di mia stirpe oppressa,
Fammi fede con esso, o Sole amico.
Che ninna colpa nella colpa io m'ebbi
Dell'incauto fratello. O aure, o venti,
Che dell'etra non pur scorrete i campi,
Ma battete le penne anco sotterra,
E le bufere generate in grembo
Del morto regno, se di voi taluno
•'•'^ CàHTO PRIMO 197
Là pcaietrar può dove il mio gran padre
Nel procelloso Tartaro profondo
Di non giuste catene avvinto giace,
À lui portate le mie voci, e conto
Gli fate, o venti, il mio destin cmdele^
Ma non gli dite del minor sno figlio
La demenza fiettal^ che acerba al core
Sarfa del prode genitor ferita
Più che il Cielo perduto, e sempiterno
Di tristezza argomento e di vergogna.
Cosi dicendo dilegnossi, e mesta
Apparve al suo dolor Paria e la luce.
Lieto frattanto dell^ assunta impresa,
E dell' alto suo senno persiiaso ,
Lnpose mano alP opra Epimetéo.
E primamente congregati i bruti.
Senza misura liberal fu loro
Dei tesori di Giove, e cosi larga
Quella sua stolta cortesia, che tutto
Scoperse il vaso in un momento H fondo.
Dell'uomo allor si risowenne, e gli occhi
Dentro Puma ficcando, e sotto e sopra
Sootendola veloce, onde un avanzo,
Una reliquia ritrovarvi ancora
Ddla celeste dote^ esser del tutto
Già consumata la conobbe alfine.
A quella vista stupefatto e muto.
Le pupille abbassò, tremògli il core.
Gli tremar le ginocchia, e di man cadde
n vasello fatai , che cupamente
Risonò rotolando in sul terreno.
Indi qual meglio seppesi, e dell'uomo
Iniquamente del suo aver firodato
Le rampogne temendo e le querele,
Senza far motto, senza levar ciglio,
Pauroso e confuso allontanossi.
Mosti. PoemeUL i3
ig8 a. PROMETEO «'• >70
Come fanciul che, quando manco il teme,
Cólto repente dalla madre in fallo,
DI vergogna s'imporpora, e la mano
Paventando severa che più volte
Gli fé le orecchie dolorose e rosse,
Queto qneto s'arretra, e con obbliqao
Occhio guatando, al rischio suo s'invola:
D' Epimetéo tal era in quel momento
n (aggir^ V arrossire e la paura.
Or che £ark V insano 7 A qual de'Numi
O de' mortali chiederà consiglio,
E con qual fronte? perocché del pari
Al Cielo ei fece ed alla Terra oltraggio.
Misero! non gli avanza in quello stato
Altro più scampo che del buon germano
Implorar la pietà. Deposta adunque
Vergogna e tema ( che nel cor d' un folle
La tema sempre e la vergogna è breve),
A Im smarrito appresentossi, e mesto.
Ed intera narrando il suo fallire:
Deh! porgi, disse, all'error mio riparo,
Dolce fratello, se non vuoi che l'ira
Mi percota di Giove e mi distrugga^
Ch'egli ha ben d'onde fulminarmi, e troppo
Abbonda la ragion del mio castigo.
Ed in queste parole il delinquente,
Siccome vereconda verginetta,
Singhiozzando e pregando lagrimava.
A quel pianto commosso, a quella doglia
n generoso Prometèo rispose :
Dura mi chiedi e perigliosa impresa.
Miserando fratello, ed obbh'asti
Che da gran tempo dell'ingiusto Giove
n sospetto m' osserva e la vendetta,
Da che spersi noi tutti e fulminati,
E dell'Olimpo eternamente privi
^<^ CAUTO PRIMO
Noi miseri Titani ha quel superbo
Del fiilmine signor, che vinti ancora
Tuttayolta ne teme, e ne persegue
Iniquamente^ perocché spietati
Fa la tema i tiranni , i qnai demensa
Estimano Pamor santo del giusto,
E prudenza di regno esser crudelié
Quindi il barbaro in me da quel momento
Dell^ oppresso Giapeto il sangue abborre,
E più che il sangue di Giapeto, il core
Che fermo e puro mi riscalda il seno,
E r intelletto di saper nutrito,
Ond^anco ai Numi m^ avvicino, e tutta
Senza vel mi si mostra la natura.
U invidia, fratel mio, col suo veleno
Assale ancor degF immortali il petto ^
E dove in trono non s'asside il giusto,
Colpa divien, che mai non si perdona,
Dell' ingegno V altezza e la virtude ^
E fortunata è l'ignoranza sola.
Quindi non già tem'io di te, fratello,
Che te dall'ira del crudel tiranno
L'insipKenza tua pone in sicuro;
Né duolmi no del tuo destin, che poche
Son le pene ove poco é l' intelletto ;
Dell' uom ben duolmi, un infinito a cui
. Dannaggio partorì la tua stoltezza.
Sì che fatto é minor del bruto istesso;
Ed io tei dissi, sconsigliato, e tu,
E tu fede negasti a mie parole.
Qual dunque adesso a tanto error salute ?
Poco ti parve agli animai largito
Aver scaltrezza, ardir, prudenza e senno,
E del futuro il sentimento ancora,
Che il più bello, il più grande e prezioso
Hai lor profuso de' celesti doni;
'99
200
IL PROMBTBO "' *<*
L^ istinto io dico, quel divino, occulto,
Non mai fallace e sempre tìto istinto,
Che con tacito cenno impert'oso
Ciò che nnoce insegnando, e ciò che giova,
Dirittamente il bmto alla verace
Sua naturai felicità conduce.
Ciò che ieri gli piacque, anco domani
Gli piacerà* De' suoi pochi desiri
n termine sta fisso , e ciò eh' ei trova
Il suo bisogno a satisfar bastante.
Sempre buon lo ritrova, e sempre bello:
Fortunato, che Farte ei non conosce
Funesta e ria di fabbricar sventure,
L' orribil arte di crear le brame:
Fortunato, che docile la terra,
E liberal gli partorisce il cibo.
Né col rastro gli è duopo e coll'aratrp
Piagar sudando alla ritrosa il seno.
Né della vite spremere i funesti
Dolci veleni ad ammorzar sua sete.
E fortunato ancor, che contro i nembi,
Contro il furor de' verni, e l'aspro morso
Dell'algente aquilon, né vestimento
Indossar gli è mestieri, né la fiamma
Ricercar di Vulcano entro la selce,
,E de'lor rami dispogliar le piante.
À lui spontanee l'erbe, e senza l'uopo
Di chimico tormento la segreta
Lor medica virtù fan manifesta.
À lui la pioggia, il vento e la procella
Del lor muto appressar mandano il segno ,
Perché cauto ne scampi, o se n'allegri^
E a lui la terra (meraviglia a dirsi ! )
I suoi profondi scuotimenti avvisa,
Quando a darle travaglio alza il tridente
L'irato Enosjgéo. Fuggendo allora
***78 CANTO pftmo aoi
Atterrito per tatta la campagna,
Con jGocIie voci e con lunghi lanujnti
Air ignaro mortai predice e grida
Il yicin crollo della madre antica,
Ed accorto fa lui del suo periglio,
Dell^ uom non meno che di sé pietoso.
Né la rirtJi soltanto a lui si svela
Or innocente, or ria, che nelle fibre
De' vegetanti imprigionò natura^
Né sol degli elementi ci sente, e dice
I vicini tumulti (ahi nostro danno.
Che il sapiente &vellar del bruto
Capir non puote in intelletto umano!)
Ma fira F immenso popolo diverso
De' suoi simili chi nel cor gli desta
Dell'amico ad un tratto e del nemico
La conoscenza? E quale Iddio lo sforma
A tremar di paura innanzi a questo,
E innanzi a quello saltellar di gioja?
Chi tal gli diede, e tanto, e sì sublime
Accorgimento, e ne lasciò Pùom privo?
Fu la tua cieca largitate, o caro
Malaccorto fratello. Ahi che alla mano
Che lo profuse, più non toma il dono!
E taccio, che partecipe del lampo
Della diva ragion lo festi ancora.
La qual se pigra e languida e confusa
NeU' animante scintillar si vede.
Colpa é sol forse di sue membra, a cui
Non fii del tatto liberal Natura,
Né deDa lingua all'imperfetto guizzo
Permise la volubile parola.
Nudo intanto ed inerme, e degl'insetti
Al pungolò protervo abbandonato,
L'uom de' venti trastullo e delle piogge.
Or tremante di ^lo, or da' cocenti
202 IL PBOMBTBO ** ^^k
Raggi del sole abbrustolato e bruno,
Ovunque fermi, ovunque volga il piede,
Sia laddove d^Ànunon ferve P arena,
Sia dove ha cuna, o dove ha tomba il sole,
Dappertutto di vesti è V infelice
n molle corpo a ricoprir dannato^
Furando adesso la sua spoglia al solo
Quadrupedante, per furarla un giorno
Al vermicciuol pur anco ed alla pianta.
Se talor tanto la gentil sua cute
Tollerando s^ indura, che gli etemi
Ghiacci pur giunga a sostener d^Àrturo,
E invan la pioggia lo flagelli, invano
D'Orizia il punga F ispido marito^
Quanto affimno gli vai, quanto conflitto
Quel penoso trionfo? e quanta insième
Natia beltate al suo sembiante è tolta ?
Squallido, bieco, rabbufiato ed irto.
Di fiera il volto ei tien, di fiera il pelo,
E P nom nell^ uomo tu ricerchi indamo.
Né de^ mali suoi tanti è qui la trista
Serie conclusa. Primamente Paria
Co^ vagiti a ferir P invia natura
Di tuttequante idee povero e nudo.
Misero 1 il solo deViventi, il solo
Cui d^aita sprovvisto in sul medesmo
Limitar della vita aspra madrigna
La gran madre abbandona, e della Parca
Al severo governo lo rassegna.
Egro, piangente, derelitto ei dunque
Né Patimento suo, né la materna
Poppa conosce, a suggere la morte
Pronto al par che la vita. Se vien manco
L'opra un istante della pia nutrice,
Qual nauseoso miserando obbietto!
Uopo è dal corpo tenerello e nudo
»'• 35o CANTO PBIMO ao3
Degli elementi sdlontanar P insulto,
. Uopo è il passo insegnargli e la favella.
Né migliora, crescendo, il suo destino.
Se Yuol la piena traversar d^un fiume,
Pria del nuoto impai*ar Parte è costretto.
Se del ventre i latrati acquetar brama.
La dolce stilla del materno seno
Mutar gli è forza nel Gaonio firutto ,
E coU^aspro cinghiai nella foresta
Miseramente disputarsi il vitto.
Verrà poi tempo, è ver (che Palma Temi
Delle sorti potente e del futuro
À me nell^ antro del Parnaso il disse,
E molte rivelò meravigliose
Dell^ oscuro avvenir tarde vicende ),
Tempo verrà che Cerere divina,
Delle provvide leggi ispiratrice ,
Dal Giel recando una gentil sua pianta,
Cortese ne farà dono alla terra,
E dagli alati suoi serpenti addotto
Trittolemo inviando, un cotal figlio
Di Metanira, a propagarne il seme,
E Puso ad insegnar del curvo aratro.
Farà col senno e Parte e la pietade
ÀIl^ uom corretto abbandonar le querce,
Ed abborrir delP irte fiere il cibo.
Ma parergli ben caro un si bel dono
Gli farà di Giunon P aspro marito^
Perocché Dio severo i petti umani
Sollecitando con pungenti cure,
Comanderà di tutte Perbe inique
L^ empio parto alla terra, onde penoso
Del firutto cercai venga P acquisto.
Di triboli e di felce orridi i campi
Si vedran largamente. Aspra boscaglia ,
U ispido cardo e la sdegnosa ortica
ao4 n. PROMETEO •'• ^^
Abbonderà per tatto, e dei sodati
Nitidi colti si faran tiranni
L^ ostinata gramigna, il maledetto
Loglio, e le vote detestate arene;
Le quai proterve alla divina pianta
n delicato corpo soffocando ,
E involando Fumor del pio terreno,
Ingiusta le daran morte crudele.
Né fian già questi gli avversar) soli
Cbe palpitar di tema e di sospetto
B faticoso agricoltor faranno.
Allorcbè volte al rapitor cornuto
Dell' agenorea figlia il Sol le terga
De' firatelli Ledei la spera infiamma,
E susurrando la matura spiga
Le bionde chiome inchina, e chiamar sembra
L'operoso villano a come il firutto,
Ecco nuovi terrori all'infelice,
Ecco nuovi perigli e nuovi aflhnni.
La saltante gragnuola , il caldo vento ,
I torrenti, le belve, e le voraci
Torme pennute gli saran sovente
Di lagrime cagione e di sospiri.
So ben che quando di Dodona il vitto
In altro vitto cangeran le genti.
Nuove sembianze ancora e nuovo rito
Prenderà l'universo. All'auree stelle
Darà figura allor, sentiero e nome
L'audace navigante. Allor recise
Dai patrii gioghi scenderan le querce,
Che sui flutti volando andran superbe
Co' venti a rinnovar la lite antica,
E in remote a portar barbare terre
Merci a vicenda, e, più d'assai che merci.
Costumanze e folhe, morbi ed errori*
In uso volgerà dell'uomo allora
I suoi fiiOGhi Yulcaii) de^qoai nascose
L^invido GioTe nella fredda selce
Gli elementi immortali. Le sne care
Forme divine scoprirà natura^
Germoglieran gli affetti, e tutte insomma
Si schiuderanno del desir le fonti,
Che doTran Puman cuore impetuose
Irrigar sempre, e non sbramarlo mai.
Generato il desir, tosto pur fia
Generato il bisogno. E questo sozzò
Mostro ingegnoso col dolore al fianco
Che acuto il punge, e col piacer da fironte,
Che dolce il chiama, e Faspra via gV infiora,
S'ammoglilerà non pigro alla malvagia,
Cihe tutto vince, indomita fatica^
E con vile connubio alle pudiche
Arti darà la prima vita, aU'artì
Di turpe genitor figlie vezzose.
Dall^antico suo stato a mano a mano
Dunque Puom tolto, ed innocente in prima
Nelle selve gli augei, nelTonde i pesci
Insich'ando^ e poi fidando avaro
n firumento alla terra, al mar la vita^
Reggitor della sua, poscia di molte
Congregate Maniglie ^ indi le mura
'E le leggi ponendo in sua difesa^
Indi in sen di natura, in sen di Giove
Spingendo il guardo, e alTun strappando e aU^altra
L'oscuro vel che li tenea nascosi^
Alfin dal seggio, in che gli avea locati
n suo primo timor, cacciando i Numi,
£ so stesso mettendo in quella vece
Dalla forza protetto e dal terrore^
L'uom, dico, a tanta. di pensieri altenea,
E delle cose alla cagion salito,
SA stesso, ahi folle! estimerà felice.
ao6 n. PROMETEO •"• 4^
E misero più fia, quanto più Innge
L^arte vedrassi allontanar natura.
Sorgeran le città, si cangeranno
In superbi palagi le divelte
Rupi, e raorì>ide coltri e aurate travi
Difenderanno de^ mortali il sonno.
Più lauto il cibo, più gentil la veste
Troveranno le membra, e su le labbra
Verrà d^ amico più firequente il nome,
E più stretti gli amplessi, e più soavi
Faransi i modi, e più cortesi i detti.
Ma più bugiardo batterà nel petto
n cor pur anco, e latreran più vivi
I suoi rimorsi^ più fiigaci i sonni.
Più fugace la vita^ e con avaro
GonJBn divisi si vedranno i campi,
E risonar la barbara parola
S'udrà del tuo, del mio. Sovra le mense
Manderan Perbe i lor veleni, e colme
Delle madrigne ne saran le tasse,
E le tazze de' regi. Infame ordigno
Diverranno di morte il bronzo e il ferro,
E più del ferro, e più del bronzo, infeme
L'oro esecrato a tutte colpe il varco
Spalancherà, poiché divelto un giorno
Un rio demon V avrà dal violato
Sen della terra, che il chiudea gelosa,
Del suo parto fatai forse pentita.
Di Temide p«r lui calcata e franta
Si vedrà la bilancia, ed il delitto
Lieto esultar dell' innocenza oppressa.
Per lui mendica la virtù, per lui
Ricco-vestita l'ignoranza, mute
D'onor le leggi, e con nefandi incensi
Adorata la colpa e il Giel tradito.
Luogo sarà nelle cittadi impuro,
«'•494 CANTO PRIMO aoy
Drogai vizio sentina, a cui di Corte
Daran nome i mortai, d^Abisso i Numi.
Queir avversaria d^ ogni patto, e d^ogni
Scelleranza maestra e consigliera,
Àmbizìbn vi sederà reina^
Né in veruna così, siccome io veggo
Nella man di costei, fabbro di mali
Sarà Tempio metallo, onde la cruda
Non pur la terra comprerà, ma il Cielo.
Quindi (iniquo mercato!) alla superba
L^ amico un giorno venderà F amico,
La consorte il marito , e la sua patria
Sacrilego ed infame il cittadino^
A lei spergiuro le battaglie, e il sangue
De^suoi prodi guerrieri il capitano^
A lei le rocche il traditor custode,
E la voce de^ Numi il sacerdote :
E per lei nelle fervide fucine
Suda Vulcano , in omicidi arnesi
Le pacifiche falci figurando,
E i vomeri innocenti^ e Marte intanto
Lo scudo imbraccia, e la grave asta ini|)Ugna,
E Pugna de' cavalli procellosi
Sanguinando per tutta la campagna,
Di pianti allaga e di delitti il mondo.
Oh Marte! oh Guerra! Orribil mostro, nato
(ChiU crederia?) nel cielo ^ ove d'Olimpo
I cardini scuotesti, e colla tua
Sanguigna face violasti il puro
Delle vergini stelle almo candore,
E le prime saette in man ponesti
Contro Satnmq di Saturno al figlio^
Oh Guerra! oh delle Furie la più ria,
La più ria delle Furie e la più antica!
Al tremendo tuo nome il ciel si turba
Per la memoria della prisca offesa ,
ao8 n. PROMBiBo ^' ^^
E sbigottita palpita natura.
D'amor, di cantate i santi nodi
Tu rompesti primiera, e contro i padri
I figli armasti ambiziosi e crudi,
E i firatelli azzufiasti co'fiatelli.
Le sitibonde glebe a ber sol use
Le lagrime dell^alba, tu con altre
Stille disseti, e con allegro piede
Squarciate membra calpestando , e bocche
Spiranti, e petti palpitanti ancora
In tiepida di sangue atra laguna,
Con fiera gioja a quell'orror sorridi,
Crudele! e Tinno di vittoria intnoni.
Mentre sulla tua gota a calde gocce
Gronda sangue Pallór che ti corona.
Ahi! che tu sulle stesse are de'Numi
Sovente airuoti i tuoi pugnali, ed osi
Santificar le colpe, e temeraria
La vendetta arrogarti anco del cielo.
Del ciel, che tutta a sé serbolla, ed alto
Àll'uom gridò: Mortai^ perdona ed ama.
E Tuom sordo a quel grido, e dai sonori
Serpi d^ Aletto flagellato e spinto ,
L' un si squarcia coli' altro , e la più bella
A struggere dell'opre s'affatica.
In che tanto pensier pose natura.
Sangue corrono i campi, e sangue i fiumi ^
Sangue si vende, oh dio ! sangue si compra,
E tradimento e forza a pie del trono
Fan P orrendo contratto. Occulta intanto,
E d'atro velo ricoperta il viso.
La celeste Pietà di porta in porta
Va dflle spose scapigliate, e degli
Orfani figli, e de' padri cadenti
Asciugando le lagrime furtive.
Furtive, e agli occhi e al mest6 cor sol note,
*-^ CAUTO miro aog
Poiché aperto dolor già (alto é colpa.
Deh, santissima Dea, se chiusi in tenr^
Sono i cuor de^ tiranni alle tue tocì.
Se dei traditi vacillanti troni
Ferma è pur la ragion, che d^altre piaj^e
Solcar si debba dell^ Europa il petto,
Perchè tutto nell^ Angliche catene
Gema Nettuno , e fornicar si vegga
Con peggior drudi PÀgenorea figlia ,
Deh! tà squarcia le nuvole, e passaggio
Deir oppresso universo apri alle grida.
L' ale impenna ai sospiri, e nell' orecchio
Del maggior Nume come tuon li spingi.
Destalo, ed egli le saette impugni
Già troppo neghittose, e sul tonante
Carro immortai di sua giustizia assiso.
Della terra, che tutta peccatrice
Funando delira e si distrugge.
La gran contesa a giudicar discenda.
Cosi parlava il ben veggente e giusto
DeUe Caucasee rupi abitatore,
E tutto foco i rai, foco le gote,
Del remoto futuro entro gli abissi
Spingea le luci, che P antica Temi
-Lunga stagion gli avea nella divina
Grand^ arte de^ profeti esercitate.
E in quel sacro furor V alma rapito,
Che i secoli sormonta, e tutto al guardo
n turbine veloce, e la mina
Dell^ umane vicende sottomette,
Mentre signor del fato, e del suo libro
Col più tardo avvenir parla il pensiero ,
Vedea quel saggio fra tempeste e nembi
Sopra libere penne al ciel levarsi
Della terra i sospiri, e seguitarli
Con obliqui occhi e con incerto passo
210
IL PROMETEO *' ^*
(Quali il greco cantor poscia le vide)
Le dolorose ed umili Preghiere,
Di lagrime per via bagnando il riso,
E tutto alla pietà movendo il Cielo.
Abbracciar le ginoccbia le vedea
D'un Dio maggior di Giove, a cui salire
Distinto non sapeva il suo concetto,
Né nomarlo il suo labbro; e questo Dio
Stender la destra alle dolenti Dive,
Rd inchinar sovr'esse i maestosi
Suoi neri sopraccigli, onde le chiome
D' ambrosia rugiadose tremolando
Sulla fronte immortai diero una scossa
Che tutto fece traballar P Olimpo.
Poi daUa grande orribile faretra.
Che Morte ed Ira, sue ministre, al piede
Rinfrescando gli vanno e mai non votasi.
Il frdmine prendea, con cui tremendo
Ài mortali ragiona il suo disdegno.
E tosto innanzi un giovinetto Elroe
Gli comparia, che il gesto e il portamento
Avea di Marte, e Marte egli non era.
Tricolor cinto gli fasciava il fianco
Superbamente, e tricolor cimiero
Gli ondeggiava sul capo. La sua fronte.
Di cortesia temprata e di fierezza.
Profondi palesava alti pensieri;
Alla fronte di Giove simigliante.
Quando Pallade ancor non partorita,
Gli affaticava F immortai cerébro.
L^ ineffabile Nume onnipossente
A lui quindi facea queste parole :
Prendi, invitto guerrier, prendi secuiH>
La folgore di Dio. Per me la vibra
Su gli ostinati troni, ornai di troppo
Sangue vermigli; col mio strale in pugno,
À chieder pace, a supplicar gli sforza,
E finisca per te elei Mondo il pianto.
Così dicendo , il fulmine supremo
Gli consegnò^ né della man mutata
Accorgersi parca Panne drvina,
Ma più terribil anzi e più sdegnosa
Guizzar nel pugno del novello erede.
Ed ei con braccio rigoroso e saldo
Su i Germanici aampi la vibrava
Fieramente. Al nitrito, al calpestio
De^ Gallici cavalli risonavano
Le Reticbe montagne, e attrita e pesta
Sotto Pugne feirate si scaldava
La Vindelica neve. Non potea
Stupe£Bitto rag^ugnere il pensiero
Di sue vittorie il volo , e non ardia
Darle tutte la Fama alla sua tromba.
Paventando bugiarda esser tenuta.
Al fragor de' suoi tuoni, al truce lampo
De' tremendi suoi sguardi e di sua spada
Ivan r onde dell' Istro impaurite ,
E con volo di timida colomba
Fuggia scema dell' ali e degli artigli
La bellicosa degli augei reina.
Tremava tutta, e si battea la guancia,
Del contumace suo furor pentita ,
La superba Lamagna^ e del suo sangue
Tinto e satollo, alfin sorgea l'olivo.
All'apparir che fea sulle gelate
Noriche vette 1' arbore divina ,
Esultava la terra, e rispettosi
A baciarla venieno, a carezzarla
Con molli penne d'ogni parte i venti.
Sulle Pannonie rupi alto sferzando
I destrier rugiadosi, in sul mattino
La salutava il Sole, e con soave
212 IL raOHBIBO *- ^4
Riso di- luce dal mortai bìh> sonno
Tutto sveg^va a onova vita il mondo.
Ricondncean secnre al pasco antico
L'allegre pastorelle i cari armenti.
AflOava cantando il Tillan duro
Il curvo dente di Saturno, e lieto
L'ore affirettava di troncar la spica ^
Che d'oltraggio gnerrier più non temea.
Qua stringesi una madre al seno il fi^o,
Cui già spento piangea, nò al Cid si sente
Più lamentarse del fecondo grembo.
Là del salvo marito al collo gitta
Una tenera sposa ambe le braccia,
E sull'adusto a&ticato petto
Le ferite cercando, con pietosa
Bocca le bacia, e colla man le tenta
Ripugnante d' orror. Odesi altrove
Risonar d'inni il tempio, e, sciolte in forno,
Van l'odorate lagrime Sabée
Lassù le nari a rallegrar de'Numi.
E per le piazze intanto e per le vie
Un trambusto di dame e di guemeri
Cantici e ludi^ un esclamar per tutto.
Un abbracciarsi, un fremere di gioia ,
Che di dolce follia l'alme rapisce.
E in cotanta esultanza ecco novello
Di letizia argomento; ecco Minerva
Che la sazia di sapgue pesante asta
Depon placata, e ne'Cecropj prati
Le vergini cavalle a pascer manda
n trifoglio divin, mentre lo scudo
Stan nel fiume a lavar d'Argo le figlie.
Ed essa la gran Dea per l'ampie sale
De'Peripati l'attiche lucerne
Raccende, in nembo d'erudita polve
Strascinando il regal paludamento.
•'• 7»<> CANTO PHIMO a I 3
Riviver liete d^ogni parte vedi
D^Académo le selve, e in gran frequenza .
Correr FÀrti a sudar nei sacri arringhi.
Quindi un picchio incessante, un cigolio
Di scalpelli e di marmi, un mescolarsi
Di colori e pennelli, onde operose
Prendon le tele sentimento e vita.
Poi di cetre un fragor, che vario e dolce
Scorre sull'^alme, e giù dal balzo an*iva
Del beato Elicona. Ivi seduto
Fra le pudiche Aganippee fanciulle
Lo stesso di Latona inclito figlio
Di quel famoso Giovinetto i forti
Fatti cantava e le fatiche e Pira,
Con questo carme innamorando il Cielo.
Chi è colui che rapido qual folgore
Scende dal monte, e sguardi formidabili
Vibra in sembianze giovanili e tenere?
Lo precorre Bellona, e sotto il fervido
Calpestar dei fumanti atri cornipedi
Tremano Palpi, e su le porte Cozie
Lutalo Genio spaventato affacciasi.
Memore ancor dell^ ardimento Punico.
Oh, del primo maggior, secondo Annibale,
Pochi sono i tuoi Forti, e non si coprono
Di ferro il petto , né P aita affidali
Di Nimiidi elefanti, ma del gallico
Valor P usbergo portano sull^ anima,
E Parte sanno di morire, o vincere.
Oh vai di Dego orrenda! oh gioghi indomiti
Di Montenotte! oh re de' fiumi Eridano!
E tu Mincio fatai, che di cadaveri
Le tue lagune già vedesti crescere,
E dal nido natio smarrita e pallida
L'ombra involarsi del Cantor di Mantova^
E voi dell'Adda iniqui ponti, e d'Arcoli
Monti. Poemetti. i4
2 I 4 *!• PROMETEO •*• 74^
Ostinate, pianure^ e voi di Rezia
Fieri dirupi, e delT estremo Norico
Risonanti fucine, ove fa gemere
Vulcano a Marte la Tedesca incudine,
Dove son, rispondete, i vostri eserciti?
Dove i duci, i cavalli, e i tuoni, e i fulmini
De^ vostri bronzi? e il fior più scelto e vivido
Della bionda Lamagna ? Ohimè! Pltalico
Campo del sangue di quei prodi impinguasi,
E vagar P insepolte ombre si veggono
Sdegnósamente, e fremere sulPAdige
Di Germanica strage ingombro e turgido.
Salve, o madre d^Elroi, salve terribile
Francese Liberta^ salve magnanimo
Gampion, che chiudi in fior di membra altissimo
Vigor di senno. A te dinanzi attonita
Tace la terra ^ ma dolente mostrati
Le non ben rotte sue catene Ausonia,
E di spezzarle interamente pregati.
Deh, P ascolta, per dio! deh forte avvolgile
La man nel crine venerando, e salvala^
CVella Ve madre, e le materne lagrime
Al cor d^ un figlio la pietà comandano.
Poi sull^ Olimpo, che t^ aspetta, il nettare
Vien co^Numi a libar fira Giove ed Elrcole.
Questi accenti sposava alla sua cetra
n Signor delle Muse^ e mentre i boschi
Di Pindo e Citeron molce il suo canto.
Tacciono i sacri ruscelletti, e Paure
Non osano di far rissa e bisbiglio.
Stillavan tutti licpiida firagranza
I suoi biondi capelli, e all'agitarsi
Della testa immortai, quante sul suolo
Cadeau le gocce del licor celeste ,
Tante nascean viole ed asfodilli.
Poi finito il cantar, dalP aurea fironto
^•7^ CAUTO PRIMO 2l5
Togliersi Fd>o il tuo bel lauro istesao,
Di poeti superbia e £ guerrieri ,
E dell^ invitto b ponea sul crine.
Allor dal volto dell^Eroe partbsi
Tal di ra^i e di lampi nn largo nembo,
Che tutta di sua luce empiea la terra ^
Non da quella diversa che Minerva
Sul capo accese del divino Achille,
E tremenda a toccar f^ astri giuugea,
Quando apparve de' Teneri all'improvviso
Sul terribile fosso, e alla sua vista
Si rovesciar cavalli e cavalieri
Confusamente, e salva si sottrasse
Dall' Ettoreo furor la combattuta
Esangue spoglia del diletto amico.
Tal era lo splendor che dalle care
Fiere sembianze del Guerriero uscia.
Tergea FEIuropa, in lui mirando, il pianto,
E il suo possente salvator da lungi
Colla manca accennando alle sorelle,
Porgea lor colla destra il ramosceUo
Del sacro olivo, e promettea che presto
Colla vindice man tolte le avria
Dell' anglico ladrone alle catene.
Carco d' od) frattanto e di delitti.
Con mozzi artigli e dischiomata giuba
Agonizzar dell'Adria si vedea
L' orgoglioso decrepito L'ione.
D'arcano velo circondati e chiusi
Eran questi i portenti che per entro
La sacra notte del fìitur vedea
L'indovino Titano^ e preso intanto
Di stupor, di rispetto e di paura,
Non alitava, non battea palpebra
A quell'alte parole Epimctéo.
E come quando ne'Carpazj flutti,
2l6 n. PROMETEO •'***
Che avea turbati PAquilon, se chiude
L^ enfiata, bocca F iperboreo dio,
E gli muor la procella in su le labbra,
A poco a poco quetasi pur anco
La discordia dell^onde, e al Sol che toma
Leggiadramente tremolar le vedi:
AUor la rete il pescator ripiglia,
Ed allegro il nocchier lasciando il porto,
E spiegando la vela al mar di nuovo
Le sue speranze crede e la sua vita.
Non altrimenti di Giapeto al figlio,
Poiché lo spirto racquetossi e il petto
Dal profetico ardor sconvolto e scosso ,
n primo volto venne, il color primo;
E calmato e sereno: Or via, firatello.
Datti pace, soggiunse: al tuo fallire
Non disperar salute: io te n^aflSdo.
Sorgerà Puomo dal suo basso stato,
E tanto al ciel si leverà sublime.
Che d'invidia n'andran pur tocchi i Numi.
Pisse; e. nel cor magnanimo premendo
n suo disegno, e dal disio soltanto
Di liberar le sue promesse acceso.
Verso la sacra argolica contrada
Per molta terra e molto mar divisa,
Come del fato lo spingea la forza,
Senza più dubitar prese la via.
E doloroso di lasciar P antico
Dolce ricetto: Addio, sclamava, addio,
Gare selve beate, che ramingo
Nel vostro sen mi riceveste il giorno,
Che mal del cielo disputo F impero
H misero mio padre , e voi pietose
Agli strali di Giove in quel periglio
Mi nascondeste, né veruno il seppe
De' mortali gran tempo e de' celesti.
'• *54 CANTO PRIMO
Salve, rape sublime, ov^io solea
Nei sacri della notte alti silenzi
Interrogar le stelle, e in quei lucenti
Volti del fato esaminar le vie^
Mentre queti dintorno e rispettosi
Tacean sul monte e nella selva i venti,
E sol nell'ombra mormorar da lunge
Quinci il Caspio studia, quindi P Eusino.
Addio, sonante Àrràgo, addio, veloce
Onda del Gerro, alle cui fonti assiso
Io salutava in oriente il Sole,
E contemplar godea come all'aspetto
Dell' immortai sua lampa genitrice
Rivestivansi allegre e rugiadose
Del deposto color F erbette e i fiori,
E tutta dal suo sonno uscia la terra.
Voi dunque di mie veglie e di mie pene
Confidenti pietosi, o boschi, o fiumi,
0 spelonche, o dirupi, ricevete
Del fido vostro solitario amico
1 dolenti congedi. Io v'abbandono.
Ma il cor che spesso l'avvenir segreto
Co' suoi palpiti avvisa, il cor mi viene
Significando occultamente in petto
Che tornerò pur anco al vostro seno,
Ed illustre darò perpetua fama
Con più grandi sventure a queste rapi.
117
DEL
PROMETEO
CANTO SECONDO
Cosi dicendo ancor, già volte avea
Al Caucaso le spalle, e Io seguia
Con dimessi sembianti e guardo chino
La ca^on d^ogni danno Epimet&>.
E già premea di Coleo la pianura
E del Fasi suonar Fonda studia,
Quando repente nel toccar la riva
Un orrendo gli apparve alto portento^
Perchè di mezzo al fiume una feroce
Gigante larva sollevava fl petto,
Che con ambe le man martelli e chiodi
E catene durissime scotea,
Vietando il passo e minacciando offese^
E con aperte branche una crudele
Aquila incontro gli venia di voglie
Si nequitose, che nel cor già fitto
Pareagli averne il dispietato artiglio.
AlPapparir che fece allHmprowiso
La minacciosa vision, sentissi
Tremar le vene di Giapeto il figlio,
E palpitando di passar la riva
Già stava in forse, o di voltar la fronte.
Quand^ecco dalla parte ove d^ Atlante
Piombano tempestose in mar le figlie.
Venir scorrendo un rauco tuono il cielo,
E di procelle gravida e di lampi
'• 3^ IL PROMETEO, CANTO SECONDO HIQ
Una nube avanzar lunghesso il fiume,
Che sbigottia la vista, e tutta in grembo
Portar parca d'inferno la ruina.
E dalla nube una donzeUa uscfa
Tutta, fuorché la fronte, il petto armata
Di tersissimo usbergo adamantino,
Fuorché la fronte all'ire esposta ognora
Dei turbati elementi, e ognor serena.
Così talvolta il Sol, poiché di Giove
Taccpiero i lampi procellosi e i tuoni ,
Delle nugole straccia il fosco velo,
E più bella che pria mostra la fironte
Che tutto allegra di suo riso il mondo.
Lieti allora i fioretti alzano il capo
Dalla pioggia chinato, e cristalline
Fan contro il sole tremolar le perle ,
Di che tutti van carchi e rugiadosi.
Rasciugano colPale i zeffiretti
L'umor soverchio all'erbe e agli arboscelli,
E tra il rumor che dolce e in un confuso
Fan le selve, gli augei, gli armenti, i rivi.
Dalle vaUi e dai monti invia la terra
Ài raggio che l'avviva, il suo profumo,
E tutta esulta di piacer natura.
Poiché (juella di turbini e di nembi
Sprezzatrice divina alteramente
Apparve fuor della squarciata nube^
A lui, che fiso la guardava, in atto
Magnanimo e gentile, approssimossi^
E: Fa cor, gli dicea^ comunque volga
La Parca il fuso, col soffrir si doma
Ogni fortuna. Guardami: son io ,
Io la Gostanza, che ti parlo e guido.
Più non disse la Dea, ma lusinghiera
Per man lo prese, e tale un guardo, un riso
Gli lampeggiò, che pur d'un sasso accesa
aio IL PROMETEO **■ ^
Netle gelide vene avrìa la vita.
À quel riso, a quel guardo, a quel possente
Toccar di destra non mortai, per Fossa
Velocissimamente gli trascorse
Una vampa di foco, a quella uguale
De^ Leidensi fulminanti vetri.
Di speranza nel petto e di coraggio
Gli fiammeggiò lo spirto, e U cor per gioia
L^ali aprì, che serrate avea paura.
Con questa al fianco securtade e guida.
Assalendo le larve minacciose,
L^animoso Titano oltre si spinse^
Né lo scosse il romor che quel fantasma
Di catene facea, né la minaccia
Di quegli artigli; ma per mezzo al fumo
Passar gli parve, e un vento udir che vóto
Gli mormorò sul petto e non Poifese.
Uscito appena alla contraria riva,
A mirar si converse il suo periglio ,
Ned altro vide che il Fasiaco flutto
Verso il gran seno camminar tranquillo
Della Pontica Teti: e in questo anch^essa
La bella donna che sua scorta venne ,
Folgorando sparir, quale sovente
Veggiam di notte scintillar baleno,
Onde prende smarrito in suo viaggio
Conforto e speme il pellegrin soletto.
Cui della patria punge e della sposa
Dopo gran lontananza alto desio.
Frettoloso egli dunque il Giapetide,
Che a custodia sentia del suo pensiero
Locata la Costanza, e più veloci
Fatti i suoi piedi, e più gagliardo il core.
Lasciò di Marte il bosco alla mancina.
Il fiero bosco, a cui non anco avea
Il Caucaso mandato il drago orrendo.
•'•9^ CANTO SECONDO Hai
Né i fatati giovenchi il Dio Vulcano ,
Che di pietade avrebbono e di tema
Fatto di Coleo palpitar la Maga
Nella famosa di Giason fatica.
De^ Bizeri indi passa e de^ Macroni
Le inospitali arene ^ e procedendo »
Non rimota dal lido separarsi
LUsola vede, che Saturno empiea
Clamorosi nitriti^ ed a rincontro
Uscir Paltra dall^onde a Marte sacra
Di bellicosi augelli orrido nido ^
Cui lo stesso Gradivo nella sua
Terribil arte ammaestrar godea.
Di ferro il rostro^ e tutto han pur di ferro
n remeggio delPali, onde ferrate
Vibran saette che mortai fan piaga.
E voi be^ d^Àrgo lo saprete un giorno,
Valorosi campioni, allor che in traccia
DW aureo vello su peliaco pino
Qua verrete a cercar perigli e fama.
Quindi la terra di pudor nimica
De' Mossineci a trapassar s'aj&etta,
E dell'imbelle Tibareno i lieti
Opimi campi, inabitate allora
Senza nome contrade e senza grido.
E i costumi frattanto e le vicende
Vaticinando al suo fratel ne viene
n v'iator profeta, e del cammino
Con soave sermon le pene inganna.
Come presero il suolo, a cui dier fama
I Calibi operosi: Ecco, dicea ,
Ecco una terra, a cui le colpe avranno
Obbligo molto. Un popolo malvagio
L'abiterà, che nei profondi fianchi
Delle rigide rupi andran primieri
A ricercar del ferro i latebrosi
222 IL PROMBTBO *'- ^^
Duri coTili, e €011 fatai consiglio
A domarlo nel foco, a figurarlo
In arnesi di morte impareranno.
LMre, gli odj , i rancor, le gelosie,
E TEIrinni, che pigre ed incruente
Andar vagando fra^ mortali or yedi,
Allor di spada armate e di coltello
Scorreran Funiverso, e non il seno
Del ritroso terren, non Felce e Pomo,
Ma Puman petto impiagheran crudeli.
Ecco gli antri, o firatello, e le caTcme,
Che dall^aperte bocche a riguardarle
Metton paura, e diverran fira poco
Di quell^empio lavor empie fucine.
Vedi Megera in gran faccenda, vedi
Le sue sorelle orribilmente allegre
Ir preparando i mantici e le incudi,
E assister lieti allMnfemal fatica
n Furor, la Vendetta, il Tradimento,
La Discordia, la Rissa e la Contesa,
Temerarie fanciulle. Odi il gavazzo
Che fan le rie là dentro, odi il frastuono
Che il monte introna, e dentro il cor rimbomba.
Fuggiam Favaro lido^ e tu rimanti
Alle furie, ai misfatti, alle sventure.
Terra dal cielo maladetta, e stilla
Sulle infami tue glebe unqua non cada
Di benefica pioggia^ ma nimico
Sempre il vento ti batta e la procella ^
Né il Sol ti guardi se non quando orrenda
Lo travaglia Fedissi, e vengan macre
Sulle tue balze a partorir le lupe.
O se giusto pregar d^ascolto è degno ,
Col gran tridente, onde i tremuoti han vita,
Nettun ti colga , e ti crolli, e ti schianti
Dai fondamenti , e in mezzo al mar ti scagli ,
*• «70 CANTO SECONDO 2a3
E il mar tHnghiotta; e in Ini sepolto e morto
n tno nome rimagna e il ino delitto.
Si profetando ed imprecando, all^onda
Del Termodonte arriva, onda superba,
Ma non famosa allor, né da guenriero
Femminile vestigio ancor battuta.
Indi il campo traversa che nomato
Fu poi Temisdreo^ traversa il piano
Dove llri impaluda; e via passando,
Di Sinope tremar sulla marina
La grand'ombra rimira, di Sin<tpe
Cui la bella d^Asópo accorta figlia
n nome diede e fama il di che feo
Del rapitor Tonante all'impudica
Stolida voglia un suo lodato inganno ,
Ed ai profferti titoli divini
Quel di casta prepose e di fiinciulla.
Superata del torbo Ali la ripa
Avean gPillustri pellegrini, e lungo
Fra le nubi nascondere la fronte
Vedean Talto Garambi alla diritta,
Che con immani fianchi e vaste braccia
n pelago respinge, ed a Nettuno
Gran parte usurpa dell'Eusino impero.
Era il tempo che stanche in occidente
Piegava il Sol le rote, e raccogliendo
Dalle cose i colori, all'inimica
Notte del mondo concedea la cura.
Ed ella del regal suo velo etemo
Spiegando il lembo, raccendea negli astri
La morta luce, e la spegnea ne' fiori.
Un'aura che olezzava , ed impregnate
Dalle rose di Cromna e dai mirteti
Del vicino Citóro avea le penne,
Con un dolce spirar feria la fronte,
E rinfrescava le infiammate vene.
2^4 IL PROMETEO «'• ^06
Maggia frattanto il mare, e in lontananza
Un rugghio si sentia (jual di remoto
Tuon che fra' nembi discorrendo il cielo ,
NeU^estremo orizzonte si dilegua:
Ed era quel fragor che orrendo e cupo
Le Simplegadi fean quando sdegnosa
Coll^Europa a cozzar PAsia venia
Sgominando due mari, ed amendue
Gol grand^urto scotendo i continenti^
Finché d^Argo di là passando il sacro
Pino, fin pose, per voler del fato ,
Alla terribil zuffa, e immote rese
Le concorrenti furibonde rupi.
E con questo romor, che dalle mute
Ombre notturne maestà prendea,
E sotto un ciel che limpidi e sereni
Tutti al guardo scopriva i suoi splendori,
Camminavano queti i Giapetidi^
E la terra premean dove preclara
Degli Eneti sonar dovea la fama:
Gente di gloria e di bei fatti amica
Che al volgere degli anni e della rota
Di quella calva che scherzando tutte
Cangia Popre mortali e mai non posa,
In Ausonia migrando avria nel lieto
Ultimo seno dell^ Adriaca Dori
Dell'antico valor deposto il seme.
Calcando Prometèo Palmo terreno,
Tale un cenno senti nel suo pensiero ,
Tale un moto nel cor, tale un tumulto,
Che dell'aura profetica lo spiro
Tosto conobbe, e la divina voce
Che per entro la mente ragionava.
Maravigliando soffermossi, e vólto
Al convesso del ciel sereno e puro :
O stelle , ei disse , o della negra notte
V.
*4* CAWTO SECONDO iaS
Lucide, care, intelligenti figlie
Che della madre intomo al fosco trono
Con vaghi errori carolar godete,
E dolce alci persuadete il sonno
GoUa dolce armonia che vi governa^
O leggiadre del Sole alme sorelle
Che dai vostri grand^archi saettando
Strali di luce, ed agitando al vento
Le tremolanti accese capigliere,
Tutte piovete le vicende in terra:
Deh! se iniqua cometa unqua la gioia
Di vostre danze a conturbar non vegna,
Né mai rigida bruma i boreali
Vostri lavacri in aspro gelo induri ,
Ma liete sempre e chiare ad incontrarvi
Il canuto Oceàn Tonde sollevi^
Deh! la cagion ne dite, o venerande
Dei voleri del fato annunciatrici,
Perchè sì puri e tutti amor spiranti
Sulla terra, che premo, i rai scotete.
Ond^è che con si placidi sorrisi
Vi guardate a vicenda, e di Saturno
Par che perda la stella il suo livore?
E tu, fiero splendor, che volto prendi
Di superbo Lìou, perchè gli artigli
Spieghi per Tetra furibondi, e ruggi?
Oh ! v^ intendo , vMntendo. O bellicoso
Eneto suol che delle iliache torri
Col valor de^ tuoi prodi incontro al fato
Tarderai la caduta ^ o forti eroi ,
Che di nobile polve aspersi il crine,
Del veloce Partenio in sulla riva
Di Sèsamo i cavalli esercitate,
E d'Egialo risponde ai lor nitriti
n cm*vo seno e TElritina rupe:
Sciogliete dal calcagno i sanguinosi
2!l6 IL PROMETEO •"• ^'
Sproni, agli ardenti corrìdor togliete
Gli ardenti morsi e Ineleganti briglie;
Dite alle care Citoriache selve^
Dite Tnltimo vale, e al mar volate;
Che chiamanvi le Parche ad altro lido,
Ed altro seggio a^ vostri lari erranti
Già prepara Nettano. Oh d'Adria sacre
Fortunate lagone ! EIcco il promesso
Popolo invitto che per molti e duri
Della terra e del mar stenti e perigli
Valor vi porta, libertade e fama.
Oh novella di Numi inclita casa!
Oh dalla destra di Nettun costrutta
Ammiranda città! senti la voce
Con che parmi che dentro la profonda
Nebbia degli anni di te parli il fato.
Nido sarai d' onore e di virtude;
Abiteranno in te liCarte e Sofia,
Che per tranquilli e bellieosi studi
In pace e in guerra ti faran temuta.
Darai ricetto, darai salda sede
Alla fuggente libertà latina.
MsL dell' origin tua, de' fermi ed alti
Tuoi fondamenti non andar superba;
Ch'altre pur vi saran famose mura
Di celesti architetti opra divina,
Che vedran Pultim'ora e caderanno;
E cadrà Troia, di due Dei possenti
Celebrata fatica, e dalla destra
De' tuoi stessi grand'avi invan difesa.
Duncpie & senno, e non produr tiranni ,
Ma cittadini: non lasciar che cresca
A quell'alato tuo Lion l'artiglio,
Sì che sbrani te stessa, e col ruggito
n sospiro ti vieti e la parola.
Né col fato cozzar, quando vedrai
«'• 3"4 CANTO SECONDO 127
Con altri Mìrmidóni un altro Achille
Scoirer dltalia procelloso i campi ,
E peggio che di Xanto e Simoenta,
D^Àdige e Mincio insanguinar le riye:
Ma d^italico allor scelta corona
Preparar di tna mano al rincitore ,
E la destra baciar, che Pali e Pugna
Tolse alla belva che ti fea dolente,
Sia questa la tua gloria e il tuo pensiero.
Poi rotte alfin le rie catene, ond'hai
Ancor livido il polso, ed irto il crine,
Per la memoria delle colpe antiche,.
Del tuo primo valor solleva il grido ,
E Finfingardo Cispadan rampogna,
Ch'entrò di libertà nel sacro arringo
Innanzi a tutti , e dopo tutti arriva ,
Per devote folUe fatto vigliacco.
Tu^ Gallico PeUde, a cui minore
Del Tessalo campion l'ombra s'inchina,
Deh segui e adempi l'onorata impresa!
A' suoi rapaci amanti, anzi tiranni^
Che il cor le han guasto e la natia beltade.
Ritogli Italia che novella Eléna,
Più d'assai che Fachéa, merta vendetta.
Cosi vassi alle stelle. Io di Giapeto
Libero figlio da lontan t'adoro,
E verace profeta, anziché siéno,
I tuoi trionfi giubilando accenno.
Abbi caro il tributo, e s'unqua awegna
Che a te s'adduca aonio pellegrino,
Un ardito cantor di mie vicende.
Del tuo favor Paffida, e d'uno sguardo
• Onoralo cortese e d'un sorriso^
Che ancor fira l'armi gentilezza è bella.
Qui die fine all'arcane alte parole
Dell'aurea Temi il gran nipote, e lieta
a 28 IL PROMETEO "v
Del promesso aTvenir l'Eneta terra
Sotto i piedi esultò. Pia mansueti
Le stelle incontro si vibrébr gli sguardi,
E sola di liTor tinta e di sdegno
Del celeste Lìon parve la luce
Del suo scorno già conscia, e dolorosa
Di perder fama ed onoranza in terra.
Del Partenio frattanto avean varcate
I due germani le santissima onde,
Ove stanca di caccia ha per usanza
Lavar Diana i fianchi polverosi,
Pria di recarsi alle celesti mense ,
E Tambrosia libar cogli altri Etemi.
Indi spediti valica le valli
Mariandine , e V errabondo flutto
Del baccante Gallicoro, e diritto
Gammin facendo , dopo corta via
Del Sangario fiir sopra alla riviera.
Ivi il Sol, che del Caucaso sull^erta
Sollevava la fronte , li raggiunse ,
E alle spalle sentir fé loro il fiato
Degli aneli destrieri. E quei del fiume
La correntia seguendo, e la soave
Del mattin respirando aura odorata.
Quello strano trov&r lungo la via
Mandorlo di portenti operatore ,
Che senza Tuopo di virili amplessi
La Sangàride ninfa un di dovea
Far bella madre di figliuol più bello.
Ma più mal cauto insieme e sventurato.
Ahi misero garzone! Ati infelice 1
Di Venere era degno il tuo bel viso,
E di quante calpestano POlimpo
Vaghe e giovani Dive^ e tu già fatto
Di tal sei ligio, che la gota ha crespa,
Benché immortale, e già canuto il pelo^
V, 35o
'•^W • CAUTO SB0O5DO 4^9
Né le vai coronato aver di torri
L^antico capo , ed aggiogar leoni ,
E di cento gran nomi andar superba,
E di cento città^ ch'anco fra^ Numi
Di senili carezze Amor si sdegna,
E di lurido labbro i baci abborre.
Quindi Ciprigna vergognosa in braccio
Va di marito afiumicato e zoppo ^
E dell^ Aurora Finfeconde nozze
Son di riso argomento a tutto il cielo.
Ahi misero garzone! Ati infelice!
E di rugosa Dea, cbe lasso e carco
Di secoli strascina il fianco etemo,
Tu le blandizie soffiai e i morti amplessi,
Da cui schivo s^arretra anco Saturno?
E a lei tu sacri con nefando giuro
Di castità, di giovinezza il fiore
A natura nemico ed a te stesso?
Ahi misero garzone! Ati infelice!
Già de^ tuoi sprezzi fa crudel vendetta
L^ofiesa Giterea, già vinto avvampi
Per due vaghe pupille, e sei spergiuro.
Ohimè che il fio ne paghi ! ohimè che torva
Ti raggira la Furia , e forsennato
Per le balze di Dindimo ti mena.
Ohimè le membra che peccar, già veggo
D^oscena piaga sanguinose e sozze,
E rugghi tu ne mandi ed ululati.
Finché deliro, e di perdon ben degno
(Se vecchia druda perdonar sapesse)
In irto pino il molle corpo induri;
E col rumor delle parlanti chiome '
I sospiri a fuggir di grinza e vieta
Donna gFincauti giovanetti avvisi.
Ahi misero garzone! Ati infelice!
Mentre io parlo, alla bocca già venuto
Morti. Poemetti, i5
dSo IL PROKBTBO ^' 4^
DelFAcherosio speco è Prometèo.
Tra dirupi inaccessi e dal sonoro
Picchiar dell^onde flagellati e rosi
S^apre Fatra spelonca, a cui sublime
Di cipressi, di pioppi e di mesti olmi
Grava il dosso eminente una foresta^
E pigro al basso un yapor denso emerge
Che Foiribile entrata ingombra e serra,
Finché vien colle lucide saette
À dardeggiarlo sul merigge il Sole.
Né di passar s^attenta unqua il SìIcheìo ,
Non che regnar sull'agitato lido;
Che sotto mugge il mar, di sopra il bosco,
E d'ogni lato il Tento , che la nebbia
Turbinando e le foglie, con Torace
Rapidissimo Tortice ruggisce
Sul tristo ingresso dell'orrenda grotta
Che dritto mena alla magion di Pluto.
E ben lo dice la mortai mefite
Che quindi esala, e di pianti e di lai
E di cupi latrati il suon lugubre
Che l'orecchio percuote, e la paura
Commista alla pietade invia sul core;
Perchè quella di Cerbero crudele
E la terribil voce, e quei lamenti
Son de' figliuoli della Terra i gridi,
Che nel fondo del Tartaro sepolti
Bestemmiano di Giove orribQmente
La dura onnipotenza, e si travolvono
Mugolando e fremendo nel gran baratro,
E forsennati le catene addentano
Che i corpi immani eternamente avvincono.
Ma più che la caligine profonda
Che con livido velo grave pesa
Sulle torve lor cij^a, più che tutte
Del fulmine le firesche cicatrici
^•4^ CANTO seooudo i3i
Ond'han le fronti ancor stridenti e rosse,
Più che i rabidi seipi onde gli sferaa
L^imperadrìce dell'eterno pianto
Tisifone crudele, e con gran voce
AlFopra degli straij e de* tormenti
L'aita invoca delle rie sorelle,
Più che tutto li croccia e li dispera
La rimembranza del perduto empirò^
E Parido pensiero ai dolci rivi
Sempre ritoma dell'ambrosia, e sempre
All'orecchio rimormora la fonte
Del nettare divin, che giù dal balzo
Fresco discende del nevoso Olimpo ,
E de' beati le convalli irriga.
Né mai penetra di conforto, mai
Altra stilla nel cor dei dolorosi,
Che la memoria delle prische imprese,
E l' immortai sublime sentimento
Dell'antico valor, quando del cielo
Pugnar sui campi con egual coraggio,
Ma con arme inegual. Titani e Numi
Per la conquista del maggior de' troni.
Seminata di filmini stridea
Tutta in fuoco la terra, il mar bolliva
Con orrendo gorgoglio, e sotto il pondo
De' combattenti e all'impeto de' piedi
Vacillando gemea l'oppresso Olimpo.
E in cielo e in terra, e tra la terra e il cielo
Tutto era tuoni e folgori e rimbombo
E spavento e rovina e foco e fumo^
E smarrita la via per lo terrore
Avean le stelle, né restaro immoti
Che d'Atropo e del Fato i ferrei troni.
AUor di fiamme e di rabbiosi venti
Pregna la terra, con immensa doglia
Sentì dentro snodarsi le grand'ossa
2Ì2 IL PROMETEO <"' 494
E scindersi le viscere; e con vasto
Scoppio squarciato in quattro parti il seno,
Die per quattro gran porte tenebrose
Al furibondo Tartaro Tuscita,
Ond^egli all^aura le sue vampe erutta:
Ed una la vallea di Menfi ammorba,
L^altra i lidi Gumani (ed oh! sol uno
Fosse questo il fetore, Italia mia,
Onde attempi, in che vivo, acerbi e tristi
Si corrompe e s^attosca il tuo bel cielo!).
Aprì la terza le sue fauci in mezzo
Alle Tesprozie rupi, e Faura infece
Di Bitinia la quarta; alle quai tutte
L^infamia poscia e Fabborrito nome
D^ Acheronte rimase. E queste sono
Deirinfemo le gole, e primi fiiro
A piombarvi trafitti e capovolti
Grinfelici Titani, e a intronar primi
Di gemiti e stridori il morto regno*
Ad ascoltarne il doloroso grido
Della mesta vorago in su la soglia
Stavasi fermo di Giapeto il figlio;
E fira i diversi orribili lamenti ,
Che per Tantro scoppiando un indistinto
Facean tumulto e un mormorio crudele,
Udir del padre gli parca la voce
Che su Palma gli suona. Immantinente
Gli corse il pianto su le ciglia; e come
Pietà di figlio Pesortava, e il core
Persuadendo gli venia nel petto.
Di cercar colà dentro si dispose
Le paterne sembianze, e satisfarsi
D^un solo sguardo, d^un accento solo
Dopo tanto desio. Da questi sproni
Punto adunque il magnanimo, e vincendo
Carità di natura ogni riguardo.
•'• ^^ CAHTO SECONDO a33
Si mise dentro alla tartarea buca.
Oh del Giel, della Terra e degli Dei
Antenato tremendo e genitore
Elrebo negro! Oh tu dell^ombre eteme
Possente regnator Saturnio figlio,
Al cui severo tribunal tremanti
Si presentan le colpe, .e coa allegra
Fronte secura la virtù mendica:
Deh ! nel mondo sepolto a questo pio
Dato sia penetrar, che anch'esso è Nume,
Benché infelice, e del tuo sangue, o Pluto^
Né stolta brama di rapir lo guida
A te lo scettro, ed alle Parche il fìiso,
Ma pietà che al suo cor dolce ragiona
E desiderio del paterno aspetto.
Per intricate vie caliginose
Tacito e cauto Prometèo cammina ,
E soletto, soletto^ che portando
Sul cor Fusbergo del sentirsi puro ,
Altra seco non vuole in quel periglio
Che del suo solo ardir la compagnia.
Più s'inoltra, più libero e spedito
Si dUata il sentiero, e più vien meno
n suon pur anco de' lamenti uditi.
Ben sente quasi ad ogni muover d'anca
Un acuto fischiar d'aria divisa.
Un gemere di spirti, ed un bisbiglio
Che mai non tace, e non é mai lo stesso:
E son l'ombre de' morti che novelle
Passan dai regni della luce a Dite,
O che senza destino e senza pena
Per quei mesti silenzi erran confusi^
Perocché di ragion l'anime prive,
Prive allor d'ogni colpa ivan sotterra,
Né dell'urna era d'uopo e della verga
De' due giusti frate! che Creta un giorno
a 34 'I* PBOMBTBO •'• ^^
Avria -mandati a giudicar gli estinti*^
Né d^Avemo il noTello imperadore
In quella prima novità di regno
Ben disposte peranco e divisate
Dell^orrende sue case avea le' sedi,
E i futuri dellWm premi e castighi.
Scarclie quindi che son. di polpe e d^ossa,
Per Pabisso volando a lor talento,
Van quell'anime nude, ove men trista
L^aria sospira e men la hice è muta.
E montagne vi sono e valli e boschi
Di cupo orezzo, e susurranti rivi,
Ove dell'ombre i vaili simulacri,
Che sembrano persona e salda cosa,
Andar vedi e venire e vagolare
Quai lascive farfalle a primavera.
Che le d'oro spruzzate ali- battendo
Deliban tutti i giovanetti fiori,
E paiate con gentil lubrico volo
Fan tripudii per Paria e dilettose
Zuffe e carole^ parte si dispergono
Per le floride fratte , e de' fanciulli
Deludono con fughe repentine
L'avida mano e la proterva speme:
E tali di quell'ombre a riguardarle
Son le guise, le cure e le follie.
Altre con vano pueril trastullo
Di falsi fuochi per lo suol guizzanti
Inseguono la vampa fuggitiva
Che brillando le invita e le schernisce^
Alti'e nel gorgo tuffansi d'un rio,
E vi fan bolle gorgogliando e spuma,
E godonsi tra' sassi andar coU'onda
Travolte e rotte, e mormorar con quella^
Altre han altro diletto^ e qual cogliendo
Va per la riva delle Parche il fiore.
^'^^ CAUTO SBCOSDO a35
L^sJmo narciso^ e ne fa serto al crine^
Qnal si piace a volar di ramo in ramo
Gorgbeggiando sue dolci cantilene,
Che Paure ed i ruscei de^ luoghi inferni
Con ignoto piacer stanno ad udire^
E chi corre, e chi giace, e chi staggirà
Solingo e muto per solinghe rie;
E chi tien questo insomma, e chi quel modo
Di spender Torà in quei lugubri esigli,
Ove pianto non è, ma di sospiri
Senz'angoscia e dolor Paria sol trema,
E TÓta di dolcezza entra la gioia.
Con sollecito piò per questi abissi
Di Sol, di gaudio e di tormento privi
n coraggioso Prometèo cammina;
Né fermasi a badar su quegli spirti
Senza merto vissuti e senza colpa;
Ch'altra cura lo punge, altro desio.
Già de' fiumi d'Àvemo ode vicino
L'alto rimbombo, già sul margo è giunto
Del funesto Acheronte. E qui di nuovo
Più forti e chiare e di spavento piene
Dei Titani tonar sentaa le grida
Che, confiise e commiste al fragor cupo
De' torrenti infernali ed al tri&uce
Latrar che i regni della morte introna,
Sospesero i suoi passi, e palpitogli
Di novella pietà l'alma compresa.
Qual fervido poledro, a cui non abbia
Dome ancora le groppe il cavaliero,
Se di trombe ode il suono o di tamburo ,
Gonfia le nari, e irrequiete e, ritte
Vibra incontro al rumor le acute orecchie
Con erto collo e fiammeggianti sguardi;
Tal si fece a quegli urli, a quel profondo
Disperato compianto il pio Titano :
a 36 IL PROMETEO ••• ^^^
E più vivo nel petto risorgendo
Il sublime desio che lo conduce ,
Di Caronte va lungo la riviera ,
Vestigando la barca afiumicata.
Né Megera gli mette al cor paura,
Né Paltre di Pluton tremende e nere
Sacerdotesse ch6 di là dal fiume
Gli fan su gli occhi con minacce crude
Risonar le ceraste e le catene.
^ E già venuto il prode era là dove
Le quattro delUinfemo orrende vie
Fean centro in una^ e in infinito spazio
Dilatato PÀvemo, im^infinita
Volta di bronzo il serra e Io coperchia ,
Sopra la qual sdegnosi e procellosi
Fan peso ed urto delPEusino i flutti,
E rionio e PEgéo col mar che doppio
D^Italia bagna e di Sicilia i lidi,
E Tonda che da Libia e da Cirene
Va fino a Calpe a flagellar le rive.
E ben quando la porta Eolo disserra
Alle tempeste ed ai lottanti venti,
Che furendo s^aggrappano e con ira
Volan dell^onde a rabbuffar la faccia,
Ben si sente laggiù degli sconvolti
• Mari il muggito, che muggir fa tutte
Dell' EIrebo le valli e le caverne,
E lo scettro tremar nel pugno a Pluto^
Perocché teme allor Torrido Dio
Che dal fiero dell'onde agitamento
Del sotterraneo mondo affiiticati
Si fendano i convessi, e la firatema
Onda giù piombi a divorar Fabisso.
Né va senza ragion la sua paura;
Che rimbombar vicine ode sul capo
Del superno tridente le percosse.
^•M CÀUTO BKGOinx) ^37
E del cielo infemal crollarsi intomo
I firmamenti yede, e i suoi grand' archi
Screpolati e scommessi, onde con vasta
Ruina il mar nell'Erebo dilaga
Per molte bocche, e con si gran caduta,
Che sono al paragon zampilli e spruzzi
Dell^Àniene e del Velino i flutti.
Da queste cieche cateratte origine
Han le cinque d'Avemo atre fiumane ,
Flegetonte , Acheronte , e Faltre due
Del Pianto e dell'Obbho, colla tremenda
Inesorata Stige , che divise
Bagnano tutte una diversa arena,
Donde diversa traggono per via
La qualitade, il nome e la possanza.
Arrestossi dinanzi alla rovina
De' lividi torrenti il Giapetfde,
In suo cammin smarrito e in suo consiglio ^
Che salma viva non ancor calcata.
Né segnata d'Avemo avea la strada,
Nò il Fato consentia ch'oltre quel punto
Ei procedesse nel viaggio impreso.
Mentre dubbioso del sentiero errava
Per le' squallide rive, e l'ascendente
Vapor dell'onde contendea la vista ,
Ecco lungo la via che spaziosa
Dall'Egìzio Acherusio declinando.
Sotto il Libico mar conduce a Dite,
Ecco ratto venirne alla sua volta
Un luminoso volator, che 0 capo
E i talloni d'aurate ali guemito
La pigra e queta oscurità d'Avemo
Con sollecite penne affaticava.
E un'ombra lo segufa, che in negro velo
Serrata e chiusa con dolor superbo
Fin sopra il mento nascondea la faccia.
s38 a. PKOMBTBO "• 7IO
n Cìlleiuo Mercurio era quel primo ,
CShe Talme esangui al Tartaro sospinge,
E al Tartaro le invola a suo talento.
Della Titania gente era il secondo
Un fìilminato, a coi di sotto al manto
La recente ferita ancor fomaTa,
E faville mettea per lo sentiero.
Come dinanzi al suo congiunto venne,
Stupita si fiermò Fombra velata,
Lo guardo, lo conobbe , e il manto aprendo:
Oh fratello, esclamò, dolce fratello.
Oh sei tu che qui veggo e alfin ritrovo
Dopo tanti sospiri? - E si dicendo,
Con gaudio die in Avemo è sconosciuto,
Gli corse al collo, e lo si strìnse al petto.
Nò Pabbracciato a ravvisar fu tardo -
L^infelice Menerio, il tanto in terra
Desiato e ricerco suo germano.
Dal di che in ciel precipitosa avvenne
Dei percossi Titani la caduta ,
Lo spavento divise e lo scompiglio
I fratelli abbattuti j e due coll^ahna
Genitrice Qimene agli erti gioghi
Si ricovrir de' Maiiritani adusti,
Menezio valoroso e Atlante sa^o;
E gli altri due minor, Paccorto e il folle,
DeU'inospito Caucaso alle rupi.
Iterando gli amplessi, e confondendo
Gol pianto le parole: E qual, dicea
L'intenerito Prometèo, qual diro
Destin ti porta alTinfemal castigo?
E che piaghe son queste? e chi commise
Sulle tue membra si crudel vendetta? «-^
n lembo della veste insanguinata
Appressò quel dolente alle pupille ,
E tergendo le lagrime, rispose:
•'•74^ CASTO 'Sbcoudo aSg ^
Percbè del padre sulla ria sTenlara
Versai qualche di pianto occulta stilla,
E contro Giove al labbro mio permisi
Alcun lamento, e lo cliiamai tiranno,
Per questo sol, col fiilmine poc^anzi
Il dispietato mi percosse il petto. — *
Disse, e di rabbia e di dolor- firemente
La ferita guardò, che , rispondendo
Allo sdegno del cor , fé sangue e fumo.
Chinò le ciglia pensierose allora
L^ascoltante fratello^ e poiché muto
Si stette alquanto, a dimandar seguia:
Dinne, misero, dinne, se pur conto
T^è il suo destin, dov'è la madre? dove
Atlante nostro 7 perocché novella
Mai di lor non pervenne a queste orecchie ,
Da quel momento che lo strai di Giove
Il genitor ne tolse, e noi raminghi
Per lo mondo disperse e ne disgiunse. *—
E Taltro a questo replicò: La madre.
Misera madre e sconsolata vedova,
Mal sostenendo degli affanni il carco.
Fra gli scevri di colpa e di pensieri
Miti Etiopi si ritrasse , e quivi
Di lai contrista la patema casa^
Né le dive sorelle Ocèanine
Quetar ponno i suoi pianti, e tutte indamo
Son le tenere cure e le parole
Del venerando genitor canuto ^
Che qualunque ne^ mali é più soave
All'anime conforto, ella il rifugge^
E sol de' figli e del consorte a lei
Dolce è il ricordo, e di ciò sol si pasce.
Ma di Prometeo suo ripete il nome
Principalmente, e a tutte Fonde, a tutti
Del mar lo chiede e della terra i Numi.
^ 240 IL PIOMBTBO •'•7*»
Né d^ Atlante men empia è la fortuna^
Che pur sovr'esso esercitò crudele
n supremo Tonante il suo dispetto.
E qual fu colpa nel £ratel punita?
Uaver del cielo ne' tremendi campi
Per la causa più giusta combattuto,
L'aver dimostre in perigliosi tempi
Magnanime yirtudi^ altro non.puote
Maggior delitto un oppressor punire.
Perciò del cielo la gran vòlta impose
Sulle valide spalle all' infelice ^
Ed ei sotto il gran pondo or geme e suda
Miseramente, ed un funesto inoltre
Vaticinio lo turba, che fatali
Ancor di Giove gli saranno i figli.
Ma te qual caso, o sospirato e pianto
Caro fratello, con intatta salma
Per questi luoghi di dolor conduce? — '
La patema pietà, l'altro rispose. —
E qui tutto volea di sue vicende
n tenor riferire e la cagione ^
Ma l'alipede Dio contro il suo petto
Della verga abbassò gli angui temuti,
E quel pietoso ragionar sospese:
Elsci, ardito Titano, esci, dicendo.
Di questo luogo: temeraria e senza
Voler del Fato fu la tua venuta,
E il Tartaro già chiama impaziente
Ne' suoi gorghi quest'ombra alla sua pena.
Allor misero un grido i due germani
Di dolor, di pietade^ e ad ambedue
Tutte a un tempo s'apersero le braccia,
E volandosi incontro desiosi,
L'un sul collo dell'altro abbandonossi.
Si confusero i volti, e con parole
Da singulti e da lagrime impedite
*''*^ CANTO SBCOZfDO %^l
A vicenda sbadiva: — Addio, Menezio. —
Addio, Prometeo mio. — Non rivedremci
Forse più mai. — Mai più, fratello. — Oh dura
Divisìon cbe Panima mi spezza ! —
Oh pensier che Tinfemo mi raddoppia! —
Laggiù Pamato genitor saluta. —
Lassù consola la dolente madre. —
Digli che per desio del suo cospetto
Fin rAvemo tentai. — Dille che scesi
Di ciò sol fra gli spenti addolorato,
Del saperla infelice. — Un altro amplesso. —
Un altro bacio. — E non avrian qui dato
AU^abbracciar mai fiuie, al lagrimare,
Se Mercurio quell^ombra non battea
Col sonnifero scettro. Allor la misera
Come guizzo di folgora si sciolse
Dalle braccia fraterne, e mormorando
Dileguossi per Fiuìa tenebrosa
Via compaia di vento o di baleno.
Misero Prometèo! che cor, che mente
Fu allor la tua, che andar vedesti in nebbia
Quelle care sembianze, e con lor tutta
Sparir la gioia di sì dolce vista?
Stupido, immoto, e con aperta bocca,
E con le braccia spalancate ancora
Si rimase gran pezza ^ e simulacro
Detto lo avresti agli atti, alla figura.
Se viva cosa noi mostrava il pianto
Che tacito scorrea dalla pupilla.
Come la mente si riscosse, e desti
Tomaro i sensi al consueto ufficio,
A ricalcar si die Torme battute
Col viso a terra. Ma contrario al piede
Il pietoso pensier facea cammino^
E fuor delle dannate ombre lo sguardo
Il Sol già rivedea, che Palma ancora
Laggiù nelPOrco immaginando errava.
DEL
PROMETEO
CANTO TERZO
Qoal Teggiamo talvolta, o veramente
Awisiam di veder per le nottame
Ombre gli spettri abbandonar le tombe,
E vagar per le case e per le vie
Quando pallida in ciel move la luna
E susurran le magbe i carmi orrendi^
Tal di stigia caligine cosperso,
Smorto le guance ed irto i crini, uscia
n buon Titano dall^ infema buca^
E frattanto del mar lungo la riva
Con fanciullesco studio Epimetéo
Or cogliendo venia concbS e lapilli,
De^ qua! ripiene aver godea le mani
E colmo il grembo^ or neghittoso i flutti
Iva contando, cbe canuti e rocbi
Faticavano il Ijdo^ e, in quella vana
Cura sepolto, del fratello avea
Posta in obbbo Pimpresa ed il periglio.
Come sopra gli venne alla sprovvista
n rabbuffato Prometèo, die, cólta
Da subita paura, un alto grido
Quell^anima di .senno diminuta,
E tutte a un tempo le fuggir dal pugno
Le raccolte crepunde, che cadendo
Fér strepito sul piede e balzo al suolo.
Rise a quell'atto Prometeo dW riso
^ IL PROXBTBO, GAHTO TBHZO 24^
Che a fior di labbro apparve, e 11 morfo
Dall^ affanno del cor represso e spento.
Da tutto quin:di il manto e dai capelli
La fuliggine scosse, che, simile
A tenue fumo, leggermente all'aura
Volvendosi, levossi e si diffuse.
Poi mani e volto ad un vicin ruscello
Diligente lavando, alle primiere
Sembianze ritornar fé la persona^
E livida e macchiata in lunga riga
Corse quellWda mormorando al mare.
Quindi tacito e mesto, e tutto quanto
Pieno il pensier delle vedute cose.
Sospirando riprese il suo cammino;
E Finsano fratello, a cui ben queti
Non ancor permettea la tema i polsi,
Palpitando il seguia, che per rispetto
Del firatemo dolor, non che parlare.
Non ardia quasi calpestar Farena.
Chi ha notato Fandar di due devoti
Pellegrini per via, quando a lontano
Riverito delubro han vólto il passo.
Ch'umili il guardo, le man giunte al petto,
E pentiti e confessi, a pie dell'are
Van di lor colpe a dimandar perdono.
Né Fun tujrìba dell'altro il pio pensiero;
S'appresenti cosi di questi due
Il tacer, la sembianza, il portamento.
E a questo modo procedendo, e fatti
Muto Fun per dolor, l'altro per tema.
Della bruna Propontide spediti
Attinsero la riva. Allor dappresso
n muggito gli scosse ed il conflitto
Delle ferenti Cianée, che quinci
Venfano e quindi con superbe fronti
Al fatai cozzo orrendo. A tergo poscia
a44 ^ PROMETEO ^- ^
Lasciar Tarena, a coi dar Fossa e il nome
n malaccorto Cizico dovea^
Lascia d^Asepo il' povero ruscello,
E Percola ed Arisbe, e quello stretto
A cui die grido fra le genti etemo
Di Serse il ponte e di Leandro il fitto.
Qui spalanca Fflgéo le sue gran gole,
E inghiotte e vome del Proponto il flutto;
Qui s'affiiccia la terra ove sdegnosa
Con mille prode tutta Grecia venne
Del trojano adulterio alla vendetta,
Donde infinito ai generosi ingegni
Di poesia s^aperse immenso fiume
Quando il gran padre delle Muse Argive
L'ira cantava del Pelide Achille.
Di qua getta nel mar Fombra il Sigéo,
Di là solleva il Gàrgaro la cima
Della gran madre degli Dei primiero
Gradito all^ergo, e più gradito a Giove,
Che quivi le procelle e i lampi e i tuoni
E le folgori addusse e Faureo carro
Quando giunse stagion nel suo consiglio
Di far Teucri ed Achèi dolenti e tristi,
E maturo fìi d'Ilio il gran destino.
Come passar dinanzi i Giapetidi
Alla sacra di pini ombrosa selva,
Udir per entro a quella alto di timpani
E di bossi e di cembali uno strepito,
E tal di danze e canti e di grand'ululi
Una fervida fiiria, ed un percotere
Di lance e scudi, che ne trema il*monte ,
E ne rimbomba lungamente il lido 5
Che beata nel mezzo a quel trambusto
Siede in trono Cibele, e in cor ne gode,
E mansueti sulla riva intanto
Vanno errando del Xanto i suoi leoni
**• ^ CAUTO TERZO a 45
Di nettare pasciuti , e le forbite
Giubbe d^ambrosia rugiadosi e molli.
D^orror compreso e di pietà calcava
Questa d^ acerbi fati e di sventure
Gravida terra il viator Titano,
Che correr sangue in suo pensier vedea
Simoenta e Scamàndro, e lagrimava.
E la balza salendo, ove con Febo
Di Pergamo la rócca avria Nettuno
Per avara mercè sospinta al cielo,
E patteggiata la fatica indamo
Delle destre immortali: Oh Ilio, ei disse,
Oh futura di Numi e di guerrieri
Casa infelice ! oh rendi , alfin deh ! rendi
Questa druda fatai. Ve^ che le fiamme
Già ti porta nel sen, ve^ che in tuo danno
Congiurata de^ Numi è la reina.
Che le tue spose per le chiome afferra,
E crudel le riversa nella polve.
Ve^ Pallade Minerva, aspra donzella,
Che percote coll^asta le tue mura,
E dissolve le torri. A Menelao
Rendi, misera, rendi Fimpudica^
Spezza r imbelle cetra al profumato
Suo rapitor, scompiglia a quel codardo
Gli adulteri capelli, e al greco ferro
Del suo sangue assetato Pabbandona.
In lui le spade, in lui gli sdegni, o Greci,
In lui che solo è reo. Nulla commise
Ettore, nuUa, che aver troppo amata
La patria terra e della patria i Numi. ^
Ahi chMo parlo alle rupi, e inesaudita
Porta il vento che passa, la mia voce! —
Disse: e quale è colui che sulla sabbia
Calcò Torrida biscia, alla cui vista
Spicca il salto fuggendo, e della cruda
Morti. Poemetti. i^
a46 IL PmOHETEO "• *H
Aver già pargli nel calcagno i denti^
Tal moss^egli le piante, e queUa terra
ÀUe furie devota abbandonava.
Sulla rupe di Tenedo sedato
Stavasi intanto ad ascoltar Nereo
Quei tremendi destini , e in suo pensiero
Facea conserva delle cose udite.
Poi, come venne il di che fuggitivo
Trasse per Tonde suU^antenne Idee
Il perfido pastor la Greca infida,
Frenò Tali de^ venti, e, queti i flutti,
Sciolse a volo novello i lagrimosi
Fati dal labbro del Titano usciti,
Finché a stagion più tarda in su la lira
Del numeroso Yenosin posarsi.
Dolce diletto di latine orecchie.
DelPEllesponto intanto in su la riva
Rabbuifato e pensoso il Giapetide
Stampava di profonde orme Tarena,
Che garrula e minuta si sentia
Strider sotto i gran passi, e a tergo il vento
Ne fea turbine e rote e suo trastullo.
Nudo allora e diserto era quel lido
E inonorato^ ma di forti eroi,
Che di sangue bagnar Tlliaca terra.
Gli dier le tombe sempiterna fama,
Quando di Grecia il fior, quando de^ Numi
GPincUti figli in riva al mar coperse
Polvere poca ed una rozza pietra.
Quindi grido suonò, che maestose
Or sul dorso de' turbini e dell' onde.
Or sulle penne di notturne aurette.
Lunghesso il mar vagando e trasvolando
Van quell'ombre divine, e dei passati
Illustri affanni ragionando insieme^
L'ombre, io dico, d'Àjace e di Pelide,
•'• »70 CANTO TERZO I^J
E delPamico di Pelide, e quella
Di Palamede, che deirempia frode
D^Ulisse ancora si lamenta e freme.
Ma romito in disparte e sospirando
Va d^Ettore lo spettro insanguinato.
Che il cener freddo delle patrie mura
Colle mani pur tenta, e de^ suoi baci
E del suo pianto lo riscalda ancora.
Oh pietà non più vista! oh prisca fede!
Oh generoso della patria amore
Che segue le grand^alme anco sotterra!
Già di Cilla, d^Àntandro e d^Adramitle
Alle spalle restata era la costa,
E del Caico il pie premea le sponde,
Dell^ameno Caico, che del primo
Fonte pentijto mormorando or volve
Fra nuove ripe più contento i flutti.
Quindi il torbido d'auro Ermo trapassa,
E del Mimante in lontananza vede
Le nebulose spalle, a cui fioccando
Fa velo delle bianche ali la neve,
E curvargli sul capo il suo belParco
Gode beata la Taumanzia figlia ,
Ch'ivi pose il suo trono, e serenate
Gli fan sgabello le tempeste al piede.
Del canoro Caistro alla riviera
Giungea la prole di Giapeto intanto.
E qui de' cigni traversando i prati,
Che la dolce del fiume onda rallegra.
Tosto una ninfa occorsele alla vista,
Che al portamento, agli atti, alla sembianza
Palesava ima Dea. Qual vi conduce,
Diss'ella, o cari pellegrin, ventura?
Di che luogo? chi siete?, e qual poss'io
Far cosa che vi piaccia? Arbitra sono
Di queste rive, dell'ospizio i santi
;48 IL JPROMTETEO •*• *^
Dritti, conosco, e la rirtude onoro. —
Disse. E a rincontro Prometèo rispose:
Oh qualuùque ta sia degP Immortali
Che sì benigna movi le parole,
Del misero Giapeto al tuo cospetto
Tu vedi i figli. Per voler del Fato
Dal Caucaso scendemmo, e ci sospinge
Oltre il mar che n^è contra, alto pensiero.
Deh! se risponde al favellar cortese
In celesti sembianti alma gentile ,
Danne aita a varcar Tonda sdegnosa^
Che noi siamo, noi pur, stirpe divina,
Ma sventurata, e dal sommo caduta
DelPantico splendor. Sola ne resta
Del cor Faltezza, incontro a cui di Giove
Vane son Parme, ed impotenti i tuoni.
Dinne intanto il tuo nome, onde onorarie
Qual conviensi possiamo, e del cor grato
Manifestarti umilemente i sensi. —
Disse. E Paltra rispose: Asia son io.
Del gran padre Oceàn figlia non vile.
Son tre mila nel mar le mie sorelle ,
Ed io qui starmi soHtaria godo
Dei dolci laghi del Caistro oscura
Abitatrice, e del perpetuo canto
De^ soavi suoi cigni innamorata.
Questa che vedi placida palude ,
Dal mio nome si noma^ e qui pur giunse
Delle vicende di Giapeto il grido.
Né van senza pietà le sue sventure.
Se il Caucaso ti manda, e se verace
Corse la fama, Prometeo tu sei:
Si, tu certo sei desso, e il cor che pria
Di vederti t'amava, assai mei dice^
Che di te ragionar sovente intesi
Il mio canuto genitor, che molti
•'• ^ CAUTO TERZO 2 49
Del tuo senno e valor dicea bei fatti
Nelle gaerre d^Olimpo, e molti aiFanni
Per la pugnata libertà del cielo.
Quindi giungi, mei credi , o generoso ,
Del maggior de^ Titani inclito seme,
Desiato e gradito a queste rive.
E spoltre il mar ti spinge alto destino,
Avrai da me, cbe a compiacerti aspiro,
Qual più vuoi d^opra e di consiglio aita. —
La sua man , sì dicendo , alla man pose
Del Giapetide, e in riva al mar Taddusse,
Che infinita stendea dinanzi al guardo
Mormorando la tremula pianura.
E qui giunta spiccò veloce al corso
Sull^azzurro cristallo il pie d^argento;
Né toccarlo parca, né seguitarla
Potea Tacume di mortai pupilla*
Lascivo il vento le gonfiava il seno
Del bel ceruleo velo, e steso a tergo
Iva il crin somigliante ad una stella
Cbe di nembi foriera per la queta
Notte del ciel precipita, e fa lungo
Dopo so biancheggiar solco di luce.
Sacra in mezzo del pelago a Nettuno
E a Doride si cole un'isoletta ,
Che mobile per Fonda e senza tregua
Qua e là veloce eamminar si vede
Come a suo senno il vento l'affatica.
À questa, cbe notando allor facea
Del Galcidico mar spumanti i flutti,
Volse il passo la Diva, e così disse:
O tu, qual più ti piaccia esser nomata,
Del magnanimo Geo casta figliuola
Asterie, o suora di Latona, o Delo,
O veramente Ortigia, il corso afirena,
O beata isoletta, e la preghiera,
aSo U* PROMETEO ♦*• »7*
CVio Dea del mar ti porto, odi cortese.
Stassi d^ Ionia sull^opposta riva
Un saggio di Giapeto inclito figlio
Che, dai Fati sospinto e da sublime
Pensier che in petto generoso annida,
Air altra sponda tragittar desia.
Vieni airuopo pietosa, e tal n^avrai
Laude e mercede, che per fama un giorvo
Diverrai delle Gicladi la prima. —
Si disse, e Delo a quel pregar benigna
Voltò ratta le prode ^ e, traversando
Come penna di vento il mar placato.
Corse alla foce del Caistro, e, dolce
Radendo il lido che tacca, rimpetto
Àll^aspettante Prometèo si stette.
Appressò le sue sponde^ e in lei d^un salto
L^illustre Giapetide impresse il piede,
E il germano raccolse, e seguitollo
Asia, la figlia d^Oceàn, che farsi.
Siccome amor le ragionava al core ,
De^ suoi fati consorte ebbe desio.
Di tanto passegger maravigliose
Accorser tutte le Deliache Ninfe,
Di sé facendo un cerchio, e da^ suoi gorghi
Fuor mise il capo e fino al petto apparve
Per vederlo Flnópo: e il vate intanto,
Mercè rendendo al beneficio, e i lieti
Fati imminenti col pensiero aprendo:
Godi, o Delo, dicea, Delo, t^ allegra^
Che tua fama s^appressa. Ecco la Diva
Che il più bello de^ Numi in grembo reca,
E per vendetta di Giunon non puote
Terra al parto trovar che la riceva.
Fugge Corcira innanzi alla meschina,
E TEchinadi fuggono, e FAmbracia
Fra i Celesti cagion d^alta contesa.
'• 3l4 CANTO TERZO a5i
Né del canuto Àpidano la sponda,
Né di Larissa, né di Tempe immota
Si riman la pianura. Oh Pelio! oh talamo
Di Filira famoso! afanen tu resta,
Restati, e della Dea pietà ti prenda,
Poiché sovente sulle balze tue
Le honesse vengono e le tigri
A depor de^ lor fianchi il crudo peso.
Oh sacri del Penéo fronzuti allori ,
Date voi la vostr^ombra, ed accogliete
Questa affiinnata cui manca la lena,
Ed ir più oltre il pie stanco ricusa!
Ohimè, che tutti per terror di Giuno
Yoltan la fironte! Ohimè! la ripa ancora
Dell^Enipéo sen fugge e delPÀnauro,
DelFÀnauro che mai nebbia non vide,
Né mai di vento un sol sospiro intese.
E già veggo da lungi i folti pioppi
Dello Sperchio tremar, veggo le querce
Camminar del santissimo Elicona,
E le danze lasciar le Melie Ninfe
Di meraviglia prese e di paura.
Fugge d^Onchesto il sacro bosco*, fugge
Stretto alla man delle attenete figlie
Il fragoroso Ismen. Ma tu che pigro
Dal fulmine di Giove ofiesa ancora
Porti la coscia, perché fuggi, Àsopo?
Temprerà di fuggir quando le sacre
Onde ai Giganti sitibondi ofiristi ,
E ne lavasti nella gran fontana
I polverosi fianchi e le ferite
Onde hai le spume ancor macchiate e sozze.
Ahimé! tu non m^ ascolti, e il tardo passo
Cogli altri affretti^ e dcirilisso intanto
E del Sunio sassoso e delFEuripo
L^onda stupisce nel sentir repente
25 a IL PROMETEO ^- ^^
Farsi sotto il suo pie veloci i lidi.
Né dell^ errante Dea men sorda ai preghi
Di Pelope è la terra. Ella pur fngge^
E fuggono con lei quante d^intomo
Isole fanno del fervente Egèo
Go^ gran fianchi spumar Tonde sdegnose.
Oh misera Latona! oh dispietata
Di Giunon gelosia! Tu sola, o Delo,
Non fuggisti, tu sola , e sul Pangéo
Colla terribil asta invan percosse
Marte lo scudo, invan Iri dalPerta
Ti sgridò del Mimante, e la vendetta
Ti minacciò dell^iraconda Giuno^
Che in te poteo pietà più che paura.
Cresci, o palma gentil, che della Diva
Farai colonna al travagliato fianco,
E pietosa dovrai deUMmpedito
Suo lungo parto alleviar la doglia^
Cresci, e Flnópo a te salubre ognora
Somministri Pumor, né le tue fironde
Verno giammai, giammai tempesta ofienda^
Ma dolce Taura t^accarezzi, e dolce
Ti bagni la rugiada, e a te ghirlanda
Faccian le Ninfe di perpetue rose^
Che a te sola serbar, pianta cortese.
Le Parche il vanto d^aìtar di Febo
Il natal faticoso. Allora, o Delo,
Tu porrai d^auro i fondamenti, e d^auro
Intero un giorno scorrerà Flnópo,
E tutte pur fian d^auro le catene
Onde a Giaro e Micone eternamente
Awinceratti il tuo divino alunno ,
Al tuo lungo vagar ponendo il fine.
Né si cara sarà Ceneri a Nettuno,
A Mercurio CiUene, a Giove Creta,
Come Delo ad Apollo. Oh Delo ! oh cuna
'• 586 CAUTO TSKSO a53
Del signor deUe Muse e della luce^
Salve! Né mai con sangoinoso piede
Ti giunga Marte a calpestar, né mai
S^accjuisti Plato in te ragione alcuna.
Salye, o terra beata, e sempre suoni
Sul labbro de^ poeti il tuo bel nome. —
Così deirahna dolorosa Dea,
Che i due begli occhi partorì del cielo ,
Profetava gli affanni e le fatiche
n buon Titano^ e colla foga intanto
Di colei che le penne al tergo mise
Del sangue lorda del figliuol suo stesso,
Navigava per Tonda la divina
Cuna d^Àpollo. ÀI suo passar festose
Sporgean dalFonde il capo a mano a mano
Le sorelle isolette, e salutarla
Parean d'intorno ed onorarla a gara,
Finché Ceneri radendo e dell'angusto
Schene la proda nell'estremo grembo
Del Saronico mar rattenne il corso.
Qui riposata e lieve in su l'arena
L'errante Delo i passeggeri espone.
Poi veloce dispiccasi dal lidd,
E nell'alto si spinge come strale
Che da partico. nervo si disfrena:
Mentre una dolce melodia da lunge
S'udia, che l'onde e l'aure innamorava^
E del beato In<5po eran le figlie
Che cantando soave e carolando
Ivan pel gaudio de' promessi onori.
Ma di gravi pensier carco la mente.
Poiché le tanto sospirate arene
Toccò l'accorto Giapetide, alzando
Gli occhi, e del rauco Citeron l'opposte
Selve mirando: O Ninfe, ci disse, o care
Delle ruvide querce alme figliuole,
fk54 ^ PROMETEO •'• 4>3
Che ligie al fato de^ materni tronclii
In lor la vita, in lor la morte avete,
Qualunque vi raoeolg;a o monte, o sacro
Di foreste recesso e di fontane ,
Oreadi saltanti ed Amadrìadi
E Driadi e Napee, voi ricevete
Cortesi il figlio di Giapeto, e voi
Del vostro Nume la sua santa impresa
Secondate pietose. E tu dal Fato
A mille prove di valor serbata,
Inclita terra, non volermi avara
Dal tuo grembo cacciar, ma la virtude
Che in te pose natura, e nel tuo seno
Move la vita, liberal mi scopri^
Che certo, o terra al Ciel più ch'altre cara.
In te vive uno spirto che possente
Nutre il tuo corpo, e per le vene infusa
Una mente tUnvade e ti penetra,
Che de' tuoi figli passerà nel petto,
E madre ti fai*à d'alme divine.
Oh ! chi mi trae d'Eurota in su le rive ,
Chi dell'Ismen mi chiama e dell'IIisso
Sui campi bellicosi? E quai di Sparta
Nomi ascolto e d'Atene, onde commosso
Ferve il pensiero, e l'ahna si solleva?
Salve, culla d'onor, salve ricetto
Di libertà. Tutte a' tuoi danni invano
Armerà l'Asia le sue forze, invano
Farà, per darti le catene, oltraggio
Di temerarii ponti al mar d'Abjdo ^
Che di braccio servii fiacca è la spada
Contro liberi petti, e sol sa vincere ai>
Chi sa morir. — Così parlando, e molto
Ragionando per via col suo pensiero.
Verso il monte cammina, che sublime
n ciel ferendo colla doppia fironte.
• 4M CAUTO TBRzo a55
Da lungi il guardo al pellegrino atvisa.
Lamasso lo nomar le genti prime;
Or, mutato il valor del nome antico,
Parnaso è detto, e più fiunoso ha grido.
Cupa e vera dW Dio stanza temuta
S^apre a pie di quel monte una spelonca,
Ove, del ciel dimentica e preposti
Al talamo di Giove i queti onori
Dì soggiorno terren, Temide pose
Il suo peplo, il suo trono e i sacri tripodi
A lei da Vesta concedati , e poscia
Ad Apollo donati il dì clie fatto
Fu re del canto e delle caste Muse.
Sul limitar delPantro tenebroso
Stava Finclita Dea nel suo gran seggio
Gravemente seduta, e in suo pensiero
Dell^ avvenir presaga, il giorno, i fati
Maturando vem'a, che dell^accorto
Suo buon nipote promettean Parrivo.
Come il vide da lunge alla sua volta
Co' due compagni taciturni al fianco
Per la valle appressar, rizzossi in piedi.
Liete incontro gli stese ambe le palme.
Ne lagrimò di gioia, e così disse:
Finalmente venisti, e la tua rara
Verso Fuom doloroso alta pietate
Vinse il duro cammin. Ma ben più dura.
Sappilo, 0 figlio, ti rimane impresa,
E di duol più feconda e di perigli.
Fi a redenta per te la stirpe umana,
Non dubitarne, e leverà sublime
Dalla polve natia la fronte al cielo.
Ma Tinvidia di tal, che meno il debbe.
Farà cara costarti opra sì bella;
Impunemente non sarai pietoso ,
E vedrai sventurato a lunga prova
256 IL PROMETEO *'• 494
In tuo danno tornar la tua yirtude*
Ohimè! che parlo? e tu in chi poni, o figKo,
Cotanto beneficio? Ahi duri, ingrati
Umani petti! Ahi qua&to sangue e quanti
Veggo delitti! ed in qual uso, ahi lassa!
Converso il dono di ragion divina !
Tu non far che ti domi la sventura^
Ma dovunque ti mena il tuo destino,
Più ardito vanne ad incontrarla, e vinci. —
Cosi dicendo lo si strinse al petto
Pietosamente, e di più largo pianto
Rigò gli occhi divini. Asia, la figlia
Del profondo Oceàn, piangea pur ella,
E r amor che segreto il cor le tocca ,
Quell^abbondante lagrimar tradiva.
Pianse anch^esso il fratello, e solo asciutte
Restar del forte Prometèo le ciglia.
Muto stava ogni labbro , ed atterrata
Ogni pupilla. Alfin Feroe quel mesto
Silenzio ruppe coraggioso e disse;
Ninna di stenti, o Diva, e di fatiche
Faccia mi giunge inopinata e nuova:
Tutto ho in mente concetto e presentito
Che da te mi s'annunzia, e del futuro
Tutta ho dinanzi la presenza orrenda.
Ma vile è Topra che sudor non costa,
E negli afl&mni esulta e nei perigli
La verace virtù. Dolce mi fia
Aver la fronte di tempeste oppressa,
E nel petto portar Palma serena.
Securi ir lascia e fortunati e lieti
Solo i grandi delitti, e questo s'abbia
Infame vanto il mio nemico, il figlio
Dell'astuto Saturno; egli che crudo
E ciel mi tolse e padre, e mi persegue
Sol perchè tormi la virtù non seppe.
«*• 53o CÀ5T0 TEKZO ^S'J
Ma qual dinanzi al Sol che in alto poggia,
Passa r invida nube e non V offende,
Quale il mar con irate onde lo scoglio
FlageUa ed egli più torreggia e sta;
Tal di Giove fia Pira e il mio disprezzo. —
Disse; e dUndugio impaziente all'opra
Che nel cor gli fervea, volse F ingegno:
E Temide era seco, alma datrice
Di coraggio, di senno e di consiglio.
DEL
PROMETEO
CANTO QUARTO
( FRAMMENTO INEDITO )
Prima e sola cagion che moto e vita
A tutte impresse le create cose,
Alma natura , che tue sante leggi
Rivelasti ai mortali, e la grandezza
Sempre narri di Lui ch^è tuo principio
Ed in te sola il suo poter palesa
D^etemo padre coetema figlia,
Tu i primieri deU^uom preghi e sospii*i
Ottenesti adorata ; e quanti in terra ,
Nel mar, nelPaere, in ciel produci effetti,
Tanti fiiro gli Dei che, generati
Dall^umano timor, volto e figura
Elbher diversa ed unico Pohbietto.
Tutto si move nel tuo vasto seno,
Tutto si cangia, e nulla ha morte, nulla
Assoluto riposo, né conobbe
Vecchiezza mai né decremento il mondo ^
Che d^ ottimo, operoso ente fattura,
Ottimo ei pure e necessario esiste^
Né più lente che pria né più veloci
Move il tempo le penne, o il ciel le rote^
Che qual sempre girò, tal sempre ei gira ,
E sempre girerà vario e perfetto.
Te dunque invoco, o santa madre, o grande
Potentissima Dea, che cento avesti
DaU^argivo saver sembianze e nomi,
<"• ^ IL PROMETEO, CANTO QUARTO aSg
Or Tellure chiamata, or Opi, or Vesta ,
Ed or Diana dalle molte poppe.
Te che Venere ancor godi nomarti,
Riso de' numi e de' mortali, ond' hanno
I fecondi elementi e spirto e vita,
Te prego che vestir Pale ti piaccia
Al mio pensiero, e pronto all'intelletto
Un sol raggio mandar di cjuella luce
Che da te piove, ed egualmente liete
Fa l'erbe in terra e nell'Olimpo i Soli^
Perocché la più grande e la più beUa
Or dell'opre a cantar m'accingo, o Diva,
Di che tu stessa in onoranza dèi
Altissima levarti e superbire:
L'uomo, io dico, animai su gli altri tutti
Ammirando e divin, l'uomo di tutti
Gli enti mischianza e de' contrarii tutti.
Se di fole velando intanto io vegno
Del ver la faccia, se di dolce ascréo
Aspergo le severe alte dottrine.
Non delle Muse, tu lo sai, ma colpa
Del mondo è tutta,
onde colei
Che dal sonno ti sveglia e il cor ti sprona.
Un' emula in te svegli, una sorella.
E lo sarai ^ che tu pur chiudi in petto
Alma gentile, e in te pur disfavilla
Sopito si, ma non estinto, il foco
Che il figlio addusse di Giapeto in terra.
Com'egli al ciel lo tolse, e quali e quanti
Seguir perigli la leggiadra impresa,
A cantar m'apparecchio^ e ciò che dentro
Significa la Musa, accenno e scrivo.
VARIANTI DEL PROMETEO
toUe dall'edizione dì Milano, presso la Società degli Editori
degli Annali Unifersah delle Sciènte e delt Industria ,
MDCCCXXXÌI.
L'EDITORE
Nella stampa di questo poema ho seguita, per quanto è per-
messo j la lezione del primo canto pubblicato nelt anno 1797 in 8."
coi torchi del Marsigli in Bologna. Ivi pure era stata incomin"
ciata la edizione del secondo canto j ma tiratone il primo foglio ^
che giungeva al verso 383
E di quante calpetUno 1* Olimpo »
r autore sospese la continuazione dell'opera^ ed il foglio nonfopub^
blicato. Nella stessa città però nefocero una ristampa nel iSijgli
Editori delle opere del Monti sopra un esemplare^ dicon essi, forse
unico che rimaneva^ cui poterono avere dalla gentilezza di un amico.
Ed io a questa mi sono attenuto.
Ma dove finiscono le stampe bolognesi^ alle quali ho data la
preferenza perchè somministrano la lezione dalV autore stesso de-
stianta alla pubblica luce (ed egU soleva sempre dar V ultima mano
a' suoi lavori nella correzione che foiceva della stampa), ho seguita
dedizione di Milano del i832 delle Opere inedite e rare di Vin-
cenzo Monti.
Qui è da notare che quelli che procurarono quest* edizione po^
slama j introdussero nel primo canto i cambiamenti che il Monti
aveaci fotti negli ultimi anni della sua vita , quando proponevasi
Monti. Poemetti. >7
262
di ristringere il poema al solo Vaticìnio di Prometeo. Per lo che
vedendo essi che la nuova prò tasi, concepita come segue:
Del Giapetìde PronwtÀ) l' antico
yaticinio, die tatto il Tario giro
Srolge de' mali all' oom ddaao addotti
Dal temerario ennir d'EpimelA>,
Libero canterò, se quella Diva
■ Che nede in cima aOa mia mente e viro
Sotto il din bianco ancor ne serba il foco, tee. ,
vedendo essi, dico, che la nuova protasi troppo ristringeva fidea
del poema, di cui volevano pubblicare la continuazione del secon^
do cantone tutto il terzo, trovati fra i manoscritti del poeta, sti-
marono opportuno di riferirla in una nota a/rAyyertiineiito degli
Editori , e nel testo innestarono i primi versi deir antica protasi
della stampa bolognese, E dovettero ancora giustificare in una nota
al poema la ripetizione dei versi:
E in quel lacro furar tutto rapito
Che i secoli sormonta, e alla potente
Interna rista 0 tuxbine Telooe
Dell' umane vicende sottomette , (*)
che nasceva dalV avere il Monti trasportati pròna alcuni versi che
leggonsì pia avanti in un luogo ch'egli avrebbe cangiato se avesse
terminato di rifondere questo primo canto, per ridurlo a stare da
sèj come già in altri tempi avea fritto colla Musogonia,
Perciò, oltre la ragione di già accennata di preferire la lezione
stampata a quella che fautore riserbava alla lima membraois intus
positis, non ho voluto imitare gli Editori del i832j introducendo
nel poema le mutazioni che avevano per fine di limitarne il sog-
getto. Le pongo peto qiU in seguito perchè non ne sia defraudato
il lettore che amasse di riscontrarle colla primitiva lezione.
(*) y. a cart. 3o e 43 del Yolumc II deli' ediàone del i832.
VARIANTI DEL PROMETEO
CANTO I.
V. 8.
Del SQO favor m'aita, e non disdegna
V. II al 34.
Ma de' suoi duri àifanni, 0 mio pensiero,
Qaal da prima direm? Forse la pena
Della rapita audacemente al Sole
Vita] fiammella, che costò sì cara
Sulla scitica balza al rapitore?
Questa già fu di tragiche querele
Alto subbietto su le scene argive ,
E- per sentier di grandi orme stampato
Debil piede non corre. O di Giapeto,
Innanù a tutto, oe' celesti campi
Canterem la magnanima caduta,
Quand' ei co' fieri suoi fratelli incontro
Stette alle forze del Saturnio figlio ,
E lungamente del poter de' suoi
Fulminei strali dubitar lo fece?
Certo il grande conflitto, onde prostrata
Giacque d'Urin la generosa prole,
Che di sorte minor, ma non d'ardire,
Del ciel paterno la ragion perdea,
Di gran suono potrebbe empier la cetra ,
E d' un bel serto al crin farmi 1' acquisto.
Ma de' Titani e degli Dei si chiara ,
Si sublime rimbomba la battaglia
Nel grave canto dell' Ascreo poeta,
Che ogni altro si fa muto: e la sua lira
•7*
264 YARlAim
Al maggior lauro di Parnaso appesa
Del gran cieco vicina alla gran tuba
Nullo è sì stolto che toccarla ardisca.
Dair umile mio verso adunque lungi
Di queir allo certame la mina,
li tumulto, il furor; lungi il fracasso
Delle scagliate rupi , e il gran muggito
Della terra e del mar; lungi T orrendo
Sibilar delle folgori, e degli astri
Spaventati la fuga, e l'infinito
Tuon che tutte tremar dai fondameuti
Facea le cime del conteso Olimpo.
Fuggitivo dal cielo in quell'amara
Sconfitta , e ascoso nel segreto seno
Delle caucasee grotte, un canto chiede
Di pietoso tenor, canto di pace
Il solitario Prometeo, che seco ec.
V. 5o.
Primo degli astri tentator felice.
V. 55.
Pel cui folle ardimento in su la terra
V. 76.
Volse anco ai bruti il guardo, e tutte manche
V. 87.
£ di partirlo fra gli umani e i bruti
V. io3.
Timor prendendo di cotanto incarco,
V. ia6.
(Manca questo iferso neW edixìone milanese.)
V. 134.
Al morto regno, se di voi taluno
V. i36.
Nel tencbrofio Tartaro profondo
V. 145 e 146.
Dileguossi ciò detto , e si nascose.
V. 157.
L'agitando e scotendo onde un avanzo,
V. 164.
Il già vuoto vascl , che cupamente
V. 167.
{ Manca questo i'crso ncir c(ti\tonc milanese. )
DEL PROKETEO ^65
V. 171 a 179.
{Mancano pure questi versi neltedù(^. milanese,)
V. 197.
{Manca questo iferso nettedi^. milanese.)
y. 199 e 200.
{jÌ questi due versi tedù^, miL sostituisce i seguenti:)
A qnei preghi, a quel piaoto, il miglior figlio
Di Giapeto guatò con un sospiro
Il pentito fratello: indi raccolto
In sé medesmOi con lo sguardo chino,
In un pensiero entrò che gli coperse
D'oscura nube la severa fronte.
Poi tutto faoco i rai, foco le gote,
Del remoto futuro entro gli abissi
Spinse la mente, che l'antica Temi
Lunga stagion gii ayea nella divina
Grand' arte de' profeti esercitata,
£ in quel sacro furor tutto rapito
Che i secoli sormonta e alla potente
Interna vista il turbine veloce
Dell'umane vicende sottomette,
Aprì le labbra finalmente, e disse:
Dura ec.
V. 219.
Ond' anco ai Numi mi pareggio , e tutta
V. 2^8.
Che te dall'ira del tiranno astuto
V. a3o e aSi.
Né duolmi, no, del tuo destin; che pochi
Son gli affanni ove poco è l'intelletto;
y. a38, a39 e a 40*
Poco ti parve al bruto aver largito
Scaltrezza, ardir, prudenza, e la virtude
Che antivede e proyvede e mai non erra,
y. a56.
L'arte infelice di crear le brame.
y. a59.
Ni col rastro gli è d'uopo, 0 coli' aratro
y. 262 al 264 •
Dolci veleni ad ammorzar la sete.
£ fortunato ancor, che contra i nembi,
Contra il furor ec.
1l66 TAKIÀHTI
V. ise.
Indossar gli è bisogno , né la fiamma
V. 279 e a8o.
Atterrito con fiochi e Innghi lai,
All'ingrato mortai pronunzia , e grida
y. 3o3 a 3io.
{Mancano questi versi neWedixione milanese.)
V. 3i4.
Or tremando di gelo, or da'cooenti
V. 3ai e 3aa.
Parando adesso la sua spoglia ai soli
Quadrupedanti per ec.
V. 329, 33o e 33i.
Quanta beltate al suo sembiante è tolta!
V. 332.
Squallido, sozzo, rabbuffato ed irlo
V. 421.
Costumanze, follie, morbi ed errori.
V. 4499 4^0 e 4^i<
Indi strappando con ardita mano
Il vel cbe l'opre di Natura asconde,
Alfio dal seggio, ec.
V. 490 al 520.
(A questi versi l'edii^. milanese sostituisce i seguenti:)
Per lui mendica la virtà, per lui
Prostrato il morto al pie della superba
Ricca ignoranza, e con nefandi incensi
Adorata, ahi delirio! anche la colpa.
E guai se il rio metallo avrassi in pugno
Queir avversaria d'ogni patto, e d'ogni
Malvagità maestra e consigliera
Ambizioni La prepotente e astuta.
Non pur la terra usurperà, ma il cielo.
Quindi (iniquo mercato!) alla perversa
L' amico un giorno venderà 1' amico ,
Il padre i figli, e della patria i santi
Dritti perfido ed empio il cittadino;
A lei spergiuro le battaglie, e il sangue
De' suoi prodi guerrieri il capitano;
A lei le rócche il traditor custode;
E per leir nelle fervide fucine
DEL PROMBTBO 267
Vnlcan sodando io omicidi arnesi
Stancherà i polsi e i mantici e la possa
De' sonori martelli; e gli daranno
Air opra aiuto le inyentrici Erinni,
Onde r arte di tórre all' nom la yita
Di tutte venga un di la più perfetta,
E più spedita la terribil via
D'acqubtar colle stragi e gloria e regno,
Di sangue empiendo e di delitti il mondo.
Oh Marte! ec.
V. 533.
Tu rompesti primiera, e contra i padri
V. 536 al 539.
E calpestando con allegro piede
Squarciate membra , e tronche teste , e bocche
V. 54 f.
In tepida di strage atra laguna,
V. 544.
Mentre ancor sulla gota a calde gocce
V. 548.
( Questo verso non leggesi nelt edizione milanese. )
V. 55i.
Air uom grida : Mortai^ perdona ed ama.
V. BS'i,
E r uom sordo a quel grido , e dai fischianti
V. 559.
E tradimento, ambizione e forza
V. 563, 564 e 565.
Va degli orfani figli e delle madri
Asciugando ec.
V. 56Qy 567.
Furtive, ahi lassi 1 e al mesto cor sol note,
Poiché aperto dolor colpa saria.
V. 568 al 585.
( Questi versi non si leggono nell' edizione milanese. )
V. 588 al 592.
( Idem. )
V. 616.
Che tutto fece traballar l'Olimpo,
E ridestarsi a nuoya vita il mondo.
V. 617 al 808.
{Questi versi non si leggono nell'edixione milanese.)
•ì68
VAllIÀlfTI
CANTO II.
V. 3.
Con dimesso sembiaDte e guardo chino
V. 9, IO e II.
Perchè di mezzo all'acque una sublime
Immensa larva sollevaya il petto,
Che con ambe le man martelli e chiovi
V. i5.
Aquila incontro gli venia di brame
V. 37.
Delle nuvole squarcia il fosco velo
V. 39.
Che tutto allegra del suo riso il mondo.
V. 41 e 4a.
Dalla pioggia chinato, e contro il Sole
Fan cristalline tremolar le perle
V. 62.
Gli folgorò, che pur d'un sasso accesa
V. 65 al 70.
Toccar di destra non taiortal nel petto
Gli fiammeggiò ec.
V. 72 al 80.
Con questa al fianco amica guida invitta
Assalendo la larva minacciosa.
L'animoso Titino oltre si spinse.
Né lo scosse il suonar delle catene.
Né l'avventar di quei bramosi artigli.
Che cessero qual fumo al suo passaggio,
E come vento gli rombar sul petto.
Uscito ec.
V. 99-
Ne r inclito Vulcano i ferrei tori,
V. loi.
Fatto un di palpitar l' amante maga
V. ii5.
E voi di Minia lo saprete un giorno
DEL PBOMBTCO ^6g
V. lai.
E del muliebre Tibareno i lieti
y. 143 al 148.
Deir avaro terreo, qod l'elee e rorno»
Ma l'uman petto impiagheran crudeli,
E.gli sdegni che un detto ed un sorrìso
Nascenti or spegne, e il cor gli avvisa appena,
Non si vedranno allor, lasso I morire
Se non di sangue già satolli e lordi.
Ecco gli antrì , o fratello , e le caverne
Che ignota dall'aperte orrende bocche
Metton paura, e diverran fra poco
Di quell'empio lavor l'empie fucine.
V. i5a.
£ assister liete all'infemal fatica
V. i54.
Le discordie, le rìsse e le contese
V. iSg.
Alle fiirie, ai disastri ed alle colpe,
V. 176.
Femminile remeggio ancor battuta.
V. ao5.
Con un dolce soffiar feria la fronte
V. 207.
Muggia frattanto il mare, e quel muggito
Nella quiete universal del mondo
Scendea mesto sul cor, ma dilettoso.
E verso tramontana in lontananza
Un rugghio ec.
V. aa3.
Tutti al guardo mostrava i suoi splendori
V. a8o.
Gli argentei morsi e le dorate briglie,
V. 287, a88 e 289.
Popolo audace^ che valor vi porta
Fortuna e fama, e fra perìgli e stenti
Libertà combattuta. Ecco la belva.
La forte belva dalle bionde giubbe.
Che nelle vostre arene s'accovaccia,
E co' ruggiti ingombra e con gli sguardi
Di tema intorno e riverenza i lidi
1^0 YÀmunn bel paohbteo
Arbitra sola dell' adriaco flutto.
Oh Dovella, ec.
V. 298.
In pace e in gaenra li faran famosa.
V. 299 e 3oo.
( Questi versi non si leggono nelt edizione milanese.)
V. 3o3.
Gh' altre por vi saran inclite mara
y. 3o9 al 348.
( Questi persi non si leggono nelT edili. miUnese. )
IN MORTE
DI
LORENZO MASCHERONI
CANTICA
(ntmmt»ri)
AVVERTIMENTO DELL AUTORE
PREMESSO ALL^ EDIZIONE MILANESE DKLL^NNO 180I.
Ben provmk alla dignità delle Muse quella legge
del disino LicurgOy la quale vietava V incidere ^ non
che il cantar versi sulla tomba degli uomini volgari^
non accordando quésto alto onore che alle anime ge-
nerose e della patria benemerite. Non sarò dunque,
spero j accusato di aver violato il decoro di questa
legge, prendendo a cantare di Lorenzo Mascheroni di
Bergamo- Insigne matematico^ leggiadiv poeta ed ot-
timo cittadino, egli ha giovato alla patria, illustrandola
co" suoi scritti, conquistando nuove e peregrine ve-
rità alViunano intendimento , provocando con gli au-
rei suoi versi il buon gusto nella primogenita e pia
sacra di tutte le arti, nella quale son pochi tuttavia
i sani di niente^ e molti i farnetici eiciunnadori. Egli
ha giovato finalmente alla patria lasciandone V esempio
delle sue virtù: beneficii tutti meno strepitosi , gli e
vero, ina piti cari e d'assai più durevoli che tanti al-
tri partoriti o per valore di armi y o per calcoli di
mercantile e sempre perfida e scellerata politica. Le
repubbliche greche e la romana son morie; il tempo
274
ha divorate le conquiste di Alessandro e di Cesare;
pochi anni bastarono a distruggere il frutto delle fa-
mose ^ornate di Maratona e di Salanùna ; ma dur
rano tutta^ per conforto delT umanità i divini pre-
cetti di Socrate: e la luce uscita dalle selve deU^Ac^
cadenda e del Tusculo j superata la caligine e i de^
litti di tutti i secoli, illumina ancora e illuminerà
eternamente gli umani intelletti, perchè la venta sola
e la virtù sono immortali.
Ma ti sei tu proposto, dirà taluno, di piangere qui
soltanto la perdita del tuo amico ? Noi so : le cagioni
del piangere sono tante. Guai a colui che a dì no-
stri lui ocelli per vedere, e non ha cuore per fremere
e lagrìmareì
Lettore, se altgm^nte and la patria, e sei verace
Italiano, leggi; ma getta il libro, se per tua e nostra
disavventura tu non sei die un pazzo demagogo, o
uno scaltro mercatante di libertà.
IN MORTE
SI
LORENZO MASCHERONI
CANTO PRIMO
Come face al mancar dell^ alimento
Lambe gli aridi stami, e di pallore
Veste il suo lume ognor pia scarso e lento;
E guizza irresoluta, e par che amore
Di yita la richiami , infin che scioglie
L^ ultimo Tolo, e sfavillando muore:
Tal quest^ alma gentil, che morte or toglie
All'italica speme, e su lo stelo
Vital, che rerde ancor fioria, la coglie;
Dopo molto affannarsi entro il suo velo,
E anelar stanca su F uscita, alfine
L'ali aperse, e raggiando alzossi al cielo.
Le Virtù, che diverse e pellegrine
La vestir mentre visse, il mesto letto
Cingean, bagnati i rai^ scomposte il crine:
DeUa patria Pamor santo e perfetto.
Che amor di figlio e di fratello avanza.
Empie a mille la bocca, a dieci il petto:
L'amor di libertà^ beUo, se stanza
Ha in cor gentile; e se in cor basso e lordo,
Non virtù, ma furore e scelleranza:
L' amor di tutti , a cui dolce è il ricordo
Non del suo dritto, ma del suo dovere,
E, P altrui bene oprando, al proprio è sordo
!kj6 IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI
Umiltà, che fa suo Y altrui volere:
Amistà, che precorre al prego e dona,
E il dono asconde con un bel tacere:
Poi le nove Virtù che in Elicona
Danno al muto pensier con aurea rima
L^ali, il color, la voce e la persona:
Colei che gF intelletti apre e sublima,
E col valor di finte cifire il vero
Valor de^ corpi immaginati estimai:
Colei che li misura, e del primiero
Compasso armo di Dio la destra, quando
n grand^arco curvò deU^ emispero^
E spinse in giro i Soli, incoronando
L^ ampio creato di fiammanti mura,
Contro cui del caosse il mar mugghiando,
E crollando le dighe, entro la scura
Eternità rimbomba, e paurosa
Fa del suo regno dubitar Natura:-
EIran queste le Dee , che lamentosa
Fean corona alla spoglia , che d^un tanto
Spirto, di vita nel cammin, fii sposa.
Ecco il cor, dicea Puna, in che si santo.
Sì fervido del giusto arse il desiro:
E la man pose al core, e ruppe in pianto.
Ecco la dotta fironte, onde s* aprirò
Sì profondi pensieri, un^ altra disse:
E la fironte toccò con un sospiro.
Ecco la destra, ohimè ! che li descrisse,
Vem'a sclamando im^ altra: e baci ardenti
Su la man fi*edda singhiozzando affisse.
Poggia intanto quell^ alma iaJle lucenti
Sideree rote, e or questa spera, or quella
Di sua luce Y invita entro i torrenti.
Vieni, dicea del terzo ciel la stella:
Qui di Valchiusa è il cigno, e meno altera
La sua donna con seco, e assai più bella ^
CANTO PRIMO ^77
Qui di Bice il cantor, qui P altra schiera
De^yati amanti^ e tu, cantor lodato
D^un^ altra Lesbia ', ascendi alla mia spera.
Vien, di Giove dicea F astro lunato:
Qui riposa quel grande che su TAmo
Me di quattro pianeti ha coronato.
Vien quegli occhi a mirar, che il ciel spiamo
Tutto quanto^ e, lui visto, ebber disdegno
Veder oltre la terra, e s' oscuramo •.
Tu, che dei raggi di quel divo ingegno
Filosofando ornasti i pensier tui,
Vien^ tu con esso di goder se^ degno.
Ma di rincontro folgorando i sui
Tabernacoli d^oro apriagli il Sole^
E vieni , ei pur dicea, resta con nui.
Io son la mente della tt^rrea mole ,
10 la vita ti diedi, io la favilla
Che in te trasfuse la Giapezia prole.
Rendimi dunque V immortai scintilla
Che tua salma animò ^ nelle regali
Tende rientra del tuo padre, e brilla.
D^ Italo nome troverai qui tali
Che deU^ uman sapere archimandriti
Ài tuo pronto intelletto impennar Tali.
Colui che strinse ne^suoi specchi arditi
Di mia luce gli strali, e fé parere
Cari a Marcello di Sicilia i liti :
Primo quadrò la curva dal cadere «
De^projetti creata, e primo vide
11 contener delle contente sfere ^.
Seco è il Calabro antico ^, che precide
. Alle mie rote il giro, e del mio figlio
La sognata caduta ancor deride.
Qui Gassin, che in me tutto aflisse il ciglio^
Fortunato così , cV altri giammai
Non fé più bello del veder periglio
s
Monti. Poemetti. >8
aj8 IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI
Qui Bianchii!, qui Riccioli, ed altri assai
Del ciel conquistatori, ed Orì'ano,
L^ amico tuo, qui assunto un dì vedrai ^
Lui che primiero dellMntatto Urano ^
Co' numeri frenò la via segreta,
Orian degli astri indagator sovrano.
Questi dal centro del maggior pianeta
Uscian richiami, e: Vieni, anima dia,
Par eh' ogni stella per lo ciel rìpeta.
Sì dolce udiasi in tanto un'armonia.
Che qual più dolce suono arpa produce,
Di lavoro mortai mugghio saria.
E il Sol sì viva saettò la luce,
Che il più puro tra noi giorno sereno
Notte agli occhi saria quando è più truce.
Qual tra miUe foretti in prato ameno,
Vago parto d' aprii, la fanciulletta,
Disìosa d'ornar le tempia e il seno,
Or su questo, or su quel pronta si getta,
Vorria tutti predarli, e li divora
Tutti con gli occhi ingorda e semplicetta:
Tal quell' alma trasvola, e s'innamora
Or di quel raggio ed or di questo, e brama
Fruir di tutti, e niun l'acqueta ancora;
Perocché più possente a sé la chiama
Cura d' amore di quei cari in traccia,
Che amò fra' vivi , e più fra gli astri or ama.
Ella di Bord»7 e Spallanzan la faccia,
E di Parin sol cerca; ed ogni spera
N'inchiede, e prega che di lor non taccia.
Ed ecco a suo rincontro una leggiera
Lucida fiamma che nel grembo porta
Una dell' alme di cui fea preghiera.
Qual fti suo studio in terra, iva l'accorta
Misurando del cielo alle vedette
L'arco che l'ombra fa cader più corta.
CANTO PRIMO a^g
Oh mio Loreozo ! — Oh Borda mio ! Fur dette
Queste, e non più, per lor, parole: il resto
Disser le braccia al collo avvinte e strette.
— Pur ti trovo. — Pur giungi. — Io piansi mesto
L^ amara tua partita, e su latino
Non vii plettro il mio duol fu manifesto.
— Io di quassù r intesi , o pellegrino
Canoro spirto, e desiai che ratto
Fosse il voi che dovea farti divino.
— Anzi tempo , lo vedi , fu disfatto
Laggiù il mio frale. — Il veggo, e nondimeno
tf Qual di te lungo qui aspettar s^ è fatto ! n —
Cosi confusi r un delP altro in seno ,
E alternando il parlar, spinser le piume
Là dove fa la Lira il ciel sereno^
D^ Orfeo la Lira, che il paterno nume
D^ auree stelle ingemmò, mentre volgea
Sanguinosa la testa il tracio fiume :
E, misera Euridice! ancor dicea
L^ anima fuggitiva^ ed Euridice,
Euridice, la ripa rispondea.
Conversa in astro quella cetra, elice
Si dolci i suoni ancor, che la dannata
Gente, gli udendo, si faria felice.
Giunte a quell^onda d^ armonia beata
Le due celesti peregrine , un^ alma
Scoprir, che grave al suon si gode e guata:
Sovra un lucido raggio assisa in calma,
L^un su r altro il ginocchio, e su i ginocchi
L' una nell^ altra delle man la palma.
Torse ai due che venieno, i fulgid^ occhi.
Guardò Lorenzo, e in lei del caro aspetto
Destarsi i segni dall' obblio non tocchi.
Non assurse però^ ma con diletto
La man protese, e balenò d^un riso
Per la memoria dell^ antico aifetto.
a80 ut MORTE DI LORENZO MASCHERONI
E: Ben giunto, lui disse ^ alfin diviso
Ti se^ dal mondo , da quel mondo , u^ solo
Lieta è la colpa, ed il pudor deriso.
Dopo il tuo dipartir dal patrio suolo,
Io misero Parini il fianco venni
Grave d' anni traendo e più di duolo.
E poich^ oltre veder più non sostenni
Della patria lo strazio e la mina,
Bramai morire, e di morire ottenni.
Vidi prima il dolor della meschina ,
Di cotal nuova libertà vestita,
Che liberta nomossi, e fu rapina.
Serva la vidi, e ohimè ! serva schernita ,
E tutta piaghe e sangue al ciel dolersi
Che i suoi pur anco , i suoi V avean tradita.
Altri stolti, altri vili, altri perversi.
Tiranni molti, cittadini pochi,
E i pochi o muti o insidiati o spersi.
Inique leggi , e per crearle , rochi
Su la tribuna i gorgozzuli, e in giro
La Discordia co^ mantici e co^ fuochi ^
E r Orgoglio con lei, FOdio, il Deliro ,
L^ Ignoranza, V Error, mentre alla sbarra
Sta del popolo il Pianto ed il Sospiro.
Tal s^ allaccia in senato la zimarra ,
Che d^ elleboro ha d^ uopo e d^ esorcismo ^
Tal vi tuona che il callo ha della marra ^
Tal vi trama, che tutto è parossismo
Di delfica mama, vate più destro
La calunnia a filar che il sillogismo :
Vile! E tal altro, del rubar maestro,
A Gaton si pareggia , e monta i rostri
Scappato al remo e a) tiberin capestro.
Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri
Parlar virtude, e sé dir Bruto e Gracco,
Genuzj essendo. Saturnini e mostri.
CANTO PRDffO a8l
Colmo era in somma derelitti II sacco ^
In pianto il giusto , in gozzoviglia il ladro,
E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco.
Venne il nordico nembo , e quel leggiadro
Viver sommerse : ma novello stroppio
La patria n^ ebbe , e V ultimo soqquadro.
Nella fiumana di tanta nequizia,
Deh! trammi in porto, io dissi al mio Fattore^
Ed ei m^ assunse allMmmortal letizia.
Né il guardo vinto dal veduto orrore
Più rivolsi laggiù, dove soltanto
S^ acquista libertà quando si muore. .
Ma tu, che approdi da quel mar di pianto,
Che rechi? Italia che si fa? Cartiglia
L^ aquila ancora? O pur del suo gran manto
Tornò la madre a ricoprir la figlia ?
E Francia intanto è seco in pace? O in rio
Givil furore ancor la si periglia?
Tacquesi^ e tutta la pupilla aprio
Incontro alla risposta alzando il mento^
Compose V altro il volto , e quel desio
Fé del seguente ragionar contento.
CANTO SECONDO
Pace, austero Intelletto. Un^ altra volta
Salva è la patria: un nume entro le chiome
La man le pose, e lei dal fango ha tolta.
Bonaparte. .. ^ Rizzossi a tanto nome
L^ accigliato Parini, e, la severa
Fronte spianando, balenò, siccome
Raggio di Sole che, rotta la nera
Nube , nel fior che già parca morisse ,
Desta il riso e Tamor di primavera.
Il suo labbro tacca ^ ma con le fisse
Luci , e con gli atti dell' intento volto ,
Tutto, tacendo, quello spirto disse.
Sorrise V altro ^ e poscia in sé raccolto :
Bonaparte, seguia, deUa sua figlia
Giurò la vita, e il suo gran giuro ha sciolto.
Sai che col senno e col valor la briglia
Messo alla gente avea che si rinserra
Tra la libica sponda e la vermiglia.
Sai che il truce Ottomano e d' Inghilterra
L'avaro traditor, che secco II fonte
Già dell'auro temea ch'India disserra,
Congiurati in suo danno alzar la fronte,
E denso di ladroni im nembo venne
Dall' Eufrate ululando e dall' Oronte.
Egli mosse a rincontro, e noi rattennc
Il mar della bollente araba sabbia^
I vortici sfidonne e li sostenne.
IN MORTE DI L. MASCHERONI, CANTO SECONDO 283
Domò del folle assalitor la rabbia *,
laffa e Gaza croUamo, e in Ascalona
Il britanno fellon morse le labbia.
Ciò che il prode fé poi, sallo Esdrelona,
Sallo il Taborre, e Fonda che sul dorso
Sofferse asciutto il pie di Bariona.
Sallo il fiume che corse un di retrorso,
E il suol dove Maria, siccome è grido,
DelPuomo partorì Paltò soccorso.
Doma del Siro la baldanza, al lido
Folgorando tornò , che al doloroso
Di Cesare rivai fii si mal fido;
E di lunate antenne irto e selvoso
Del funesto Àbukir rivide il flutto ,
E tant^ oste che il piano avea nascoso.
Ivi il firanco Alessandro il firesco lutto
Vendicò della patria, e Tonde infece
Di barbarico sangue, sì che tutto
Coprì la strage il lido, e lido fece.
Quei che il ferro non giunse, il mar sommerse,
E d^ ogni mille non campar li diecc.
Ahi gioje umane d^ amarezza asperse !
Suonò fira la vittoria orrendo avviso,
Che in doglia il gaudio al vincitor converse.
Narrò V infamia di Scherer conquiso ,
E dal Turco , dall^ Unno e dallo Scita
Desolato d^ Italia il paradiso.
Narrò da pravi cittadin tradita
Francia, e senza consiglio e senza polo
Del governo la nave andar smarrita.
Prima assalse FEroe stupore e duolo.
Poi dispetto e magnanimo disdegno ,
E ne scoppiò da cento affetti un solo :
La vendetta scoppiò, quella che segno
Fu di Camillo all'ire generose,
E di lui che crollò de' trenta il regno.
384 ^ KORTE DI LORENZO MASCHERONI
Così partissi , e al suo partir si pose
Un vel la Sorte d'Oriente^ e Puma
Che d'Asia i fati racchiudea^ nascose.
Partissi^ e di là, dove alla diurna
Lampa il corpo perd' ombra , la Fortuna
Con lui mosse fedele e taciturna^
E nocchiera s' assise in su la bruna
Poppa, che grave di cotanta spene
Già di Libia fendea P ampia Iag:una.
Innanzi vola la Vittoria, e tiene
In man le palme ancor fumanti , e sparse
Della polve di Memfi e di Siene.
La sentir da lontano approssimarse
Le gaUiche falangi, ed ogni petto
DeU' antico valor tosto riarse.
Ella giunse, e a Massena, al suo diletto
Figlio grido: Son teco. Elvezia e Francia
Udir quel grido, e serenar P aspetto.
L' Istro udillo , e tremò. La franca lancia
Ruppe gli ungari petti, e si percosse
Il vinto Scita per furor la guancia.
^ L'udir le rive di Batavia, e rosse
D' ostil sangue fumar ^ e nullo forse
De' nemici rediva onde si mosse ^
Ma vii patto il fiaccato Anglo soccorse :
Frutto del suo valor non coke intero
Gallia, ed obblicpo il guardo Olanda torse.
Carca frattanto del fatai guerriero
Il lido afferra la felice antenna:
Ne stupisce ogni sguardo, ogni pensiero.
Levossi per vederlo alto la Senna,
E mostrò le sue piaghe. Egli sanolle.
Né il come lo diria lingua né penna.
Ei la salute della patria volle,
E potè ciò che volle, e al suo volere
Fu norma la virtù che in cor gli bolle.
GAinro sEGOHDo a85
Ftt di pietoso cittadin dovere,
Fu carità di patria, a cui già morte
Cinque tiranni avean le forze intere.
Fine agli odii promise : e di ritorte
Fu catenata la Discordia, e tutte
Della rabbia civil chiuse le porte.
Fin promise al rigore: e ricondutte
Le mansuete idee, giustizia rise
Su le sentenze del furor distrutte.
Verace e saggia libertà promise:
E i delirii fur queti , e senza velo
Secura in trono la Ragion s^ assise.
Gridò guerra: e per tutto il franco cielo
Un fremere, un tuonar d'armi s'intese
Che al nemico portò per V ossa il gelo.
Invocò la vittoria: ed eUa scese
Finalmente d' un Dio preso il sembiante :
Apriti, o alpe, ei disse: e Talpe aprissi^
E tremò dell'Eroe sotto le piante.
E per le rupi stupefatte udissi
Tal d' armi , di nitriti e di timballi
Fragor, che tutti ne muggian gli abissi.
Liete da lungi le lombarde valli
Risposero a quel mugghio, e fiumi intanto
Scendean d' aste , di bronzi e di cavalli.
Levò la fronte Italia , e in mezzo al pianto
Che amaro e largo le scorrea dal ciglio,
Garca di ferri e lacerata il manto:
Pur venisti, gridava, amato figlio^
Venisti, e la pietà delle mie pene
Del tuo duro cammin vinse il perìglio.
Questi ceppi rimira, e queste vene
Tutte quante solcate. E sì parlando,
Scosse i polsi, e suonar fé le catene.
286 IN MORTE DI LORENZO MÀSCHERONi
Non rispose V Eroe, ma trasse il brando,
E alla vendetta del materno a£Bamno
In Marengo discese fiilminando.
Mancò alle stragi il campo ^ V alemanno
Sangue ondeggiava, e d'on sol dì la sorte
Valse di sette e sette lune il danno.
Dodici rócche aprir le ferree porte
In un sol punto tutte, e gUrlandomo
Dodici lauri in un sol lauro il Forte.
Cosi a noi fece libertà ritomo. —
Libertade? interruppe aspro il cantore
Delle tre parti in che si parte il giorno:
Libertà? di che guisa? ancor V orrore
Mi dura deUa prima, e a cotal patto
Chi vuol firanca la patria, è traditore.
À che mani è commesso il suo riscatto ?
Libera certo il vincitor lei vuole.
Ma chi conduce il buon volere all^atto?
Altra volta pur volle, e fìir parole^
Ghè con ugna rapace arpie digiune
Fero a noi ciò che Progne alla sua prole.
Dal calzato aUo scalzo le fortune
Migrar fur viste, e libertà divenne
Merce di ladri e furia di tribune.
y^eran leggi ^ il gran patto era solenne^
Ma fu calpesto. Si trattò^ ma franse
L^asta il trattato, e servi ne ritenne.
Pietà gridammo^ ma pietà non transe
Al cor de^ Cinque^ di più ria catena
Ne gravamo i crudeli, e invan si pianse.
Vota il popol per fame avea la vena;
E il viver suo vedea fuso e distrutto
Da^ suoi pieni tiranni in una cena.
Squallido, macro il buon soldato, e brutto
Di polve, di sudor, di cicatrici
Chicdea plorando del suo sangue il frutto.
CANTO SBCOHDO 287
Ma r ingliiottono Parche voratrici
Di onnipossenti duci , e gV ingordi alvi
Di questori^ prefetti e meretrici.
Or di: conte all^Eroe che ancor n^ha salvi,
Son queste colpe? e rifaran gP Insubri
Le tolte chiome, o andran più mozzi e calvi?
Verran giorni più lieti, o più lugubri?
Ed egli il gran campione è come pria
Circuito da vermi e da colubri?
Sai come si arrabatta csla gema,
Che ambiziosa, obbliqua entra e penetra,
E fora, e s^apre ai primi onor la via.
Di Nemi il galeotto, e di Libetra
Certo rettile sconcio, che supplizio
Di dotti orecchi cangiò V ago in cetra ^
E quel sottile Ravegnan patrizio
Si di frodi perito , che Brunello
Saria tenuto un Mummio ed un Fabrizio ,
Come in alto levarsi, e fìir flagello
Della patria ! Oh Licurghi ! oh Cisalpina,
Non matrona, ma putta nel bordeUo!
Tacque^ e V altro riprese: La divina
Virtù che informa le create cose ,
Ed infiora la valle e la collina ,
D^ acute spine circondò le rose.
Ed accanto al frumento e al cinnamomo
L^ ispido cardo e la cicuta pose.
Vedi il rio vermicel che guasta il pomo,
Vedi misti i sereni alle procelle
Alternar V allegrezza e il pianto alP uomo.
Penuria non fu mai d^ anime felle ^
Ma dritto guarda, amico, ed abbondante
Pur la patria vedrai d^ anime belle.
Ve^ quante Olona ne fan lieta , e quante
Val-di-Pado, Panaro e il picciol Reno;
Picciolo d^onde e di valor gigante.
288 IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI
Reggio ancor non obblia che dal suo seno
La favilla scoppiò , d^ onde primiero
Di nostra libertà corse il baleno.
Mostrò Bergamo mia che puote il vero
Amor di patria, e lo mostrò V ardita
Brescia, sdegnosa d^ogni vii pensiero.
Né d^ onorati spirti inaridita
In Emilia pur anco è la semenza^
Sterpane i bronchi, e la vedrai fiorita.
Molti iniqui fur posti in eminenza,
E il saran altri ancor ^ ma chi gli estolle
Forse è Quei che vede oltre all^ apparenza?
Mira r astro del di. Siccome volle
n suo Fattore, ei brilla, e solve il germe
Or salubre, or maligno entro le zolle.
Su le sane sostanze e sulle inferme
Benefico del par gli sguardi abbassa;
E s^ uno al fior dà vita e V altro al verme ,
Ciò vien dal seme che la terrea massa
Diverso gli appresenta: egli sublime
E discolpato lo feconda e passa.
Or procede alle tue dimande prime
La mia risposta. Di saper ti giova
Se fia scevra d^ affanno e senza crime
La nuova libertade , o se per prova
Sotto il sacro suo manto un^ altra volta
Rapina, insulto e tirannia si cova.
Dirò verace. E dir volea; ma tolta
Da portentosa vision gli fìie
La voce che dal labbro uscia già sciolta.
Il trono apparve dell^ Etemo, e due
Gli erano al fianco Gherubin sospesi
Su le penne, già pronti a calar giue.
L^uno in sembianti di pietade accesi;
Si terribile F altro alla figura,
Ghe n^ eran gli astri di spavento offesi.
CANTO SECONDO 289
Verde qual prona non ancor matura
Cinge il primo la stola, e qoal di cigno
Apre la piuma biancheggiante e pura.
Ondeggiavano all^ altro di sanguigno
Color le yestimenta , e tinto avea
11 remeggio dell^ ali in ferrugigno.
Quegli d^ olivo un ramoscel tenea ,
Questi un brando rovente^ e fisso i lumi
In Dio ciascun, palpebra non battea.
Dal basso mondo alla città de^numi
Voci intanto saUan gridando: Pace,
Col sonito che fan cadendo i fiumi.
Pace la Senna, pace FElba, pace
Iterava Flbero^ ed alla terra
Rispondean pace i cieli, pace, pace.
Ma guerra i lidi d^ Albione, e guerra
D^ inferno i mostri replicar s^ udirò ,
E r inferno era tutto in Inghilterra.
Sedea tranquillo V increato Spiro
Su r immobile trono, e tremebondo
Dal suo cenno pcndèa V immenso empirò.
La gran bilancia, su la qual profondo
E giusto libra V uman fato, intanto
Iddio solleva, e ne vacilla il moiido.
Quinci i sospiri, le catene, il pianto
De^ mortali ponea ^ quindi versava
De^ mortali i delitti, e a nessun canto
La tremenda bilancia ancor piegava.
Quando due donne di contrario affetto
Levarsi, e ognuna di parlar pregava.
Chi si fur elle, e che per lor fu detto ,
Se mortai labbro di ridirlo è degno,
L^ udrà chi al mio cantar prende diletto
Nel terzo volo dell' acceso ingegno.
CANTO TERZO
Due virtù che nimiche e in un sorelle
L^una grida rigor, P altra perdono,
Gare entrambe di Dio figlie ed ancelle,
Ritte in pie, dell^ Etemo innanzi al trono,
Ecco a gran lite. Ad ascoltarle intenti
Lascian Parpe i Celesti in abbandono.
Lascian le sacre danze, e su lucenti
Di crisolito scanni e di berillo
Si locar taciturni e riverenti.
D^ ogni parte quetato era lo squillo
Delle angeliche tube, il tuon dormiva,
E il fulmine giacca freddo e tranquillo.
Allor Giustizia, inesorabil diva,
Incominciò: Sire del ciel, che libri
Nell^ alta tua tremenda estimativa
Le scelleranze tutte, « a tutte vibri
Il suo castigo : e fino a quando inulti
Fian d^ Europa i misfatti , e di ludibri
Carco il tuo nume ? Ve^ tu come insulti
L'umano seme a tua boutade, e ingrato
Del par che stolto nella colpa esulti 7
Di propria man squarciata intanto langue
La peccatrice Europa, ed Anglia cruda
L' onor ne compra, e coli' onore il sangue.
IN MORTE DI L. MASCHERONI, CINTO TERZO VL^l
Per lei Megera nellMnfemo suda
Armi esecrate, per lei toschi mesce ^
Suo brando è Poro, ed il suo Marte, Giuda.
Che di Francia direm? A che riesce
De^suoi sublimi scuotimenti il fratto ?
Mira che agli altri e a sé medesma incresce.
Potea col senno e col valor far tutto
Libero il mondo, e il fece di tremende
Follie teatro , e lo copri di lutto.
Libertà che alle belle alme s^ apprende,
Le spedisti dal ciel, di tua divina
Luce adomata e di virginee bende;
Vaga si che né greca né latina
Riva mai vista non P avea giammai
Di più cara sembianza e pellegrina.
Commossa al lampo di queMolci rai
Ridea la terra intomo, ed: Io t^ adoro,
Dir pareva ogni core; io ti chiamai.
Nobll fierezza, matronal decoro ,
Candida fede, e tutto la segma
Delle smarrite virtù prische il coro;
E maestosa al fianco le venia
Ragion d^ adamantine armi vestita
Con la nemica delP error Sofia.
Allor mal ferma in trono e sbigottita
La Tirannia tremò ; parve del mondo
Allor r antica servitù finita.
Ma tutte pose le speranze al fondo
La delira Parigi, e libertate
Lì Erinni cangiò ', che fìiribondo
Spiegò r artiglio, e prime al suol troncate
Gadder le teste de^ suoi figli , e quante
Fur più sacre e famose ed onorate.
Poi divenuta in suo furor gigante,
L^ orribil capo fra le nubi ascose ,
E tentò porlo in ciel la tracotante;
293 DI MORTE DI LORENZO lUSGHBROEfl
E gli sdegni imitarne, e le nembose
Folgori e i tuoni, e culto ambir divino
Fra le genti , d' orror mute e pensose.
Tutta allor mareggiò di cittadino
Sangue la Gallia, ed in quel sangue il dito
Tinse il ladro, il pezzente e P assassino^
E in trono si locò yile marito
Di più vii libertà, che di delitti
Sitibonda ruggia di lito in lito.
Quindi proscritte le città , proscritti
Popoli interi, e di taglienti scuri
Tutte ingombre le piazze, e di trafitti.
O voi che state ad ascoltar, voi puri
Spirti del ciel, cui veggio al rio pensiero
Farsi i bei volti per pietade oscuri;
Che cor fu il vostro allor che per sentiero
D^ orrende stragi inferocir vedeste
E strugger Francia un solo, un Robespiero?
Tacque ; e al nome crudel su P.auree teste
Si sollevar le chiome agPImmortali,
Frementi in suon di nembi e di tempeste.
Gli Angeli il volto si velar coU^ ali ,
E sotto ai piedi onnipossenti irato
Mugolò il tuono, e fiammegiàr gli strali.
E già bisbiglia il ciel, già d^ogni lato
Grida vendetta, e vendetta iterava
Deir Olimpo il convesso interminato.
Garca d^ire celesti cigolava
De^fati intanto la bilancia, e Dio,
Dio sol si stava immoto e riguardava.
Surse allor la Pietade ; e non aprio
Il divin labbro ancor , che già tacea
Di queir ire tremende il mormorio.
Gol dolce strale d^ un sol guardo avea
Già conquiso ogni petto. In questo dire .
La rosea bocca alfin sciolse la dea:
CINTO TERZO !Xgì
Alte in mezzo de' giusti odo salire
Di vendetta le grida, ed io domando
Anch' io vendetta, sempiterno Sire.
Anch'io cacciata dai potenti in bando
Batto indamo ai lor cuori, e inesaudita
Vo scorrendo la terra e lagrimando.
Ma se i regnanti han mia ragion tradita ,
Perchè la colpa de' regnanti, o Padre,
Negl'innocenti popoli è punita?
Perchè tante perir misere squadre
Per la causa de' vili ? Ahi! caro i crudi
Fanno il sacro costar nome di madre.
Peccò Francia, gli è ver^ ma spenti i drudi
D' insana libertà, perchè in suo danno
Gemono ancora le nimiche incudi?
Dunque eteme laggiù l' ire saranno ?
E solo al pianto in avvenir le spose,
Solo al ferro e al furor partoriranno?
Dunque Europa le guance lagrimose
Porterà sempre? E per chi poi? Per una,
Per due, per poche in somma alme orgogliose.
Taccio il nembo di duol che denso imbruna
Tutto d' Olanda il ciel, taccio il lamento
Della prostrata elvetica fortuna.
Ma l' affanno non taccio e il tradimento
Che Italia or grava , Italia in cui natura
Fé tanto di bellezza esperimento.
Duro il servaggio la premea ^ più dura
Una sognata libertà la preme.
Che colma de' suoi mali ha la misura.
Su i cruenti suoi campi più non freme
Di Marte il tuono ^ ma che vai, se in pace
Pur come in guerra si sospira e geme?
Prepotente rapina alla vorace
Squallida fame spalancò le porte,
E chi serrarle le dovea si tace.
Monti. Poemetti. 19
'ÌC)\ IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI
Meglio era pur dal ferro aver la morte,
Che spirar nudo e scarno e derelitto
Tra i famelici figli e la consorte.
Deh sia fine al furor , fine al delitto ,
Fine ai pianti mortali, e della spada
Pera una Tolta e de^ tiranni il dritto!
Paghi di sangue chi vuol sangue, e cada^
Ma r innocente viva, e dell^ oppresso
Il sospiro, o Signor, ti persuada.
La Dea qui ruppe il suo parlar, con esso
Le lagrime sul ciglio^ e chi per questa.
Chi per quella fi-emea V alto consesso ,
Qual freme d^aquilon chiuso in foresta
Il primo spiro , allor che ciechi aggira
I susurri forier della tempesta.
Mentre vario il favor ne^ petti ispira
Desì'anze diverse, incerto ognuno
Qual fia vittrice, la clemenza o Pira;
Del ciel cangiossi il volto e si fé bruno ,
E caligine in cerchio orrenda e folta
II trono avvolse dell^ Etemo ed Uno.
E una voce n'uscì che F ardua volta
DelP Olimpo intronava. Attenta e muta
Trema natura e la gran voce ascolta.
Cieli , udite , odi , o terra , V assoluta
Di Die parola. Tu che Paho spegni
Patrio delirio, e Francia hai restituta;
Tu che vincendo moderanza insegni
All' orgoglio de' re , cui tua saggezza
Tolse la scusa di cotanti sdegni ;
Fa cor: quel Dio che abbatte ogni grandezza,
Guen*a e pace a te fida, a te devolve
11 castigo d' Europa e la salvezza.
Tu sei polve al mio sguardo, ed io la polve
Strumento fo del mio voler. Qui tacque
Colui che immoto tutto move e voi ve.
• \.
CANTO TERZO :àg5
Qui sparve F alta yislton : poi nacque
Per entro al negro vortice un confuso
Romor d'ali e di pie che di molt' acque
Parca lo scroscio. Ma repente schiuso
Fiammeggiò quel gran bujo , e folgorando
Due Cherubini si calaro in giuso:
QueMue medesmi del divin comando
Esecutori, che nel pugno aviéno
L'un d'olivo la fronda, e P altro il brando.
Ratti a paro scendean come baleno,
E due gran solchi di mirabil vista
Paralelli traean per Io sereno.
L' uno è pura di luce argentea lista ^
L'altro è turbo di fumo che lampeggia,
E sangue piove che le stelle attrista.
Di qua tutto sorriso il ciel biancheggia^
Di là son tuoni e nembi , e in suon di pianto
L' aria geme da lungi e romoreggia.
Seguian coli' ali del vedere un tanto
Prodigio stupefatti i due Lombardi,
Coli' altro spirto di che parla il Canto ^
Quando si vide a passi gravi e tardi
Dalla parte ove rota il suo viraggio
La terra, e obbliqui al Sole invia gli sguardi^
Pensierosa salir l'ombra d'un saggio,
Che il dito al mento e corrugata il ciglio ,
Uom par che frema di veduto oltraggio.
Dalla fronte sublime e dal cipiglio
Nobilmente severo, si procaccia
Testimonianza il senno ed il consiglio.
Come trasse vicino , alzò la faccia ,
GÌ' insubri ravvisò spirti diletti^
E mosse, prima che il parlar, le braccia.
Àllor si vide con amor tre petti
Confondersi e serrarsi, ed affollarse
Gli uni su gli altri d' amicizia i detti.
1C)6 IN MORTE DI LORENZO 1IA8CHERONI
Lo stringersi a vicenda e il dimandarse
Tra quell^alme finito ancor non era,
Che di note sembianze altra n^ apparse^
E corse ancV ella , ed abbracciò la schiera
Goncittadina. Il volto avea negletto,
Negletta la persona e la maniera.
Ma la fronte , prigion d' alto intelletto ,
Ad or ad or s' infosca , e lampi invia
Dell^ eminente suo divin concetto.
Scrisse quel primo Palta economia
Che i popoli conserva , e tutta svolse
Del piacer la sottile anatomia.
Intrepido a librar V altro si volse
I delitti e le pene , ed al tiranno
L^ insanguinato scettro di man tolse.
Poscia che le accoglienze, onde si fanno
Lieti gli amici, s^ iterar fra questi
Che fur primieri tra color che sanno ^
Disse Parini: Perchè irati e mesti
Son tuoi sguardi , o mio Verri 7 Ed ei rispose :
Piango la patria : e chinò gli occhi onesti.
E anchMo la piango, anch^o, con sospirose
Voci soggiunse Beccaria: poi mise
Su la fronte la mano, e la nascose.
Di duol che sdegna testimon, conquise
Vide Borda quell^alme, e in atto umano
Disse a tutte : Salvete ^ e si divise.
Gol salutar degli occhi e della mano
Risposer quelle, e in preda alla lor cura
Mosser tacendo per P etereo piano.
Come gli amici in tempo di sventura
Van talvolta per via, né alcun domanda
Per temenza d^ udire cosa dura^
Tale andar si vedea quelP onoranda
Di sofi compagnia, curva le fronti,
Aspettando chi primo il suo cor spanda.
CANTO TBRZO 297
Luogo è d^ Olimpo su gli eccelsi monti
Di piante chiuso che non han qui nome ,
E rugiadoso di nettarei fonti ,
Gh^ etemo il verde edùcano alle chiome
Degli odorati rami , e i più bei fiori
Di colei che fa il tutto , e cela il come ^
Poi cadendo precipiti e sonori
Tra scogli di smeraldo e di zaffiro
Scendono a valle per diversi errori:
E là danzando del beato empirò
A inebbnar si vanno i cittadini
Dell^ ambrosia che spegne ogni desiro.
A quest^ermo recesso i peregrini
Spirti avviarsi ^ e qui seduti al rezzo
Tra color persi, azzurri e porporini,
Fér di sé stessi un cerchio. O tu che in mezzo
Di lor sedesti, olimpia Dea, né Pira
Temi del forte, né del vii lo sprezzo,
Tu verace consegna alla mia lira
L^ alte loro parole ^ e siano spiedi
A infame ciurma che alle forche aspira,
Né vale il fango che mi lorda i piedi.
CANTO QUARTO.
Sacro di patria amor che forza acquista
Ed etemo rivive oltre l'avello
(Cominciò Paltò Insubre Economista ),
Desio , che pure ne' sepolti è bello ,
Di visitar talvolta, ombra romita,
Le care mura del paterno ostello,
E con gli affetti della prima vita
Le vicende veder di quel pianeta
Che l'alme al fango per patir marita,
Mi fean pocanzi abbandonar la lieta
RegKon delle stelle: e il patrio nido
Fu dolce e prima del mio voi la meta.
Per tutto armi e guerrier, tripudio e grido
Di libertà^ per tutto e danze e canti ,
Ed altari alle Grazie ed a Cupido^
E operose officine, e di volanti
Splendidi cocchi fervida la via,
E care donne e giovinetti amanti ,
Sclamar mi fenno a prima giunta: Oh mia
Gentil Milano, tu sei bella ancora!
Ancor bella e beata è Lombardia!
Poi nell'ascoso penetrai (che fuora
Sta le più volte il riso e dentro il pianto),
E venir mi credei nell' Antenora ,
Nella Cama, o s'altro luogo è tanto
Maladetto in inferno, ove raccoglia
Tutte insieme le colpe Radamanto.
IN MORTE DI L. MASCBBRONI, CANTO QUARTO 299
DelPalbergo fatai guardan la soglia
Le Cabale pensose e Plmpostara,
Che per vestirsi la Virtù dispoglia,
La Fraude che si tocca il petto e giura,
La fallace Amistà che sul tuo danno
Piange e poi t^abbandona alla ventura.
Carezzanti negli atti in volta vanno
Le bugiarde Promesse, accompagnate
Dalle garrule Ciance e dalPInganno.
Sta su le valve, a pie profan vietate,
Il Favor che bifronte or apre, or chiude ,
E dice all^un: Non puossi^ e alPaltro: Entrate.
Su e giù sospinte le Speranze nude
Van zoppicando, e inseguele per tutto
Colei che tutte le speranze esclude.
Con umil carta in man, lurido e brutto.
Grida il Bisogno, e sua ragione apporta^
Ma duro niego de' suoi gridi è il frutto:
Che voce di ragion là dentro è morta,
E de' pieni scaffali tra le borre
Dorme Giustizia in gran letargo assorta^
Né dall'alto suo sonno la può sciorre
Che il sonante cader di quella piova
Che fé Io stupro dell'acrisia torre.
Questo io vidi nell'antro in cui si cova
Della patria il dolor, che con grand'arte
Tutto giorno si affina e si rinnova;
Tal che, guasta il bel corpo d'ogni parte,
Trae già l'ultimo fiato, e muore in culla
La figlia del valor di Bonaparte.
Circuisce la misera fanciulla
Multiforme di mostri una congrèga
Che la sugge, la spolpa e la maciulla:
Il Furto, che al Poter fetto è collega;
Tirannia , che , col dito entro gli orecchi ,
Scostati, grida alla Pietà che prega;
3 00 Uf MORTE DI LORENZO MASCHBROHI
Ignoranza, che losca fi-a gli specchi
Banchetta, e Tosso, che non unge, arcigna
Getta al Merto giacente in su gli stecchi.
E la patria frattanto, empia matrigna.
Nega il pane a^ suoi figli, e a tal lo dona
Stranier, cui meglio si daria gramigna.
Mossi più addentro il piede ^ e in logra zona
Vidi Pinferma che Finanza ha nome,
Che scheletro pareva e non persona.
Colle man disperate entro le chiome
Guarda i vuoti suoi scrigni, e stupefatta
Cerca e non trova dell^empirli il come.
Or la Forza le invia fusa e disfatta
La pubblica sostanza^ or la meschina
Perdendo merca, e supplicando accatta.
Scorre a fiumi il danaro, e la Rapina,
Di color mille e cento man, Fingozza
E giù nell^ ampio ventre lo ruìna
Con si gran fretta, che talor la strozza
Tutto noi cape, e il vome, e vomitato
Lo ricaccia nell^epa e lo rimpozza:
Né del pubblico sazia, anco il privato
Aver divora^ e il vede e lo consente
Suprema e muta Autorità di Stato.
Chiusa e stretta da Forza prepotente
(Dolce interruppe allor Lorenzo ) , e in forse
Di maggior danno, e inerme e dependente.
Che far poteva Autorità? Deporse,
Gridò fiero Parini: e steso il dito.
Gli occhi e la spalla brontolando torse.
Strinse allora le labbia in sé romito
Dei delitti il sottil ponderatore^
E, Fti giusto, poi disse, il tuo garrito.
Forza li vinse: e che può Forza in core
Che verace virtute in sé raduna?
Cede il giusto la vita e non Fonore^
CANTO QUARTO 3oi
L^onor su cui né strale di fortuna^
Né brando, né tiranno, né lo stesso
Onnipossente non ha possa alcuna.
Qual madre che del figlio intende espresso
Grave fallo, si tace e non fa scusa,
Ma china il guardo per dolor dimesso,,
E tuttavolta col tacer Fescusa^
Tal si fece Lorenzo, mansueta
Alma cortese a perdonar sol usa.
Ma col cenno del capo il fier poeta
Pianse a quel dir, che il generoso fiele
De^ bollenti precordii in parte acqueta.
Aprì di nuovo al ragionar le vele
Verri frattanto, e Non ancor, soggiunse,
Tutto scorremmo questo mar crudele.
Poiché protetta la Rapina emunse
Del popolo le vene, e di ben doma
Putta sfacciata il portamento assunse :
La meretrice che laggiù si noma
Libertà depurata iva in bordello
Coi vizi tutti che dier morte a Roma.
Alla fronte lasciva era cappello
U berretto di Bruto, ma di serva
Avea gli atti, il parlare ed il mantello.
E la segma di drudi una caterva.
Che da questa d^Italia a quella fogna
A fornicar correa colla proterva.
Altri perduta nel peccar vergogna,
Fuggì la patria no, ma il manigoldo^
Altri é resto di scopa, altri di gogna:
Qual repe e busca ru£Gianando il soldo ^
Qual é spia^ qual il falso testimonio
Vende pel quarto e men d^un Leopoldo.
Quei chiede un Robespier che il sangue ausonio
Sparga, e le funi e la Senavra' impetra
Con questo che biscazza il patrimonio.
3o2 Uff MORTE DI LOBEHZO MASCHEROm
yPhsL chi, ventoso raschiator di cetra,
Il pudor caccia e sé medesmo in brago,
E segnato da Dio corre alla Yetra*.
ATha chi salta in bigoncia dallo spago,
Vha chi Tersuto ciarmador le quadre
Muta in tonde figure e non è mago.
Disse rea d'adulterio altri la madre,
E di vile semenza di convento
Sparso il solco accusò del proprio padre.
Altri è schiuma di prete, e fraudolento
De' galeotti aringator, per fame
Va trafficando Cristo in sacramento.
Tutto strame, letame e putridame
D'intoUerando puzzo, e lo fermenta
Tutto quanto de' vizi il bulicame.
E questa ciurma s* è colei che addenta
I migliori, colei che tuona e getta
D'Itala libertà le fondamenta?
Oh inopia di capestri! oh maladetta
Lue cisalpina! oh patria! oh giusto Iddio!
Perchè pigra in tua mano è la saetta?
Terror mi prese a tanto; e nell'obbho
Del mio stato immortale, al patrio tetto.
Per celarmi, tremante il pie fuggio.
Oh mia dolce consorte! oh mio diletto
Fratello! Oh quanto nell'udir mi piacqui
Da voi nomarmi colPantico affetto!
E ricordar siccome amai, né tacqui
La pubblica ragion^ sin che già franta
De' buon la speme, addio vi dissi, e giacqui !
Piansi di gioia nel veder cotanta
Carità della patria, e come intera
De' miei figli nel cor la si trapianta.
Ed io vana allor corsi ombra leggera,
E gli strinsi, e sentii tutta in quel punto
La dolcezza di padre, e più sincera.
CAUTO QUARTO
Ma il tenero lor petto al mio congianto
Ahi! quell^amplesso non intese, e invano
Vivi corpi abbracciai spirto defunto.
Mi staccai da^miei cari: e di Milano
Ratto fuggendo, a quel sordo mi tolsi
Delle lagrime altrui gonfio oceano.
Città discorsi e campi ^ e pria mi volsi
Al longobardo piano, ove superbe
Strinser catene al re de^ Franchi i polsi,
E il villan coll'aratro ancor tra Terbe
Urta le gaUic^ossa, e quell^ aspetto
Par che 1 natio rancor gli disacerbe.
Vidi T campo ove Scipio giovinetto
Contro i punici dardi allo spirante
Padre fé scudo del roman suo petto.
Vidi Tumil Agogna intollerante
Del suo fato novel: vidi la valle
Cui nome ed ubertà fa la sonante
Sesia. Di là varcai per arduo calle
L^alpe che il nutritor di molte genti
Yerbano adombra colle verdi spalle.
Quindi del Lario attinsi le ridenti
Rive, e la terra ove alla luce aprirsi
I solerti di Plinio occhi veggenti,
Ed or Podi di Volta insuperbirsi.
Che vita infonde pe^ contatti estremi
Di due metalli (maraviglia a dirsi!)
Nei membri già di pelle e capo scemi
Delle rauche di stagno abitatrici,
E di Galvan ricrea gli alti sistemi.
I placidi cercai poggi felici
Che con dolce pendio cingon le liete
Dell^Eupili lagune irrigatrici^
E nel vederli mi sclamai: Salvete
Piagge dilette al Ciel, che al mio Panni
Foste cortesi di vostr^ombre quete,
3o3
3o4 IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI
E lui spiraste i numeri divini ,
Che sovente obbliar fero ad Apollo
I Tebani concenti e i Yenosini.
10 le mirava, e non venia satollo
Mai del mirar ^ che rapido il piacere
LW dall^altro sorgea, come rampollo.
Quando un accento non lontan mi fere ,
Che il tuo nome suonava. Disteso
Donde quel suono uscia corsi a vedere.
Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso
Sculto un sasso funebre che dicea:
AI SACRI MARI DI PARIN RIPOSO.
Ed una non so ben se donna o Dea
(Tese Porecchio, aguzzò gli ocdii il Vate
E spianava le rughe e sorridea.)
Colle dita venia bianco-rosate
Spargendolo di fiori e di mortella,
Di rispetto atteggiata e di pietate.
Bella la guancia in suo pudpr^ più bella
Su la fironte splendea Palma serena,
Come in limpido rio raggio di stella.
Poscia che dati i mirti ebbe a man piena,
Di lauro, che parca lieto fiorisse
Tra le sue man, fé al sasso una catena^
E un sospir trasse affettuoso e disse
Pace etema all^amico: e te chiamando
I lumi al cielo si pietosi afiSsse,
Che gli occhi anch'io levai, fermo aspettando
Che tu scendessi: e vidi che mortale
Grido agli Etemi non salia più, quando
11 costei prego a te non giunse^ il quale
Se alle porte celesti invan percote ,
Per là dentro passar null'altro ha Pale.
Riverente in disparte alle devote
Ceremonie assistea , colle tranquille
Luci nel volto della donna immote,
CANTO quaato 3o5
Uom dedita cortesia, che il ciel sortille,
Più che consorte, amico. Ed ei che yuole
II voler delle care alme pupille,
Sol per farle contente eccelsa mole
D'attico gusto ergea, su cui fermato
Pai*eami in cielo, per gioirne, il sole.
E Amalia la dicea dal nome amato
Di colei che del loco era la Diva,
E più del cor che al suo congiunse il fato.
Al pietoso olocausto, a quella viva
Gara d' amor mirando, già di mente
Del mio gir oltre la cagion m'usciva.
Mossi alfine, e quei colli ove si sente
Tutto il bel di natura, abbandonai,
L'orme segnando al cor contrarie e lente.
Vagai per tutto ^ nel tugurio entrai
Dell'infelice, e il ricco vidi in grembo
Dell'auree case più infelice assai.
Salii, discesi, e risalii lo sghembo
Scntier di balze e fiumi, e il mio cammino
Oltre l'Adda affrettando ed oltre il Brembo,
Alla tua patria giunsi, o pellegrino
Di Bergamo splendor, che qui m'ascolti;
E mesta la trovai del repentino
Tuo dipartire, e lagrimosi i volti
Su la morta di Lesbia illustre salma.
Che al cielo i vanni per seguirti ha sciolti.
— Brillò di gaudio a quell'annunzio l'alma
Dell'amoroso geometra, e uscire
Parve alcun poco dell'usata calma.
E già surto partia, per lo desire
Di riveder quel volto che le penne
Di Pindo ai voli gli solca vestire;
Ma dignitosa coscienza il tenne,
E il narrar grave di quell'altro saggio,
Che , precorso un sorriso, cosi venne
3o6 IN MORTE DI LOMSIIZO MiSCRBRONf
Seguitando il suo dir : — Dritto il viaggio
Di là volsi al terren che il Mella irriga,
Ricco d'onor, di ferro e di coraggio.
Quindi al Ben&co che dal vento ha briga
Pari al liquido grembo d'Amfitrite
Quando irato Aquilon Pende castiga.
Quindi al fiume, ove tardi diffinite
Fur Fitaliche sorti, e non del duce,
Ma de^ condotti il cor vinse la lite.
E TÀdige seguii fino aUa truce
Àdria^ ove stanchi già del lungo corso
Trenta seguaci il re de' fiumi adduce.
Tutto insomma il paese ebbi trascorso
Che sdla manca del Po tra U mare e 1 monte
Sente de' freni cisalpini il morso.
E di dolore, di bestemmie e d'onte
Per tutto intesi orribili favelle,
Che le chiome arricciar ti fanno in fironte.
Pianto di scarna plebe a cui la pelle
Si figura dall'ossa, e per le vie
Famelica suonar fa le mascelle^
Pianto d'orbi fanciulli e madri pie.
D'erba e d'acqua cibate, onde di mulse
E d'orzo sagginar lupi ed arpie ^
Pianto d'attrite meschinelle, avulse
Ai sacri asili, e con tremanti petti
Di porta in porta ad accattar compulse^
Pianto di padri, ahi lassi! a dar costretti
L'aver, la dote e tutto, anche le poche
Care memorie de' più sacri affetti :
Cupi sospiri, e voci or alte or fioche
Di tutte genti, per gridar pietade
E per continuo maledir già roche.
D'on'or fremetti^ e venni alla cittade
Che dal ferro si noma. Oh dalle Muse
Abitate mai sempre alme contrade,
CANTO QUARTO 'ÌO'J
Onde tanta pel mondo si dilluse
L'Itala gloria, e tal di carmi vena
Che non Àscra, non Ghio la maggior schiuse!
D'onor, di cortesia nutrice arena
Come giaci deserta! E dal primiero
Splendor caduta, e di squallor sol piena!
Questi sensi io volgea nel mio pensiero,
Quando un'Ombra m* occorse alla veduta
Mesta sì, ma sdegnosa e in atto altero*
Sovresso un marmo sepolcral seduta
Stava l'afflitta, e della manca il dosso
Era letto alla guancia irta e sparuta.
Ombrata avea di lauro non mai scosso
La spaziosa fronte, e sui ginocchi
Epico plettro , che dall'aura mosso
Dir fremendo parea: Nessun mi tocchi.
Vèr lei mi spinsi, e dissi: Oh tu che spiri
Dolor cotanto e maestà dagli occhi.
Soddisfammi d'un detto a' miei desirì^
Parlami '1 nome tuo, spirto gentile.
Parlami la cagion de' tuoi sospiri ,
Se nulla puote onesto prego umile.
CANTO QUINTO
Non mi fece risposta qaell^ acerbo ,
Ma riguardommi colla testa eretta
A guisa di leon queto e superbo.
Qual uomo io stava che a scusar s' affretta
Involontaria offesa, e più coll^atto
Che col disdirsi, umil fa sua disdetta.
E lo spirto parca quei che distratto
Guata un oggetto, e in altro ha Palma intesa^
Finché dal suo pensier sbattuto e ratto
Gridò con voce d^acre bile accesa:
Tacque ciò detto il disdegnoso. I suoi
Liberi accenti, e al crin gli avvolti allori,
De^ poeti superbia e degli eroi ,
MTeran già del suo nome accusatori,
All^ intelletto mio manifestando
Quel grande che cantò V armi e gli amori.
Per cVio, la fronte eU ciglio umil chinando,
Oh gran vate, sclamai, per cui va pare
D'Achille aU'ba la follia d'Orlando !
Ben ti disdegni a dritto , e con amare
Parole Italia ne rampogni, in cui
Dell'antico valore orma non pare.
Ma dinne, o padre: chi da' marmi bui
Suscitò l'ombra tua? Concittadino
Amor, rispose, e dirò come il fui.
nr MORTE DI L. MiSCHBROin) CAUTO QUINTO 3o9
Fra i boati di barbaro latino
Son tre secoli ornai ch^io mi dormia
Nel tempio sacro al Divo di Gassino.
Pietosa cura della patria mia
Qui concesse più degna e taciturna
Sede alla pietra che il mio fral copna.
Fra il canto delle Muse alla diurna
Luce fui tratto, e la mia polve ancb^ essa
Riviver parve, e s'agitò nelPuma.
Ma desto non fossMo, che manomessa
Non vedrei questa terra, e questi marmi
Molli del pianto di mia gente oppressa!
Oh! qualunque tu sia, non dimandarmi
Le sue piaghe per dio , ma trar m- aita
Di lassù la vendetta a consolarmi.
Di ragion y di pietade hanno schernita
I tiranni la voce , e fu delitto
Supplicaire e mostrar la sua ferita.
Fu chiamato ribelle ed interditto
Anche il sospiro, e il cittadin fedele
Or per odio percosso , or per profitto.
E le preghiere intanto e le querele
Derise e storpie gemono alle porte
Inesorate di pretor crudele.
Mentr' egli sì dicea , ferinne un forte
Muggir di fiumi , che tolte le sponde
S'avean sul corno, orror portando e morte.
Stendean Reno e Panar le indomit' onde
Con immensi volumi alla pianura:
E struggendo vem'an le fiiribonde
La speranza de' campi già matura :
Compiangenti figliuoi fugge compreso
Di pietade il villano e di paura :
Ed uno in braccio e un altro per man preso,
Ad or ad or si volge, e studia il passo ,
Pel compagno tremando e per lo peso;
MoBTi. Poemetti, ao
3io IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI
Ch' alto II flutto r insegne , e cou fracasso ,
Le capanne ingoiando e i cari armenti,
Fa vortice di tutto, e piomba al basso.
Ed allora un rumor d' alti lamenti ,
Un lagrimare, un dimandar mercede,
Con voci cbe farian miti i serpenti.
Ma non le ascolta chi in eccelso siede
Correttor delle cose, e con asperso
Àuro di pianto al suo poter provvede.
Mentre che d^una parte in mar converso
Geme il pian Ferrarese, ecco un secondo
Strano lutto dall^ altra e più diverso.
In terra, in mare, e per lo ciel profondo
Ecco farsi silenzio ^ il Sol tacere
Air improvviso, e parer morto il mondo.
Le nubi in alto on-Ibilmente nere ,
Altre stan come rupi, altre ne miri
Senza vento passar basse e leggiere.
Tutti delVaure i garruli sospiri
Eran queti, e le foglie al suol cadute
Si movean roteando in presti giri.
D'ogni parte al coperto le pennute
Torme accorrono , e in tema di salvarse
Empiono il ciel di querimonie acute.
Fiutan r aria le vacche , e immote e sparse
Invitan sotto alle materne poppe
Mugolando i lor nati a ripararse.
Ma con muso atterrato e avverse groppe
L'una all'altra s'addossano le agnelle.
Pria le gagliarde, e poi le stanche e zoppe.
Cupo regnava lo spavento ; e in quelle
Meste sembianze di natura il core
L' appressar già sentia delle procelle.
Quando repente udissi alto un rumore ,
Qual se a' tuoni commisto giù da' monti
Vien di- molte e spezzate acque il fragore.
CANTO QiriNTO 3ll
Quindi un grido : Ecco il turbo : e mille fronti
Si fan bianche, e le nebbie e le tenèbre
Spazza il vento si ratto, che più pronti
Vanno appena i pensier. Sbalza di crebre
Stipe un nembo e di foglie e di rotata
Polvere che serrar fa le palpebre.
Mugge volta a ritroso e spaventata
Dell^ Eridano V onda , e sotto i piedi
Tremar senti la ripa afiaticata«
Ruggiscono le selve, ed or le vedi
Come fiaccate rovesciarsi in giuso,
E innabissarsi, se allo sguardo credi:
Or gemebonde rialzar diffuso
L'enorme capo, e giù tornarlo ancora,
Qual pendolo che fa V arco alPinsuso.
Batte il turbo crudel Pala sonora,
'Schianta, uccide le messi e le travolve^
Poi con rapido vortice le vora ^
E tratte in alto le diffonde e solve
Con immenso sparpaglio. Il crin si straccia
Il pallido villan, che tra la polve
Scorge rasa de' campi già la faccia,
E per V aria dispersa la fatica
Onde ai figli la vita e a sé pi^oeaccia.
E percosso l'ovil, svelta Paprica
Vite appiè del marito olmo , che geme
Con tronche braccia su la tolta amica.
Oh giorno di dolor! giorno d'estreme
Lagrime! e crudo chi cader le vede,
E non le asciuga, ma più rie le spreme !
E chi le spreme? chi in eccelso siede
CoiTettor delle cose, e con ór lordo
Di sangue e pianto al suo poter provvede.
Poi che al duol di sua gente ogni cor sordo
Vide il cantore della gran folha,
E di pietà sprezzato ogni ricordo,
3ia or MORTE di lohenzo mascheroni
Mise un grido e sparì. Mentre foggia,
Si percotea V irata Ombra la testa
Gol chiuso pugno, e mormorar studia.
Già il Sol cadendo , raccogliea la mesta
Luce dal campo della strage orrenda,
Ed io , com^ uom che pavido si desta ,
Né sa ben per timor qual via si prenda ,
Smarrito errava, e alla città giungea
Ghe spinge obliqua al ciel la Garisenda.
Gercai la sua grandezza; e non vedea
Ghe mestizia e squallor, tanto che appena
n memore pensier la conoscea.
Ne cercai V ardimento; e nella piena
De^ suoi mali esalava ire e disdegni
Ghe parean di lion messo in catena.
Ne cercai le beli' arti , e i sacri ingegni
Ghe alzar sublime le £Bu;ean la firopte,
E toccar tutti del sapere i segni;
Ed il Felsineo vidi Ànacreonte
Gacciato di suo seggio, e da pro&ni
Labbri inquinato d'eloquenza il fonte.
Vidi in vuoto Liceo spander Palcani
Del suo senno i tesori, e in tenebroso
Giel la stella languir di Ganterzani.
E per la notte intanto un lamentoso
Ghieder pane s'udia di poverelli,
Ghe agli orecchi toglieva ogni riposo.
Giacean squallidi , nudi , irti i capelli ,
E di lampe notturne al chiaror tetro
Larve uscite parean dai muffi avelli.
Batte la Fame ad ogni porta, e dietro
Le vien la Febbre , e l'Angoscia, e la Dira
Ghe locato il suo trono ha sul feretro.
Mentre presso al suo fin l'egro sospira.
Entra la Forza, e grida: Gittadino,
Muori , ma paga : e il miser paga e spira.
CAUTO QUINTO 3l3
Oh virtà ! Come crudo è il tuo destino !
Io 80 ben che più bello è mantenuto
Pur dai delitti il tuo splendor divino:
So che sono gli afianni il tuo tributo^
Ma perchè spesso al cor che ti rinserra,
Forz^ è il blasfema proferir di Bruto?
Con la Sventura al fianco su la terra
Dio ti mandò, ma inerme ed impotente
De' tuoi nemici a sostener la guerra.
E il reo felice e il misero innocente
Fan sull'eterno provveder pur anco
Del saggio vacillar dubbia la mente.
Come che intomo il guardo io mova e il fianco,
Strazio tanto vedea, tante mine,
Che la memoria fiigge, e il dir vien manco.
Langue cara a Minerva e alle divine
Muse la donna del Panar, né quella
Più sembra che fu invidia alle vicine :
Ma sul Grostolo assisa la sorella
Freme , e F ira premendo in suo segreto ,
Le sue piaghe contempla, e non favella.
Freme Emilia, e col fianco irrequDieto
Stanca del rubro fiumicel la riva,
Che Cesare saltò, rotto il decreto*
E de' gemiti al suon che il ciel feriva
D'ogni parte, iracondo e senza posa,
L'Adriaco flutto ed il Tirren muggiva.
Ripetea quel muggir l'Alpe pietosa,
E alla Senna il mandava, che pentita
Dell' indugio pareva e vergognosa.
E spero io ben che la promessa aita
Piena e presta sarà, che la parola
Di lui che diella , non fu mai tradita :
Spero io ben che il mio Melzi , a cui rivola
Della patria il sospiro E più bramava
Quel magnanimo dir*, ma nella gola
3l4 >N MORTE Di LORENZO MASCHERONI
Spense i detti una voce che gridava :
Pace al Mondo: e quel grido un improvviso
Suon di cetere e d^ arpe accompagnava.
Tttttoquanto V Olimpo era un sorriso
D' amor ^ né dirlo , né spiegarlo appieno
Pur lingua lo potria di paradiso.
Si rizzar tutte e quattro in un baleno
L^ alme Lombarde in piedi ^ o^ ver la plaga ,
Donde il forte venia nuovo sereno.
Con pupilla cercar intenta e vaga
Quest^ atomo rotante, ove dell'ire
E degli odii si caro il fio si paga.
E largo un fiume dalla Senna uscire
Vider di luce, che la terra inonda,
E ne fa parte al ciel nel suo salire.
Tutto di lei si fascia e si circonda
Un Eroe, del cui brando alla ruina
Tacea muta T Europa e tremebonda.
Ed ei V amava : e nella gran vagina
Rimesso il fen*o offii V olivo al crudo
Avversario maggior della meschina.
E col terror del nome e coli' ignudo
Petto e col senno disarmoUo, e pose
Fine al lungo di Marte orrido ludo.
Sovra il libero mar le rugiadose
Figlie di Dori uscir , che de' metalli
Fluttuanti il tonar tenea nascose:
Drimo , Nemerte j e Glauca , de' cavalli
Di Nettuno custode , e Toe vermiglia ,
Di zoofiti amante e di coralli.
Galatea, che nel sen della conchiglia
La prima perla invenne, e Doto e Proto,
E tutta di Nereo 1' ampia famiglia ,
Tra cui confuse de' Tritoni a nuoto
Van le torme proterve. In mezzo a tutti
Dell' onde il re , da' gorghi imi commoto ,
CAWTO QUINTO 3l5
Sporge il capo divino, e al carro addutti
Gli alipedi immortali, il mar trascorre
Su le rote volanti , e adegua i flutti.
Cade al Commercio, che ritorte abborre^
n britannico ceppo , e per le tarde
Vene la vita, che languia, ricorre.
Al destarsi, al fiorir delle gagliarde
Membra del nume, la percossa ed egra
Europa a nuova saniti riarde.
Nuova lena le genti erge e rintegra :
E tu di questo, o patria mia, se saggio
Farai pensiero, andrai più d^ altri allegra.
E le piaghe tue tante, e Tallo oltraggio
Emenderai, che férti anime ingorde
Di libertà più ria che lo servaggio^
Ànime stolte, svergognate e lorde
D^ ogni sozzurra. Or fa che tu ti forba
Di tal peste, e il passato ti ricorde.
E Voi che in questa procellosa e torba
Laguna di dolore il piò ponete.
Onde il puzzo purgarne che n^ ammorba^
Voi che alla mano il temo vi mettete
Di conquassata nave (e tal vi move
Senno e valor, che in porto la trarrete);
Voi della patria le speranze nuove
Tutte adempite , e , di giustizia il telo
Animosi vibrando, udir vi giove
Che disse in terra, e che poi disse in cielo
Lo scrittor dei delitti e delle pene:
Ei di parlarvi , e Voi , rimosso il velo ,
D' ascoltar degni il ver che v' appartiene.
3i6
FRAMMENTO DEL CANTO QUARTO
sul monumento dì Giuseppe Parùu nella Villa Amalia presso
Erba, pubblicato in Brescia nel 1808 insieme coi Sepolcri
di Foscolo e di Pmdemonte ^
I placidi cercai poggi felici,
Che con dolce pendio cingon le liete
"DtìVEupili lagone irrigatrici*;
£ nel yederli mi sclamai: Salyete,
Piagge dilette al Giel, che al mio Parini
Foste cortesi di yostr' ombre quete;
Quando ei fabbro di numeri diyini
L'acre bile fé dolce, e la yestia
Di tebani concenti e yenosini.
Parca de' carmi tuoi la melodia
Per quell'aure ancor yiya, e l'aore e l'onde
£ le selye eran tutte un'armonia.
Parean d'intorno i fior, l'erbe, le fronde
Animarsi, e iterarmi in suon pietoso:
Il cantor nostro oy'è? chi lo nasconde?
£d ecco in mezzo di ricinto ombroso
Sonito un sasso funebre che dicea:
Ai 8ACB1 MAHi DI Pauii Biroso.
£ donna di beltà che dolce ardea
( Tese r orecchio , e fiammeggiando il Vate
Alzò l'arco del ciglio > e sorridea)
Colle dita yenia bianco-rosate
Spargendolo di fiori e di mortella,
Di rispetto atteggiata e di piotate.
* Credo di doTer qui ristampare questo brano eotl eomo trorasi
nella edizione bresciana, attese le molte e belle yarìazloni die in
quella occasione yi fece il Monti. L'Editobb.
DI MORTB N LOBENKO MASCHERONI, |IC. ìl'J
Bella la guancia in sno pndor; più bella
Sa la fronte splendea Talma serena
Come in limpido rio raggio di stella.
Poscia che dati i mirti ebbe a man piena ,
Di lauro che parca lieto fiorisse
Tra le sue man , fé al sasso una catena.
E un sospir trasse aflettuoso, e disse
Pace etema all'Amico: e te chiamando,
I lumi al cielo si pietosi affisse,
Che gli occhi anch'io levai, certa aspettando
La tua discesa. Ah qual mai cura, o quale
Parte d'Olimpo ratteneati, quando
Di que'bei labbri il prego erse a te l'ale?
Se questa indarno l'udir tuo percuote,
Qual altra ascolterai yoce mortale?
Riyerente in disparte alle devote
Geremonie assistea, colle tranquille
Luci nel volto della Donna immote,
Uom d'alta cortesia*, che il Ciel sortille
Più che consorte, amico. Ed ei che vuole
n voler delle care alme pupille,
Ergea d'attico gusto eccelsa mole
Sovra cui d'ogni nube immaculato
Raggiava immemor del suo corso il Sole.
E Amalia la dicea dal nome amato
Di costei, che del loco era la Diva,
E pia del cor, che al suo congiunse il fato '.
Al pio rito funebre, a quella viva
Gara d'amor mirando, già di mente
Del mio gir oltre la cagion m'usciva.
Mossi alfine, e quei colli, ove si sente
Tutto il bel di natura, abbandonai,
L'orme segnando al cor contrarie e lente.
M»
r.
NOTE
ALLA MASCHERONIANA
NOTE AL CANTO PRIMO
DELLA MA8CHER0N1ANA
Pag« 377.
* Invito a Lesbia Gidonia. Questo eleganUtsimo poemetto, di cui ab-
biamo più edizioni^ non è cbe la descrizione de* musei di PaTta. Sono
le Grazie medesime cbe parlano profonda fllosoOa.
Ivi.
• E noto cbe i| gran Galileo dopo le sue scoperte astronomiebe di-
venne cieco.
Ivi.
3 Arcbimede fu il. primo cbe trovò la quadratura della parabola, e
i rapporti della sfera col cilindro. Della quale ultima scoperta egli
alesso compiacquesi tanto, cbe la volle incisa sul suo sepolcro; Io che
serri dMnclizio a Cicerone per {scoprirlo, siccome egli stesso racconta
nelle Tnsculane, L. Vj § a3.
Ivi.
4 Filolao nativo della Magna Grecia e discepolo di Pitagora. Fu il
primo a4 insegnare il sistema ora detto Copernicano.
Ivi.
5 Cassini, chiamato l'oracolo del Sole, diede una teoria completa
sul movimento delle macchie solari, e parlò più sensatameute d'ogni
altro della paralasse del Sole, elemento principale di tutta l'astronomia.
Pao. 378.
C La teoria del nuovo pianeta Urano, stampata in Milano del 1789,
in conosciuta a Parigi dai più distinti astronomi e geometri. Ma per-
chè il modesto Oriani non la presentò all'Accademia delle scienze,
l'astronomo Delambre profittò senza scrupolo delie scoperte altrui,
e le sue tavole pubblicate due anni dopo ottennero un premio ad
altri dovuto.
Ivi.
7 Bartolommeo Borda, celebre matematico francese, intimamente
legato d'amicizia col nostro Mascheroni, il quale su la di lui morto
compose un'elegia latina degna del secolo d'Augusto.
NOTA AL CANTO TERZO
DELLA MàSGHERONlANA
Pag. 391.
* Ecco la libertà che ho Unto vilipesa nella Bassvilliana. La Cod-
▼entione nazionale era in quei miseri tempi una congrega non d'uo-
mini, ma di furie, e la Francia tutta un inferno. Spento Robespierre!
spenti quei codardi che spinsero al patibolo i più generosi, la Francia
mutò fisonomia e la cantica fu interrotta. Ed ora che il mondo sem-
bra finalmente tornato alla saggezza , ora che la Francia altamente
detesta ciò ch'io prima ho esecrato, vi sarà chi pur tragga da quel
poema il pretesto di calunniare la fermezza de* miei principii? Oh
imbecilli! Chi siete voi che tacciate di schiavo il libero autore del-
l'Aristodemo? Lo conoscete voi bene? Sapete voi che al pari della
tirannide che porta corona, egli abborre quella che porta berretto?
Ho sospirato, e sospiro ardentemente il bene dell'Italia, ho ri-
spettato in tutti i miei versi religiosamente il suo nome , ho consa-
crato alla sua gloria le mie vigilie, ed ora le consacro coraggiosamente
me stesso, gridando in nome di tutti la verità. Cicerone e Lucano,
Dante e Maclriavelio si sono abbassati all' adulazione necessaria a' lor
tempi. EU' era più necessaria a quelli ne' quali io scriveva: ma ne'
secoli carrotU la ptrià è sottenuta dai f^ùUi, e il delitto apre la strada
alle magnanime imprese, O tu che accusi la mia debolezza , che por
non fu dannosa ad alcuno, perchè poi non imiti il mio coraggio che
può riuscire a vantaggio comune? Sei dunque tu il vile, non io. Or
va, miserabile; e invece di predicar la libertà di Catone coli' anima
di Tersite, va a banchettare alle cene di Ecate per non morir di fame
sul trivio.
NOTE AL CANTO QUARTO
DELLA MASCHERONIàNA
Pao. Sol
> Luogo poco fuori di Milano ove si custodiscono i paxzi.
Pio. 3oa.
' Luogo in Milano ove in que' tempi si giustiziavano i malfattori
NOTE AL FRAMMENTO DEL CANTO QUARTO
Pao. 3i6.
I G)Ui beati e placidi,
Cha il rago Eu|n]i mio
Cingete ooa dolcÌMÌnao
Imeniilal pendio, ec.
Paiuxi» nell'Ode in la Vita nuiiea.
Pao. 317.
* 11 consigliere Rocco Marliani, uomo amico alle lettere ed ai Ict*
terati^ che segnalò l'amor suo verso il Parini con questo monumento.
Ivi.
3 Ecco l' iscrizione che leggesi su quella villa dal cons. Marliani fab-
bricata nel luogo ov* era una volta un convento di Cappuccini :
BOGBVS PBTai F. MABLIAWS
DOMO MBDIOLAIIO
CQIICOBII VBTBKJS OPBBIBVS A SOLO AMPLI ATIS
VILLAM BXTBVXIT OBBAVIT
AKALIAM
BX OORIVOIS KABISSIKAB NOMIBB APPBLLABOAM
ARIO MDCCCI.
L'EUtore.
IL BARDO
DELLA SELVA NERA
POEMA EPICO-URICO
{1806)
(waAmmnn)
Morti. Poemetti. at
»'
ALLA MAESTÀ IMPBEIALB B UBALE
DI
NAPOLEONE IL GRANDE
IMPKRATORK DE> FRANCESI E RK D'ITAUA
V. MONTI
ISTOBIOOBArO DBL UOVO D*ITAIU, CAT. DlU'oUim DILLA COBOIlA DI WEBMÙ,
IMO DILLA LiaiOV D*OVOII I DILL* ISTITUTO IT ALIAVO.
Sire
Le arpe de^ Bardi accompagnarono un cU le armi di
Garlomagno^ allorché daUe rive Aquitaniche o dagli ul-
timi Pirenei volava a punire il Sassone ribellato , o la
perfidia di Tassiglione ^ e le arpe de^ Bardi, non ancora
mute del tutto, si sono, o Sire, destate allo strepito delle
vostre vittorie, e ne hanno segm'to il rapido volo su quelle
contrade medesime ove Carlo precipitava dal trono i re
vinti, e ne accumulava, sul proprio capo i diademi, e
Napoleone il grande ne fa dono agli amici, e più moderato
e magnanimo li restituisce alla fironte dei principi debel-
lati. E veramente un Conquistatore che a^suoi nemici
abbattuti non lascia altro segno della conquista, che la
memoria delle sue virtù, e li punisce col perdonare e
3a8
forzarli a far sénno per V avvenire, nn siffiitto e 6nora
inaudito Conquistatore non poteva non eccitare a grande
entusiasmo le lire poetiche d^ ogni suono, precipuamente
quelle de^ Bardi, nate in mezzo alle armi, e consecrate
soltanto alla lode de Valorosi.
Verrà tempo che una nuova mitologia, divinizzando le
vostre imprese , come già quelle di Ercole , di Bacco e
di Teseo , porgerà alle postere fantasie abbondante ma«
teria di pura ed alta Epopea: la quale non potendo sus-
sistere senza la poetica maraviglia (intendo dire senza
la favola), ha bisogno che la maraviglia storica non op-
prima troppo, siccome ora fa, la poetica. Perciocché ove
la presenza dei veri prodigi esclude V intervento dei fa-
volosi, e la poesia, frenata dallo splendore dei primi,
non può sottometterli né sagrificarli liberamente ai se-
condi, per modo che la grandezza dell^Eroe sia più opera
del poeta che dello storico (come Orlando, Goffredo, gii
eroi d^ Omero e Virgilio, e tutti in somma i protagonisti
dell^ Epopea), avverrà che si corra sempre il pericolo
di Lucano , il cui poema, perchè scarso di effetto sopran-
naturale, ossia di favola, é stato meritamente escluso
dalla classe degli epici, e giudicato nulP altro che una
sentenziosa ed ampollosa storia in esametri.
In tanta luce di opprimente istorica verità disperato il
caso dell^ Epopea , né potendo questa giovarsi molto della
pagana mitologia, a cui è mancato presso noi il fonda-
mento della religione che la santificava, ed essendo ces-
sata quella delle Fate e degP incantesimi, che pure per
qualche tempo potè supplh*e alla prima, era forza ricor-
rere ad un genere di poesia, la ^ale ponesse in salvo i
diritti della favola senza nuocere alla dignità della storia.
329
La poesia Bardita, riunendo e temperando Tono coll^altro
il doppio carattere dell^ epica e della lirica, mi è sem-
brata, o Sire, se non la sola, almeno la più acconcia ad
ordire una qualche tela poetica dei portenti per Voi ope-
rati: tanto più che il Bardo della Selva Nera^ il quale
abbandona i suoi boschi per seguire le vostre armate, e
confondere il suono gueiriero della sua arpa col fragore
dei caimoni di Austerlitz, alla qualità di poeta aggiugne
quella pur di profeta. Così eglr, presago di avrenimenti
ancora più strepitosi, e collocato su Porlo dellMmmenso
avvenire che voi andate creando, si sta già pronto ad
accompagnarvi sott^ altro cielo a nuovi trionfi, più solenni
anche de^ primi. Ed egli spera di recitarvi presto il bel-
V inno che il suo antenato Cadwallo cantò a Carlomagno,
allorché Leone UI gli pose sul capo la corona dell^ Occi-
dente: inno ignorato dagli eruditi, ma pervenuto di padre
in figlio al vostro Bardo per tradizione, e pieno di va-
ticinii^ de^ quali penso, o Sire, che voi solo abbiate la
chiave.
Queste, ed altre più degne cose, che per ora è bello
il tacere , va divisando nel segreto della sua mente la
Musa del nuovo Bardo per onorarvi^ ma tutti andranno
vani i suoi lodevoli divisamenti, ove la M. V. I. e R. non
li soccorra di uno sguardo confortatore. E questo egli
spera, ben consapevole che fra i grandi elementi della
vostr^ anima non è F ultima la Clemenza.
IL BARDO
DELLA SELVA NERA
CANTO PRIMO
/ VATiaNJ
Quando al teno di Marte orrido ludo
Dal Britaimico mar sul congiurato
Istro discese fulminando il Sire
Delle battaglie, e d^atro nembo avvolta
Al fianco gli venia la provocata
ira del cielo,
Senti dall^ alta Eìrcinia la procella
De^ volanti guerrieri il Bardo UUino^
UUin germe di forti, ed animoso
Gantor de^ forti, e dello spirto erede
DellMndovina vergine Velleda,
Cui r antica paura incensi offiia
Nelle selve Brutere, ove implorata
L^ aspra donzella con responsi orrendi
Del temuto avvenire aprìa F arcano.
Sopra una vetta che d'Albecco e d^ Ulma
Signoreggia la valle e i cristallini
Bei meandri dell^ Istro in lontananza,
Salia tutto raccolto in suo pensiero
L^ irto poeta, e dietro gli recava
L' arpa Cherusca la gentil Malvina^
332 IL BARDO DELLA SELVA NERA
Alle cui rosee dita il dolce tocco
Insegnò della lira Ullino istesso^
E dilettoso il suon delle sue corde,
Più che quello del padre, al cor scendea.
Nuda il veglio ha la fronte, e su la fronte
Gli tremula canuto il crin, siccome
Onda di nebbia che il ciglion lambisce
Di deserto dirupo , e V occhio invita
Del viandante a contemplar la brulla
Maestà de^ suoi fianchi. Antica e rozza
Di sua stirpe divisa, dalle terga
Pende il bardo cuculio. Ispido e stretto
Da croceo cinto sul confin dell^anca
Gli discende al ginocchio, e appena il tocca,
n germanico saio. Era P aspetto
Nobilmente severo; era P incesso
Grave; e seco nel cor venia volgendo
L^ inique e turpi di cotanta guerra
Rivelate cagioni ; e il vii di sangue
Anglico patto, e la più vile assai
Ragion di Stato che ne tolse il prezzo.
Ciò pensando, mettea lungo la via
Sospir profondi, e gli scaldava il petto
L^ ira un giorno bollente nelle vene
Del fiero Bardo, che PArvonie rupi
Fé d' acerbi sonar carmi tremendi ,
Quando alle Furie consecró del primo
Edoardo la stirpe. Per dirotto
Faticoso sentier giù dall'alpestre
Balza di Snowdon conducea le folte
Sue piumate falangi a ingiusta guerra
L'orgoglioso tiranno; e ritto intanto
Sovra uno scoglio che P acuta fronte
Su gli spumanti vortici protende
Del muggente Gonway, vestito a bruno
Stava il bieco profeta e rimirava.
CASTO Fimo 333
Insanguinate, su le nubi assise
Gli fean cerchio le truci ombre gementi
DegP inulti fratelli^ e il vate ordiva
Su le corde dell'arpa dolorosa
Di regali sventure e di delitti
Una terribil tela, a cui le Dire
Porgean le jfila nel sangue tu&te
De' Britannici re ^ mentre all' orrendo
Lavor placate sorridean le lunghe
Larve fraterne, e su i deserti letti
Cessava il pianto delle Gambrie spose.
Giunto UUino su l'erta, il guardo spinse
Giù nella valle, e ritto in piedi, e l'arco
Spalancando del ciglio e palpitando.
D'armi vide e d'armati tuttaquanta
Ondeggiar la pianura, e starsi a fronte
Già minacciosi, già parati al cozzo
Gli eserciti rivali 3 e li movea
Non eguale virtù. Guatava il veglio
Le Germaniche file; e poiché l'ebbe
Corse e ricorse : Oh sventurati 1 ci disse.
Voi non venite a giusta pugna : io veggo
Passar veloce su le vostre fronti
Una mano di fuoco, che con negro
Stile vi scrive una fatai sentenza.
Qual rio s' è fatto qui di voi mercato ,
Sventurati fratelli ! E si dicendo
Torse lo sguardo inorridito, e pianse.
Si volse poscia aUe contrarie schiere.
Che miglior causa e Dei migliori all'armi
Spingean. Sereno su que' volti tutti
Lampeggiava il coraggio, e quella franca
Securtà di valor , che pria del fatto
Ài cor ti dice: Il vincitore è questi.
Venian siccome a nuzì'al carola
I valorosi, e dalle dense usciva
334 ^ BARDO mSLLk SBLTÀ NEItÀ
Mobili selve de^ tacenti ferri
Lampi intorno e panre. Alto tremava
Sotto Pugna de^ fervidi cavalli
La terra; e chiose ne^ romiti alberghi
Di Vertinga le madri e di Gunsburgo
Si stringean trepidando i figli al seno.
Stette immoto alcun tempo a rignardarli
L^ attonito cantor. L'avida vista,
Senza batter palpebra, or da quel lato,
Or da questo inviava: e per la mente
Scorrean frattanto, e s'accendean veloci
Le profetiche vampe. Alfin rapito
Da sùbito furore alla seguace
Vergin si volse, e: Porgimi, le disse,
Porgimi Tarpa de' guerrieri, o figlia;
Che un Dio per mezzo a quegli armati io veggo j
Un terribile Dio , che li conduce ,
E pentiti farà nel suo disdegno
I giurati Potenti. Incontanente
Pose Malvina nelle man del padre
n fatidico legno. Ed ci, gli arguti
Nervi scorrendo col maestro dito,
Sposò la voce al suon delle percosse
Fila, seguaci della calda mente :
Porgete attente
L' orecchie ; e il fato ,
Che vi sta sopra, .... udite.
Dell' innocente
Sangue versato
In scellerata guerra
Conta il cielo le stille, e le schernite
Lagrime tutte della stanca terra.
Lassù, dov'anco
n muto arriva
Gemer del verme che calcato spira,
Del Nume al fianco
cìuto primo 335
Siede ima Diva,
Che chiusa in negro ammanto
Scrìve i delitti coronati, e all^ira
Di Dio presenta delle genti il pianto.
Ed ella il carco
Degniti strali
Feneo turcasso agli omeri sospeso,
Scende^ e dall^arco
Fischiar fa Pali
Dell^ultrìce saetta.
Vanno in polve i diademi, e dell'offeso
Popol si sfrena la fatai vendetta;
Ghè su gli scossi
Troni s'asside
Inesorata ; e sul castigo e V onte
De' re percossi
Fiera sorrìde.
Poi rifatto in sembianza
Più bella il solio, su vi scrìve in fronte :
Re caduti, lasciate ogni speranza.
A che poni tua speranza
Nel crudel feroce Scita?
Perde il nome la Possanza,
Che di barbarì s'aita:
Vile è il trono, a cui sostegno
Son quell'armi, ed onta il regno.
Ahi demenza ! i cervi imbelli
Congiurati assalto han mosso
Al lion che arruffa i velli.
Al lion che ancora ha rosso
Di lor strage il forte artiglio,
E la morte ha nel cipiglio.
Ei già rugge: fuggite, fuggite.
Sconsigliati; le frasche sentite
Ruinose con alto fracasso
Atterrarsi, e dar loco al suo passo.
336 IL BARDO BELLA SELVA HERA
Vedi , vedi, egli spira dagli occhi
Fiamme oirende: nessuno lo tocchi
Che signor delle selve
Valor lo fece , ' ed arbitro
Dell' altre belve.
Tale il Bardo proluse, in sacra nebbia
Avvolgendo gli accenti. Ardea frattanto
In vai d'Istro la pugna. E qual tra vili
Minuti augelli piomba la grifagna
Degli strali di Giove arrecatrice ;
Tal si scaglia per mezzo alla nemica
Folta il Francese combattente j e armato
Più di cor che di ferro, altro non teme
Che gir secondo ad incontrar perigli.
Già fulminava di Vertinga i campi
Procelloso un Guerrier, che della prima
Strage Alemanna sanguinando il piano,
Del primo arringo si cogliea gli onori,
E le schiere rompea^ pari al veloce
D' ogni gagliardo domator Pelide ,
Quando tutti di Grecia alla vendetta
Precoirendo gli eroi stirpe di Numi,
Per le Frigie contrade orrendamente
Facea Pugna sonar di Balio e Xanto,
Immortali destrieri. Emula corre
Di Teutonico lauro a ghirlandarsi
Degli altri duci la virtù. D' EUchinga
E di Gunsburgo su i tremendi ponti
Già batte la novella Aquila i vanni
D' ostil sangue roranti , e nell' antica
Figge ardita così V ugna sovrana.
Che fuggitiva a rimpiattarsi d'IHma
Ne' mal chiusi ripari la costrigne. ^
La vincitrice intanto a maggior preda
Sovra il balzo d'Albecco apre V artiglio.
CANTO PRIMO 337
Ivi in pugna crudel prodigio apparve
D^ infinito valor. Contra se^ mila
Impetuoso e quattro volte tanto
Gombattea PAlemanno, e non lasciava
Dubbia la speme V inegual conflitto.
Ma numero che vai contra virtude?
Veder la numerosa oste, e primieri
Assalirla, spezzarla, e sgominarla,
E far cbe molti mordano la polve.
Molti cedano il ferro ,
Fu per que' pochi eletti un breve affiamo.
Anzi un tripudio ^ che i perigli sono
La danza degli eroi. Vide il bel fatto
n £ardo spettator daUa sua rupe ,
E le nobili piaghe a mezzo il petto
Del vincitore le vide, e su le pronte
Corde sonore fé volar quest^inno :
Oh illustre pugna! oh splendide
Ferite generose ,
Alle ferite simili.
Che le Laconie spose
Baciar sul largo petto
Dei trecento allo Stretto!
Raccogli, amor di patria.
Quel sacro sangue, e al ciglio
De' giovinetti mostralo
Nel marzial periglio.
Da mortai vena, il giuro ,
Mai non usci il più puro.
Vedrai repente accendersi
Tal ne' garzoni ardire ,
Tal nella mischia fervere
Di gloria un bel desire ,
Che sorriso del forte
Diventerà la morte.
338 H- BARDO DELLA SELVA EIEllA
Valle d^Albecco, i tremoli
Vegliardi un di col dito
'P insegneranno^ e il postero
Di santo orròr colpito
Ricercherà la fossa,
Che degli eroi tien Possa.
Coprirà Perba e il tribolo
Le mute spoglie , ed irti
Per le notturne tenebre
Vagoleran gli spirti ,
Che morti ancor daranno
Spavento all'Alemanno.
Ma Paltò ardire, ond' inclito
Suona d'Albecco il campo ,
No, non fia sol. Già folgora
D' emule spade il lampo,
Già in Gremsa si rinnova
La memoranda prova.
Fragor percuotemi
D'armi terribile:
Veggo di barbari
Immenso un nugolo ,
Che in Diemestéino
Su pochi intrepidi
Piomba. Ne tremano
Di Gremsa i colli^
Ma non i Gallici
Brandi, che agognano
Andar di Getico
Sangue satolli.
Ecco, già brillano
Nudi, già al sonito
Guerrier s* abbassano ,
Già van, già rapidi
Fan piaga, e perdono
CANTO PRIMO 339
Dentro le perfide
Vene del truce
Scita la luce.
Scita crudel, di Tauride non sono,
Della Vistola, no, queste le prode ,
Ove usurpasti fira^ turbanti e un trono
Da tre percosso del valor la lode.'
Qui t^ hai , mal giunto , quelle spade al petto ,
Che due volte fér tristo il tuo destino,
Quando atterrato e di catene stretto
Il fiatavo ti vide e il Tigurino.
Questi all^ arpa fidava il Bardo austero
Vaticini sdegnosi, e confondea
L^ arcano canto col firagor del fiume,
Pallido intanto su TAbnobie rupi
Il Sol cadendo , raccogliea d^ intorno
DaUe cose i colori, e alla pietosa
Notte del Mondo concedea la cura.
Ed ella del regal suo velo etemo
Spiegando il lembo raccendea negli astri
La morta luce , e la spegnea sul volto
Degli stanchi mortali. Era il tuon queto
De^ fulmini guerrieri, e ne vagava
Sol per la valle il fumo atro, confiiso
Colle nebbie de^ boschi e de^ torrenti:
Eran quete le selve , eran dell^ aure
Queti i sospiri^ ma lugubri e cupi
S^ udian gemiti e grida in lontananza
Di languenti trafitti, e un calpestio
Di cavalli e di &nti , e sotto il grave
Peso de^ bronzi un cigoh'o di rote ,
Che mestizia e terror mettea nel core.
CANTO SECONDO
ìL FERITO nfALBECCO
Disse a Malvina allor commosso UUiiio :
Odi, figlia, laggiù que^ dolorosi
Gemiti? gli odi? Il fier lamento è quello
Del valor moribondo. Or senti. AncV io
Trattai nel fiore delle forze il brando
In crudeli battaglie, e a me pur anco
Splende di belle cicatrici il petto.
Infelice a far mia degP infelici
La sventura imparai. Scendiamo, o figlia,
Scendiam ^ cbè grata al ciel, né indamo spesa
In beneficio del valor che geme ,
Fia, lo spero, laggiù la nostra afta.
Sbigottì , SGolorossi a tanto invito
La non awezxa a sanguinosi obbietti
Timidetta donzeOa, e, in lui gli sguardi
Fissi e fermi, tacca. Poi dal paterno
Esortar fatta più secura , e punta
Dallo strai di pietà, che ardite e pronte
Fa neU^uopo d^onor T anime belle:
Padre, disse, scendiamo; e coraggiosa
L^orme del veglio a seguitar si mise.
Van per mezzo alla strage, e non gli arresta
H terror cb^esce dalle tronche membra,
E dal sangue e dall^ armi orribilmente
Sparse e confuse^ che sostienli e guida
IL BARDO DELLA SELVà NERA^ CAUTO SECONDO 34 1
La virtù che fa Paom negli ardui tempi
Più pensoso d^ altrui che di sé stesso.
L^ andar dei due pietosi illuminava
Tacita e pura la sorgente luna,
Che per veder sì santa opra scopria
Tutto il vergine volto, e rimovea
U invido velo delle nubi. Ed ecco
Per V orrendo sentier gli attenti sguardi -
Ferir d^ Ullino a un tempo e di Malvina
Giovin guerriero , che fra molti uccisi
Giace in lago di sangue , e , stretta in pugno
La rubiconda spada, ancor respira.
L^ alta strage che il cinge , il minaccioso
Tener del brando, ed il purpureo nastro,
Che argomento d^ onor gli fregia il petto ,
Fanno invito alla vista. Era il sembiante
Fiero , ma bello , e su la nuda fronte
Della luna scendea si dolce il raggio,
Che rapito ti senti a riguardarla
Di pietade e d^amor, e qual sia primo
O non r intende o non sa dirlo il core.
Vide il bel volto del garzon ferito
La tenera Malvina, e pria che il piede,
Corse r alma in aiuto all' infelice ,
Che di questo s* accorse , e colP alzata
Languida mano e co' natanti lumi
Le rendea la mercè che colla voce
Nonpotea. Molte, né però mortali,
Gli solcavano tutta la persona,
E a poco a poco gli rapian la vita
Le ferite^ ed uscia di ciascheduna
In un col sangue una segreta voce
Che al cor parlava di Malvina. Ond'ella
Sciolte ratto dal fianco a dalle chiome
Le caste bende, con Ullin si diede
À fasciarle veloce^ e della piaga,
MoRTL Poemetti» 33
3/^2 IL BARDO ÒELUl SELVA HBRA
Che occulto strale già le apria nel seno,
La meschinella ancor non s^accorgea.
E già lo spirto che fuggia col sangue,
Le vie del cor ripiglia, e per le membra
Diffuso riede ai consueti officL
Già si folce sul cubito, già sorge,
Già in pie sostiensi il Cavaliero, e puote
Coli' aita de' duo che al fianco infermo
Gli fan colonna , imprimer V orme , e lento
Movere il passo. Non sorgea lontano
D' Ullin r umile tetto, e non fu lungo
Del venirvi lo stento. Ivi gioiosi
Sovra non ricco letticciuol, ma tutto
Bella spirante pastoral mondezza,
n corcar mollemente. E ciò che Puopo
Ghiedea dell' arte , apparecchiato , e messo
Di medich'erbe un suo tal sugo in pronto,
A lavar diessi coli' esperta mano
Ogni piaga il buon vecchio , ad irrigarle
Di sanatrici stille, a farle tutte
Innocenti e sicure. In mezzo all' opra
Le guardava il ferito e sorridea,
E colla mano coraggiosa e ferma
Le misurava, e gli brillava il viso
Come raggio di Sol che dopo il nembo
Ravviva il fiore dal furor battuto
D' aquilon tempestoso. E in quel gioire
Il cor sospinse i suoi purpurei rivi
Novellamente a risvegliar le rose
Delle pallide guance^ e nelle vene
Tornò più lieta a circolar la vita.
Sciolse allor quell' intrepido la voce ,
E con guardo sereno, e con parole
Che sul labbro gì' invia la conoscenza
Del ricevuto beneficio , disse :
Generoso mortai, che al fato estremo
CASTO SECONDO 343
Mi togli 9 e tanta dalla nobil fronte
Riverenza m^ inspiri , e tu che mostri
D^ angelo il volto, e la pietosa cura
Con lui dividi, amabile fanciulla,
Dite, se onesto è il mio pregar, chi siete?
Di che gente ? Saper di chi m^ ha salvo
Giovami il nome, e il cor lo chiede, il core
Che non ingrato mi fu posto in seno.
La mercede che scarsa io vi potrei
Render di tanto, vi fia larga e intera,
Pria dal Ciel che le belle opre corona ,
Poi dal possente mio Signor renduta^
Che liberal , magnanimo , cortese
Del par che invitto è de' Francesi il Sire,
E nel far lieta la virtude esulta.
Guerrier, rispose Ullino, il tuo coraggio,
La tua ne' mali alacrità già detto
IVr avean la patria tua. Io dell'averti
Tolto a morte, e servato al tuo Signore
Sento letizia, eh' ogni detto eccede.
Ma tu, figlio, tu fai misero e vile.
Promettendo mercede, il beneficio.
Sta qui dentro il mio premio , in questo petto ,
Premio che darmi né tu puoi, né il Grande ,
Per cui combatti. Né però disdegno
Del tuo cor grato i sensi, e mi fia dolce
( Ecco tutto che bramo ) il saper vivi
Nella tua rimembranza il Bardo Ullino,
E costei, che pietosa in tuo soccorso
Volò primiera, ed è la speme, il raggio
Dell' inclinato viver mio. Nel fine
Di questo detto caramente ei prese
La fanciulla per man, che compiaciuta
Chinò i begli occhi verecondi , e tosto
Gli alzò furtivi e timidetti al volto
Del già caro garzone^ ed ei la stava
344 n. BABDO lALLà SELVA HBU
Già contemplando, e P ultime parole
Del buon canuto ripetea nel core.
Si scontraro gli sguardi, e negli sguardi
L^alme sospinte. In lei beossi, e ferma
La vista ei tenne: di color cangiossi
L^ altra , e atterrò V oneste luci. Il veg^o
L'abbracciava, e seguia: Questo diletto
Di santbsimi nodi unico fimtto
(Nodi troppo per tempo, ohimè! recisi,
Ma troppa , o cielo • ti parca la gioja
De' sereni miei di!), questa gentile
Tenera pianta, come valgo ^ all'aura
Della virtude coltivando io vegno,
E in lei comincia, in lei tutta finisce
La mia cura, il mio regno. EUa'm'é tutto,
E la man cara della mia Malvina,
Questa mano innocente, allor che morte
Chiamerà la mia polve entro la tomba,
I lumi in pace chiuderammi. Aperse
À que' detti Malvina ambe le braccia.
Intenerita le ricinse al collo
Dell'amato vegliardo, e su lui tutta.
Senza veruna profferir parola.
Cadde col capo in abbandono, e pianse.
A quell' atto d' amor tanto , a quei volti
Dolcemente confusi, a quelle mute
Lagrime alterne, si senti sul ciglio
Correr pur esso una segreta stilla
n sospeso guerriero, e per le membra
H dolor tacque delle sue ferite^
Ma non già tacque il cor, che il molto affetto
Dicea con gli occhi rugiadosi e fissi.
Ruppe alfin quella dolce estasi Ullino,
E rasciutta la guancia, amicamente
AU' estatico disse : Io satisfeci ,
Sconosciuto Francese, al tuo desire.
curro sBCORDo 345
Mi nomai Bardo ^ e in questo nome apeni
Tutto che sono. Per te stesso or sai
Ch^ io son de^ buoni e in un de' forti amico,
In solitaria povertà non vile,
Ricco di cor, di pace e di contento.
Né, perchè Bardo, argomentar che rozzo,
Qual già piacque armici prischi, e scevro in tutto
Da civile dolcezza il tenor sia
Di mia vita^ che care a me pur sono
Le virtù cittadine , e precettori
Nella somma de' carmi arte divina
Non mi fur sole le tempeste e i nembi,
I torrenti, la luna, e le pensose
Equitanti le nubi ombre de' padri;
Ma i costumi ben anco e le dottrine ,
E gli affetti, e i bisogni, e le vicende
Dell' uom, cui nodo social costringe;
Che eulta ancora la natura è bella.
Ben fu stagion che maestosa e diva.
Non che bella m' apparve , innanzi a quella
De' vostri vati, la natura espressa
Ne' bardi carmi, e grande io si l'estimo
In suo rozzo vestir. Ma fantasia
Sempre avvolta di nembi, e sempre al lampo
Delle folgori accesa, ed al ruggito
D'uniformi procelle, a lunga prova
La bramosa di nuove dilettanze
Alma nel petto mi stancava; e dentro,
Si qui dentro sentii che d'qn sol fiore
Ir contenta non può questa divina
Nostra farfalla. Allor vid' io che il Bardo
Pittor non era si fedel, qual sembra.
Di natura; che varia ella e infinita
Nell'opre sue rlsplende; e circoscritta
Sotto i bardi pennelli è ognor la stessa.
Non che il mio stato, ti fei chiari, o figlio,
346 IL BÀBDO IIELLA SELVA HKRA
Quali in petto li serro j i miei pensieri.
Or piacciati cortese a me tu pure
Nomarti, e dime i genitori. E qaesto
L^ interrogar che primo esce del labbro
De^ vegliardi, e mi so che dolce in petto
Di buon figlio risnona* Come poscia
Tua salute 11 consenta, di più lungo
Desire antico mi farai contento.
Guerrier mi giova de' guerrieri udire
I magnanimi affanni; e del tuo Duce,
Che tutta del suo nome empie la terra,
E ne libra i destini, è tempo assai
ChMo solingo di selve abitatore
Molto udir bramo. E molto udrai, rispose
Sollevando la testa il Cavaliero;
Ch'io su gl'Itali campi, ove le penne
Al primo volo la sua fama aperse,
E sul barbaro Nilo , e fi*a F eteme
Nevi dell'Alpi il seguitai fedele,
E tutte del suo brando e del suo senno
L'opre vidi e conobbi, e nel volume
Tutte le porto della mente impresse.
Medicina sarammi all'egro fianco
II narrarle. S' appaghi intanto il primo
Tuo dimando. Terigi è il nome mio.
D'Itala madre mi produsse in riva
Dell' umil Varo genitor Francese,
Un di que' prodi che passar fur visti
Su generose antenne alla vendetta
Dell'oltraggiato American. Me privo
Del morto padre in povera fortuna.
Ma in non bassi pensieri e sentimenti
Nudri la madre coraggiosa. E (piando
La non ben nota, né raccesa ancora
( Come fulmin che dorme entro la nube )
Virtù del magno Bonaparte scese
CANTO SECONDO 347
Nell^ Italico piano, arse d^un bello
Desio di gloria il giovanil mio petto ,
Né della patria la chiamata attesi,
Ma volontario mi proffersi. ÀI seno
Mi serrò la dolente genitrice,
Dolente sì, ma non tremante, e, alzate
Le luci al cielo , benedisse il figlio ,
Con queste , che profonde mi riposi
Nel più sacro dell^ alma , alte parole :
Figlio, tu corri a guerreggiar la terra
Che mi die vita. Non odiar tu dunque
La patria mia, che tua divien, che nullo
Fece oltraggio alla vostra. I suoi tiranni
V oltraggiaro , non ella , che cortese
Arti diewi e scienze , ed or bramosa
V^apre le braccia, e a sé vi chiama, e spera
Dal Francese valor, non danno ed onta,
Ma presidio e salute, e delP antico
Suo beneficio la mercè. Calcando
L^ Itala polve , ti rammenta adunque
Che tutta è sacra ^ che il tuo pie calpesta
La tomba degli eroi \ cV ivi han riposo
L' ombre de' forti , e che de' forti i figli
Hanno al pie la catena, e non al core^
Che in que'cor non mori, ma dorme il foco
Dell' antica virtù ^ dorme il coraggio ^
Dormon le grandi passioni. Oh sorga.
Sorga alfine alcun Dio che le risvegli ,
Che la reina delle genti al primo
Splendor ritomi, ed il sepolto scettro
Della Terra rialzi in Campidoglio!
Questi voti al valor consacro, o figlio.
Dell' auspicato Bonapartc. Il fiero
Spirto che ferve in quel profondo petto ,
È dell' Italo Sole una scintilla ,
E 1' ai^dir delle prische alme Latine
348 n. BÀADO DELLA SELVA NERA
Sul SUO brando riposa. Or tu fra rarmi
Duce seguendo di cotanta speme,
Possa tu , figlio , meritarti il grido
Di buon, di prode, di leal guerriero,
E tornar salvo ad asciugarmi il pianto
Che mi lasci partendo. E qui troncaro
Le lagrime la voce. H cielo io cbiamo
In testimonio, e te, cara e sovente
Del mio sangue bagnata Ausonia terra.
Che della madre io fui fedele ognora
Ai santi avvisi , e rispettai le tue
Maestose sventure, e qual seconda
Patria t^ amai ^ che ben di senso è privo
Chi ti conosce , Italia , e non t^ adora.
E voi di Dego e Montenotte orrendi
Dirupi , e voi dell^ Adige e del Mincio
Onde battute, fatemi voi fede.
Che né disagio, né periglio alcuno
Schivai d^ armi , né fui pugnando avaro
Della mia vita. Si commosse Ullino,
Si commosse Malvina a quel pietoso
Racconto, e i moti fea del cor palesi
L^ alta eloquenza del tacer. Quetato
Degli affetti il tumulto, si riscosse
n Bardo , e disse : Nella tua favella
Una forte risplende alma sublime.
Valoroso Terigi ^ e T ascoltarti
£ gioia che si sente e non si parla.
Ma di qmete or le tue piaghe bau d^uopo
D^ alta quiete : e il sanator di tutte
Cure, r amico degli afflitti, il sonno.
Tempo è che scenda a riparar le spente
Tue forze. Avremo alle parole assai
Ore acconce altra volta. In questo dire
Surse il veglio, abbracciollo^ e su le labbri
Ponendo in atto di silenzio il dito,
CAUTO SECONDO 34g
Allontanossi. Taciturna e lenta
D segoia la donzeUa, e un guardo indietro
DaUa soglia piegò con un sospiro
Che dicea: parte il pie, ma resta il core.
CANTO TERZO
LÀ PRESA DI ULMA
Mentre d^Ullino nei riposti alberghi
Tacitamente Amor un suo leggiadro
Colpo prepara , e la Virtù gli è duce ,
Due di Virtù nemiche , e d' ogni bello
Senso d'onor, Paura e Codardia,
Nella stretta d^ assedio Ulma turrita
Tale ordiscono turpe opra di guerra ,
Che della più non sarà mai che parli
Vergognando la fama. AUor che fìnitto
D' infernale imeneo la tenebrosa
Deir Èrebo consorte etema Notte
L^ Angoscia partorì, Tlnsidic, il Pianto,
La malvagia Fatica, e la Menzogna,
E con le bieche rubiconde Risse
Delle leggi il Disprezzo, e la deforme
Consigliera di colpe orrida Fame ,
Cognati tutti e spaventosi aspetti^
La negra madre con nefando parto
La Codardia produsse e la Paura ^
Luridi mostri, che di Giove il senno
Fé di Marte ministri. Ed ei, siccome
Più gli talenta, a sbigottir li manda
Le percosse città , di falsi empiendo
Rumor gli orecchi, e di sgomento i petti.
Or tu , Diva del canto , a cui palesi
De' mortali son F opre e degli Dei ,
IL BARDO DELLA SELVA NERA, CANTO TERZO 35 1
E ti ragiona ei pure i suoi segreti
n Fato 9 di cui trema ogni altro Iddio ,
Tu, che dentr^ Ulma oprar le nequitose
Torve sorelle mi «racconta, e adempi,
Libera e vera saettando i vili,
La vendetta de' forti. E primamente
Narrami di che loco al turpe fatto
La Paura volò. Sola e disgiunta
Dalla sozza sirocchia ( che non sempre
Di Codardia compagna è la Paura),
Stava la Dira sul Britanno lido
Seminando il terror delle Francesche
Armi , e destando d' ogni lato in fretta
Le difese e T offese. Era ne' porti
Un sobbuglio, una pressa, una faccenda
Mirabile a vedersi. Altri devolve
Dai fervidi arsenali in mar gli abeti ,
Che van su V onde a rinnovar co' venti
L' antica lite , e i cavi seni han gravidi
Di tradigion, di ferro e di coraggio.
Altri il fianco ristoppa alle sdruscite
Navi, e sarte rintégra, e monche antenne,
E lacerate vele. Altri ai ridotti
E alle bastite orribile ghirlanda
Fan de' concavi bronzi imitatori
Del fulmine celeste. E per le vie
Brulicanti frattanto, e per le prode
Tale un gemer di rote, im incessante
Picchiar d' incudi e di martelli , un sempre
Ire e redir di ciurme e di soldati,
D' armi , di carri e di navali arnesi ,
Che 1' udire e il veder mettean nelF alma
In un solo sentir confusi e misti
Terror, diletto e maraviglia. A tanta
Provvidenza di mezzi, a tanta mole
Di travaglio assistente è la Paura,
35a IL bJlbdo dbllà osl^l hbra
Che per tatto discorre e tutto osserva,
Tutto esamina attenta, e mai non posa.
Poi quando su le dure opre mortali
Stende il velo la notte, alto s^ estolle
Su le nubi la Furia, e con lugubre
Lungo ululato orrendamente grida:
Bonaparte. Si svegliano al tremendo
Nome gli azzurri addormentati, e corrono
Alle vedette rabbu&ti e pallidi.
Notano da che parte il vento spiri,
E del mar su le fosche onde la vista
Intendendo e V orecchio , ad ogni fiotto
Temon V arrivo delle Franche antenne.
Svegliasi ancV esso di Windsor su V ebre
Piume il deliro Coronato, e corre
Con la mano a cercar su V irta chioma
In gran sospetto il regal serto, e pargli,
Pargli il trono veder che crolla e fiigge.
Ma imperturbato il regnator ministro,
Che sonno non permette alla pupilla.
Né si scuote a quel grido, né sembiante
Fa di temerlo. Àllor furtiva e queta
A lui viene la Dira, e nelle chiuse
Arcane stanze gli ritrova al fianco
Orrenda compagnia. Vi trova il vile
Tradimento, che strigne nella dritta
Pugnale acuto, e stende F altra al prezzo
Delle scoppiate indamo in su la Senna
Polveri infeme^ e più felici colpe
Feroce e bieco vantator promette.
La sannuta vi trova e ardimentosa,
D' ogni onorato e degli eroi flagello.
Svergognata Calunnia con le piene
Man di libelli , in cui la ria distilla
I pagati veleni. Evvi V avara ,
Che d^ oberato senator gli vende
CAUTO TERSO
n sufiragio e la voce. Eyyì abbracciato
Con la Perfidia il rompitor de^ patti
Falso Interesse, cbe del patrio amore
Ha la larva sul ceffo. Evvi di tatte
La più nera, colei che al conio suda
De^ falsati metalli, e di mentito
Stigma imprime le carte, a cui di tutti
La sostanza è creduta. Han le medesme
Figlie d^Avemo orror di questa iniqua^
Ewi ancor V esquisito empio Diletto
Delle lagrime altrui^ ewi l'Orgoglio
Dei sublimi delitti^ ewi la Rabbia
Delle vane congiure, e degli errati
Calcoli, ed altre d'esecrato aspetto
Tartaree forme ^ e tutte intomo al capo
Dell'arbitro Britaimo un mormorio
Fan conftiso e feral, quale ne' boschi
Del Gargaro racchiusi e già vicini
A far tempesta i venti: il rombo n'ode
L'arator da lontano, e sul periglio
Della già bionda spiga impallidisce.
Tale e più rauco è il susurrar là dentro
Delle spietate in quella vasta e scura
Di misfatti officina^ e or l'una, or l'altra
Va consultando e carezzando il macro
Degli Angli correttor, mentre alle porte.
Che Crudeltà tien chiuse, inesaudito
Batte il Pianto d'Europa. In mezzo a tanta
Tenebrosa congrèga, la Paura
Comparisce improvvisa, e le raccolte
Negre sorelle di spavento agghiaccia^
Gli occhi immobile affigge su lo smorto
Anglo, il contempla, e non fa motto. Alfine
Dalle chiome spiccando una fischiante
Cerasta, al petto glie l'appicca, e grida:
Guarda e trema. In quel dir sciogliesi tutta
353
354 ^ BAADO DELLA SELVA HBRÀ
In levissimo fumo, e per le nari
E per la bocca gli discende al core.
Guarda il misero, e vede, oh che mai vede?
Squarciato vede e sanguinoso il petto
Di larga piaga al fiero e non mai vinto
Yincitor d^Àbukire^ e alla caduta
Del truculento EIroe pargli che tutto
D^Albìon cada il vanto e la speranza.
Vede lui stesso atroce ombra rabbiosa
Su gli Atlantici flutti perseguire
Dell^ Ispano e del Franco i galleggianti
Cadaveri 9 ed il morso empio su quelli
Rinnovar di Tideo. Vede all' orrendo
Atto fuggir le vinte ombre atterrite y
Ed ode in quella un'esultante voce,
Che su i campi Moravi la vendetta
Del Franco nome a contemplar le chiama.
Ode poscia un lamento, un suon confìiso
Di molte voci di dolore e d' ira ,
Che d'ogni parte lo percuote^ e vede
Da quei gridi invocata e taciturna
A gran passi venir la domatrice
D'ogni possanza e d'ogni rio, la Morte.
E la vede egli si, che già ne sente
Ne'pobi il gelo 5 e nel morir, più eccelso
Mira innalzarsi , ahi vista ! e più temuto
Del guerreggiato suo nemico il trono,
E al pie di lui preganti con le rotte
Corone in mano i re venduti e vinti.
Al crudele spettacolo d'un freddo
Sudor si bagna il disperato , un guardo
Gitta smarrito alle bilance infami
Compratrici de' regi: ed ahi! le mira
Traboccanti di sangue, e le man sangue
Grondano , e al pie gli sgorga e bolle un fiume
Di sangue che ognor cresce, e alfin l'affoga.
CANTO TERZO 355
Questi oprava la Dea strani terrori
Ne^ Britanni cerébri. Si diparte
A iniqua provocato ingiusta guerra
Ratto qual lampo dal Piccardo lido
Il Guerrier de' guerrieri , e al suo partire
Si toglie ancV essa d'Albìon la Dira ,
Precorrendo V eroe. Piomba su V Istro
Tacitamente^ sMntromette occulta
Nel Teutonico campo , e de' suoi geli
Tutto lo sparge
Da due tante d'onore awersatrici
Posseduto , incalzato , esagitato y
Che farà V infelice ? Àrduo torreggia
Ed aspro tutto di fulminee bocche
n muro che lo serra, e par che debba
Da tutti assalti assicurai^lo. Gravi
Gemon di molta cerere , e per molte
Lune provvista le riposte celle.
Nulla è che manchi a qual sia uopo. Al fianco
Gli stan tre volte dieci mila intatte
Spade , e assai prodi , a cui morir più giova ,
Che patteggiar la vita, ed incruente
Ceder Farmi. Che più? Pugnan per lui
I venti e l'onde. Impetuosa pioggia
L'assediante flagella. Irato inonda
L' Istro il vallo Francese. E qual già sotto
Le fatali di Troia inclite mura
Di Teti al figlio oppor si vide il Xanto
I divini suoi flutti , e del gran d' ilio
Ritardar la caduta^ non diverso
Contra il Gallico Eroe le violente
Onde solleva il regnator superbo
De' Germanici fiumi , e d' Ulma i tiùsti
Fati pur tenta difierh*. Ma indarno
Per lo vii duce , che lì tolse in cura ,
356 a. BÀADO DBLLi 8BLTA NERA
D^iin Dio combatte la possanza. Antica
Sua compagna fedel la Codardia,
Ogni favilla di valor gli ammorza
Nell^ attonito petto. E quando i lumi
Gli occupa il sonno , la schifosa assume
Gli atti 9 r andar, la voce, il portamento
Della Diva Prudenza, e a lui sul capo
Librandosi, e raggiando di gran luce.
Cosi prende a parlar: Macco, tu dormi?
Tu diletto mio figlio? E in qual ti stai
Rischio orrendo non badi? Il Franco ardilo
L^ erte intomo già tiene , e signoreggia
La non forte città. Cadde Memminga,
Cadde Gunsburgo: d^ogni parte rotti
Fuggono i tuoi: le Russe armi son lungi,
E il saranno^ nessuna in tanto estremo
Speme rimanti di soccorso: e ancora
Fai dimore alla resa, e Tire inaspri
Del vincitor? Che attendi? H rio macello
Forse ignori di Jaffa, e che crudele
Spesso diventa la pietà schernita?
Sorgi, e fa senno dermici detti, il senno
Che un di nel campo Capùan ti fece
La rossa abbandonar vinta bandiera
Prigionier fortunato, e poi di nuovo
Più fortunato fuggitivo. Il vulgo
Quell^ abbandon vii disse, e quella fiiga^
Ma ti die laude di scaltrito il saggio,
E PÀnglo t^ ammirò, FÀnglo che volle
De^ congiurati eserciti commesso
ÀI tuo saper il carco e la fortuna.
Renditi dunque, renditi, son io
Che di ciò ti consiglio, io che il passato
Dell^ avvenir fo speglio. Se più tardi.
Passa il momento del perdon : furente
Entra il Franco d^ assalto, e tu con tutti,
J
CAUTO TERZO 35^
Tu se^ morto. Dispaire in questo dire
Con un guizzo di luce la mentita
Diva, e tornò nel primo volto. Allora
Sul cor tutta gli stende la Paura
La man firedda, e lo strìgne, e della suora
La vile opra sigilla. Esterrefatto
Balza il misero in piedi. Udir già pargli
DegP ignivomi bronzi il tuono, e il grido
Dell^ assalto^ veder pargli divelta
Dai fondamenti la cittade, e sopra
La fervida mina alto apparire
n gran guerrier, che inesorato invia
D' ogni intomo la morte. Alla pensata
Vista feral confuso, istupidito
Pensa, volge, rivolge. Ira, rimorso,
E furore, e vergogna in un raccolti
L'avvampano, ma tutti in cuor gli estingue
Delle paure tutte la più cruda,
Napoleon. Da tanto nome oppresso
Cede Parme il meschin, cede un integro
Esercito captivo^ e, col terrore
Sol del nome, incruente e stupefatte
Cittadi e regni il mio Si^or conquista.
Morti. Poemetti, a3
CANTO QUARTO
IL RIPOSO
Su le Noriche nevi alta già sparge
Le sue rose P Aurora, e saltellante
Di ramo in ramo il passer mattutino
In suo garrire la saluta , e cliiama
Alle cure campestri il yillanello.
Surge Ullin^ ma d^amor punta la figlia
Già vegliava infelice, e del languente
Terigi tutta notte avea portato
Nel pensier le ferite e le parole.
Trovolla il padre su le soglie assisa
Della stanza, ove giace il giovinetto,
Guardiana pietosa, ad ogni lieve
Rumor d^aura mettendo alle socchiuse
Valve r orecchio, e palpitando. E quegli,
Fatto sicuro della vita, e vinto
Dal soave sopor, che nelle stanche
Membra si grato la natura infonde,
Del perduto vigor prendea ristauro
In dolcissimo obbho. Sereno intanto
L^almo dlperìon lucido figlio
Su le Pannonie cime i rugiadosi
Destrier sferzando lampeggiava il puro
Fulgido riso allegrator del Mondo,
E su le vinte d^ Ulma eccelse miura
Di tremoli baleni illuminava
Lo sventolante tricolor vessillo.
Dalle propinque rupi stupefatto
IL BARDO DELLA SELVA NERA, CANTO QUARTO SSq
Il Tedesco Io vide, e de^ futuri
Danni presago ne tremò. L^ accorto
Tirolese lo vide, e su la speme
Di destino miglior sorrise e tacque,
n Bavaro Io vide, ed alto un grido
Di giubilo mandò, che T adorato
Suo Prence richiamava, e i rai divini
Della Vergine stella adomatrice
Del Vindelico cielo, e non sapea
Che ciel più bello glie Favria rapita.
Yid^ egli pur la vincitrice insegna
Dal romito suo tetto il Bardo Ullino,
E al piagato Guerrier, che al dì novello
In quellMstante i lumi aprià, ne porse
Esultando V avviso. Ed ei F infermo
Fiai^co sul letto sollevando, e tutto
Tremante di piacere: Oh! chMo la vegga,
GVio la vegga, gridava. E sì parlando
Barcollante si leva, alla fidata
SpaUa si folce del buon vecchio, e il passo
Move^ e di forze povertà non sente:
Tanto puote la gioia. In rusticano
Acconcio seggio lo compose UUino
Sul varco della soglia, e dirimpetto
GoU^accennar del dito il trionfante
Vessillo gli mostrò. Corse al Guerriero
Tutta Palma negli occhi a quell'aspetto.
Gli tolse il gaudio le parole^ e V atto
Della bocca, del ciglio e della fronte,
E tutta la sembianza era un sorriso
Del cor che lieto per la vista uscia.
Da quel dolce spettacolo rimossi
Ancor Terlgi non avea gli sguardi,
Quando cupo da lungi e ognor più spesso
Di bellicosi bronzi un tuon sentissi,
Ghe deir Istro muggir facea le rive
36o U. BÀBDO DELLA SELVA NERA
Con lugubre rimbombo^ a cui gementi
Scotendo il peso delle bianche brume
Con sordo echeggio rispondean le selve.
Eran pugne noveUe, che ne^ campi
Di Neresemo e Langenò novelli
Rapidi lauri raccoglieanó al crine
Del Magno Bonaparte, a cui, se pure
Altro resta da farsi, il fatto è nulla.
Qua finisce un conflitto,* e là comincia
L^ altro; e veloci d^un sol capo al cenno
Per diverso sentiero alla vittoria
Yolan dovunqiie delle Franche armate
I magnanimi duci: a quella guisa
Che delP alto Gottardo i fragorosi
Liquidi figli dal paterno fianco
Con orrendo fracasso si devolvono
Per quattro pai*ti, e sbarbicate e lacere
Giù rotando le selve a quattro pelaghi
Portano le sorelle onde velivole
A nudrir di Nettuno il vasto imperio,
E le procelle risonanti e i turbini.
Come intese Terigi il tuon de^cavi
Fulminanti metalli, indizio certo
Di calda zuffa, fiammeggiò nel viso,
Erse il capo, gli prese il corpo tutto
Una smania, un tremor: quale il Pugliese
Generoso destrier, che delle tube
Lo squillo udito e delle spade il cozzo*,
Vibra incontro al romor gli acuti orecchi
Con erto collo e scintillanti sguardi;
Scalpita la sonante ugna il terreno,
Spiran foco le nari, e alla battaglia
Par che sul dorso il cavaliero inviti.
Tal si fece Terigi. Ed ecco, ci grida
Fieramente animoso, ecco sanate
Le mie ferite: datemi, rendete
CANTO QUARTO 36
Al mio fiimco V acciar : vola il coraggio
De' miei fratelli a nuove palme, ed io,
Io qui resto? io che tutto ancor non diedi
ÀUa patria il mio sangue, al mio Signore?
A me Tarmi, su via, Farmi. Ed in questa
Si rizzò, ricercò con gli occhi il brando,
E verso quello la man stesa, il passo
Vacillante tentò ^ ma non rispose
L'infermo piede alla virtù del core.
Posto a giacer di nuovo, e in lui sedato
Quel non saggio desio, grave lo prese
Per la mano il vegliardo, e così disse:
Figlio , mal serve al Prence suo chi troppo
Di servirlo s'adopra. Arsa di vero
Zelo hai tu Palma pel tuo Re? fa stima
D' una vita a lui sacra* I suoi guerrieri
Sono i suoi figli: sue pur anco adunque
Le tue ferite. E tu le sprezzi? e vanto.
Folle! pretendi di fedel soldato?
Figlio, a che questo intempestivo ardore.
Questo delirio di valor? Perduto
Temi forse il momento di far chiara
La tua prodezza? Della patria tutti
Giaccion forse i nemici? Odi vicina
Rimuggir la Sarmatica procella.
Odi il pianto de' campi, odi le grida.
L'ulular de' fumanti arsi paesi,
E V alta delle genti ira che chiede
Alle Galliche spade memoranda
La vendetta d' Europa , la vendetta
Della eulta ragion venuta a zuffa
Con la barbarie. Allor ben mostro e speso
Fia l'ardir che t'accende, allor ben dato
n sangue. Or pensa a rintegrarlo, e in vana
Guerresca furia non gittar l'avanzo
D' una vita non tua. Dimesso e mesto
362 IL BAADO della SKLVk NERA
Ghino le ciglia a quel parlar Teri^,
Errò col guardo su le sue ferite,
Le tentò con la mano, e dal cor pieno
Ruppe un sospir, che lo disciolse in pianto.
M^ ebbe il Bardo pietà; furtivo un cenno
Fé degli occhi a Malvina, che dell'arpa
Lieye lieve si pose fira le dita
Le dolcissime corde, e sul dolore
DelFamato garzon sciolse il concento:
Piagato e languido
Giace il guerriero,
Dal muro pendere
Vede il cimiero;
Fitta al suol mira
L'asta, e sospira.
Repente scuotelo
n marzio carme;
L'invito intendere
De' prodi all'arme
Fargli , e impedito
Freme il ferito.
Ma ve' che recagli
Il già mertato
Lauro la Gloria,
Ed al suo lato
Dolce s'asside:
L' eroe sorride.
Sorride, e memore
Dei di felici
Racconta agli avidi
Pendenti amici
Di Marte orrende
Alte vicende.
cAint) QOARTO 363
Natra dell' Itale
Pugne gli aflPanni,
Del Nilo domiti
Narra i tiranni,
E Fornai spenta
Patria redenta.
Alle magnanime
Narrate imprese
L' orecchio tendono
L'alme sospese^
E qualche core
Batte d^ amore.
Chinò i begli occhi al fin di sue parole
L^ infiammata donzella, e sa le gote
Le si diffuse del pudor la rosa,
Che nata appena impallidì. La vide
L'accorto padre, nel cor imo scese
Della fanciulla, e tutta ne conobbe
La ferita. Né già d' ira fé segno
Né di dolor ^ che i puri occhi del cielo
Cosa non ponno contemplar più bella
D^ amor compagno d' onestate. In lui
Posa de' padri, la speranza^ ei dolci
Rende i tormenti della vita^ ei porge
All' arso labbro de' mortali il sorso
DeUa celeste voluttade, e tutta
Gli sorride natura. E anch'ei sorrise
n discreto buon vecchio, e nel pensiero
Antiveggente l'avvenir, rifulse
Un santo nodo già nel cielo ordito^
Ma neUa mente lo si chiuse, e tacque.
Che cor fu il tuo, Terigi, che consiglio
Allor che aperto balenar vedesti
Tanto arcano d'amor? Fra l'armi e l'ire
Crescesti, è ver^ ma di Gradivo i duri
364 I^ BkKDO DELLA SELVA IffEHA
Stadj non fero al cor bennato oltraggio.
Valor da bella cortesia disgiunto
Resti al sozzo ladron , cbe dagli etemi
Ghiacci d^ Arturo a desolar le belle
Nostre spiagge calò^ resti al crudele
Che ne comprò le mercenarie spade ^
Resti d^ Europa all^ assassino. Orgoglio
Di francese guerriero è un cor gentile.
Come gli accenti, che stupor, rispetto,
Desio, speme, timor gli avean rapito,
Potè la lingua ripigliar, si volse
Il garzon generoso alla donzella^
E con quel dolce favellar, che care
Fa le parole e il parlator, si disse:
Celeste al par deUuoi begli occhi è il canto
Del tuo labbro, Malvina^ ed efficace
Ineffabil dolcezza su Tamaro
Dermici pensieri diffondesti. Assai,
Assai m^ è grave udir di Marte il grido ,
Saper ch^ altri si coglie eteme palme
In illustri perigli, ed io qui starmi.
Lasso! inutile peso. Or, poi che tolto
Emmi il gran Duce seguitar , né posso ,
Per lui pugnando e per la patria, un qualche
Lauro io pure intrecciarmi a questo crine,
Seguirallo il cor mio, dolce mi fia
Raccontarne F imprese, e far piti mite,
Ragionando di lui, la mia sventura.
Ma che prima dlronne, e che dappoi?
Che tutto nell^Eroe, tutto è portento
Di fortezza, di senno e di coraggio^
E i di son meno che i portenti, e il vero
SI di menzogna le sembianze acquista,
Che per fede ottener, forza gli è spesso
La sua luce scemar. Luce di vivo
Limpido Sole. P interruppe Ullino,
CANTO QXrARTO 365
Fa cieco il guardo, uè sostienla il ciglio ,
Se la man noi soccorre, o temperanza
Di frapposti vapori. E tal pur anco
A noi sfavilla la virtù di questo
Ammirando mortai, che P infinita
Di lassù provvidenza in travagliosi
Tempi concesse al declinato Mondo
Per emendarlo , e agli arbitri scettrati
Della terra insegnar la già perduta ,^
O ceduta a^ malvagi arte del regno.
DelPardue cose per lui fatte il grido
A qual non venne orecchio ? e chi narrarle
Puote od udirle, e serbar freddo il petto 7
Ben io molte n"* intesi insin d' allora
Che deir alpestre Mondo vi comparso
Su le balze tremende i primi allori
Giovinetto mietea strappati al crine
Di canuti nemici. E a me pur anco
D^ogni tumulto cittadin diviso,
A me pur giunse il suon della mina,
Che sul Lombardo piano si diiluse,
E d^Arcoli al fatai ponte percosse
La Tedesca fortuna. Oh che ricordi?
Interruppe Terigi. Arcoli? oh nome,
CVogni cor Franco allegri, e il mio confondi!
Oh d^ Arcoli crudel notte! tu splendi
Nel mio pensiero etema: le tue sacre
Ombre fur conscie del mio fallo, e in uno
Del sacramento che giurai di tutto
Espiarlo col sangue: e tutto ancora
Noi satisfeci. Risvegliar gue^ detti
Curioso un desio nelP ascoltante
Bardo, e Malviua palpitò. Ma ninno
Fame osava dimanda, e si tacea.
Allor riprese il Gavalier: Porgete,
Miei cari, orecchio; e quale e quanto affetto,
366 IL BARDO DSLLl SELVA NERA
Quanta fede legar debba d^ etemo
Nodo quest^abna al mio Signore , udite.
Altri in mezzo alle pugne ^ o fra P eccelse
Cure del trono, il grande animo cerchi
Di Bonaparte^ io vo^ mostrarne il core.
La notte cbe segui d^Arcoli il duro
Conflitto, a me del lungo pugnar lasso
Fu commessa una scolta. Di yergogna
Nel rimembrarlo avvampo, e la parola
Baccontando mi fogge. La stanchezza,
Ch'anche in mezzo al ruggir delle tempeste
Addormenta il nocchier, vinse me pure,
SI che posto in vedetta, immantinente
ì/r occupa il sonno, e tutti in un profondo
Obblio sommerge i travagliati spirti.
Ma r indefesso Bonaparte, a cui
Par che tempra di membra il ciel conceda
D'ogn'uopo intatta di mortai natura,
Scorrea tacito , solo, ed in vestire
Di gregario guerrier, P addormentato
Campo, n nemico non lontan rendea
Perigliose le veglie, e più la mia.
Che più dappresso lo spiava. Ed ecco
Vien Torà delle mute. Un improvviso
Scuotemi e desta calpestio di piedi.
Eran le guardie successive. I lumi
Apro, nel sonno ancor natanti; cerco
L' arme caduta , e non la trovo. In giro
Meno gli sguardi stupefatti, e veggo
Ritto starsi ed armato alla vedetta
Vigilante in mia vece altro guerriero.
M'accosto, il guato, il riconosco: è desso.
Desso il gran Duce. Me perduto! io grido,
E bramai sotto i piedi una vorago
Che m' inghiottisse. Ma con tale un detto
Di bontà, che più dolce unqua sul labbro
CASTO QlUftTO 367
Né eli padre 8^ udì, né di firatéllo:
Non temer, qael Magnammo riprese^
Dopo lunga fatica ad un gagliardo
Ben lice il sonno, e a me vegliar pel mio
Figlio e compagno. Ma tu scegli, amico,
Meglio altra volta i tuoi momenti. E sparve.
Muto, tremante, attonito, siccome
Uom cui cadde la folgore vicina,
Mi restai lunga pesza. Alfin del fadlo
La conoscenza e del perdon mi fece
Impeto al core: aleai le palme, al suolo
Mi prostrai su i ginocchi, e per P orrore
Della notte gridai: Dio, che passeggi
Per quest^alte tenèbre, e de' mortali
Miri le colpe e le virtù, gran Dio,
Dammi che un dì per lui morire io possa.
Ecco il cor del mio Duce. Anzi d' un nume.
Riprese UUino^ né stupir più voglio
Se tu r adori, ed ogni faccia ai&onta
Per Lui di rischio in campo il suo soldato.
Or m' odi. ÀUor che dissipati e spersi
Quattro possenti eserciti, al nemico
Fé tremar la corona in Leobéno,
Àrsi io pur del desio di veder questa
Di valor maraviglia, e del cospetto
D' un sì famoso satisfar la vista.
Bramai Farmi seguirne, e con quest'occhi
L' opre mirar della sua spada, e poscia
Bellicoso cantor porle su P arpa
Etematrice degli eroi^ che tale
È di Bardo poeta il ministero.
Ma troncò Pali a quella calda brama
Carità di costei, che pargoletta
Mal potea le paterne orme seguire.
Volò frattanto quel Tremendo a nuova
Audacissima impresa^ e, liberando
368 IL BARDO DEXXl SKLTA NERA, CAIITO QUARTO
Dal terror delle Franche armi Lamagna,
Piombò del Nilo su le sponde, e in forse
Mise d'Asia il destin. Ma incerta e poca
Di si bel fatto a me giunse la fama.
Or tu verace testimon di tutto ,
Tu lo mi conta, e qual fortuna, o Dio
Dalle Libiche riye a salvamento
n ridusse alle vostre ^ e come poscia
Campò la patria inferma, e la rapita
Itala figlia al rapitor ritolse.
n Sol, vedi, a rincontro ti sorride,
E il raggio sanator lungo la sponda
T' invia del letto a rallegrar la mente,
E porge al labbro narrator la lena.
CANTO QUINTO
L4 SPEDIZIONE JT EGITTO
Tacque il Bardo, ciò detto, e più vicina
Fece r orecchia ad ascoltar. Vezzosa
Dall^ altra sponda la gentil Malvina
Della bocca alcun poco apri la rosa,
£ coli' alma dal petto peregrina
Il bel viso sporgea, desiderosa
D'udir gli accenti di quel labbro amato,
Su cui tutto già vola il cor piagato.
Allor Terigi incominciò: Gran cose,
Egregio veglio, a raccontar m'inviti.
Come in sua forza Bonaparte pose
L'Egizia terra co' suoi pochi arditi;
E qnal propizio Nume a più famose
Prove salvo il ridusse ai nostri liti,
Ove i furori della patria spense
Tutti, e d'Italia il rio destin redense.
Ma chi spinger potrà securo e solo
Per tanto mar la temeraria antenna ?
n valor di che parlo, è di tal volo.
Che noi può seguitar vela né penna.
Stanca è la tuba deUa Fama, e solo
Qualcun de' fatti memorandi accenna;
E si lamenta che, ognor schietta e vera,
Le più volte tenuta è menzognera.
SjO IL BARDO DELLA SELVA NERA
Già F Alemanno avea piegato
Dinanzi al Franco sull' Isonzo il ciglio j
E r Insubre paese trionfato
Nuove leggi reggean, nuovo consiglio;
Mentre ruggendo e a miglior di serbato ,
n Veneto L'ion perdea V artiglio ;
Ed Europa, che pace ai re chiedea,
Già le sue piagbe ristorar parca.
Sol del sangue d' Europa e del suo pianto
Cresciuta sempre, e sempre sitibonda,
Anglia feroce dell'ulivo al santo
Ramo insultava su FÀtlantic'onda,
E comprava delitti, e sol dì tanto
Si dolca, che non fosse ancor feconda
Di tradimenti assai la disleale
Quant' era di valor la sua rivale.
Questa di ferro e di sublime ardire.
Quella d^oro e di fraudi era possente.
Vide il grande Guerriero che ferire
Fea bisogno la cruda in Oriente,
E all^avara su Flndo inaridire
Dell^auro corruttor la rea sorgente;
Che su F Indo inesausta ed infinita ,
Non sul Tamigi, è di costei la vita.
Chiude Falto pensier nel suo gran seno ,
Fa di forti un' eletta, e al mar s* affida.
Non si tosto sul dorso hallo il Tirreno,
Che giunto al Nilo già la fama il grida.
Salvo uscito sul Libico terreno,
L' esercito si volse alF onda infida :
Guatò F immensa liquida pianura ,
E ricordossi delle patrie mura.
CANTO QUINTO ijl
AUor pronto le sckiere a parlamento
Raccobe il Magno, e la serena vista
Girando intomo, con quel forte accento
Ch'ogni volere al suo volere acquista:
Soldati, ei disse, a illustre esperimento,
A famosa io vi guido alta conquista.
Che costtuni, virtù, commercio abbraccia,
E di quest' orbe cangerà la faccia.
Voi ferirete a morte V infedele
Anglia, cui tanto il nostro danno alletta.
Di qua si passa al cor della crudele,
Di qua vassi di FVancia alla vendetta^
Qua vi chiamano i pianti e le querele
D' un altro Mondo che soccorso aspetta.
Al fulgor della Gallica bandiera
L' Indo da lungi alza la fronte , e spera.
Soldati, Europa vi contempla, e grande.
Grande è il destino che adempir vi resta.
Rischi, affanni, fatiche, e memorande
Pugne, la danza a cui vi meno è questa.
Ma parlo ai forti, a cui già le ghirlande
D'Arcoli e Dego coronar la testa ^
Parlo al Franco guerrier, parlo a' miei figli
Nello stento esultanti e ne' perigli.
Molto voi fèste per la patria , molto
Per la gloria, per me. D'assai più ancora
Farete adesso ; eh' io vi scorgo in volto
Già la fiamma d' onor che vi divora^
Già il suon dell'armi, già le voci ascolto
Accusatrici d'ogni vii dimora.
Ma chi vii può mostrarsi in questo lido.
Ove ancor suona d'Alessandro il grido 7
iya IL BARDO DELLA SELVA NERA
Quella che incontro torreggiar si mira ,
È città da quel Magno un di fondata.
Colà dentro la grande Ombra sospira
Dal molle abitator dimenticata.
Or la sdegnosa, raddolcendo Pira,
Da que^ merli contenta ella ne guata,
E impaziente a vendicar ci chiama
L^ onor prisco già spento , e la sua fama.
Qui molte troveremo orme profonde
Dell^ antico valor. Chiaro il Romano'
Su questo suol fu spesso e su quesf onde ,
Né fl Franco andrà da quello oggi lontano.
L^ emulaste finora^ or, se risponde
L' usato ardir , V eguaglierete. Invano
Noi vi prometto. Ditelo, se mai,
Promettendo vittoria , io v^ ingannai.
Pur ignei dardi al sen queste parole:
Armi ognun grida, alParmi ognun si sprona.
L' ali al pie , r ali al cor, primo esser vuole
A por ne' rischi ognuno la persona.
Tragge lampi e terror dai ferri il Sole:
L* allegro canto de' guerrieri intuona
L'esercito volante, e si confonde
L' inno di Marte col fragor dell' onde.
Animoso di ratte orme l'arena
Venia stampando innanzi a tutti il Duce.
Non macchiava vapor l'aria serena^
Schietta e larga dal ciel piovea la luce:
Quando repente (a me medesmo appena
Il credo, e il vidi con quest' occhi ) tm truce
Prodigio apparve. Tu l'ascolta, e al vero
Darà fede in segreto il tuo pensiero.
CINTO QUINTO 3^3
Mugge il mar senza vento, e sopra il mare
Da prestissimi vortici sospinta
Negra una nube di lontano appare
Di vivo sangue tempestata e tinta.
Dal fosco grembo ad or ad or traspare
Una forma terribile indistinta.
Dritta vèr noi , veloce , alta , tremenda
Venia dall^Àsia Fapparenza orrenda.
Dalla parte onde il nembo a noi procede,
Tutto è il ciel buio^ dalla nostra è un riso
Di purissima luce. Il guardo vede
Quinci un inferno, e quindi un paradiso.
Giunta là dove nel mar bagna il piede
Degli Arabi la torre, all' improvviso
Tuona la nube, squarciasi, e fuor caccia
Immenso spettro con aperte braccia.
L'alto capo toccar gli astri parca.
Ma il pie sotterra s' inabissa. Stende
Su l'Africa una man, l'altra spandea
Su l'Asia, e parte ancor d'Eiuropa oifende.
Al fianco il brando, al fronte l'elmo avea,
E sotto l'elmo dell'aitar le bende.
Scosse un gran libro, e il libro che s'aprio,
Scritto in fronte mostrò: Voce di Dio.
Schifosa, oscena, e per gran piaghe impura
Tutta appar la persona. Ha la sembianza
Garca di duol, smarrita e mal sicura,
Quasi senta mancar la sua possanza.
Mette, e par che riceva la paura
Ghe al tini dai* cerca. Gavemosa stanza
Di rance zanne la livida bocca
Pestifera mefite intorno scocca.
MonTi. Poemetti. a 4
3^4 li* BARDO DELLA SBLTA HBAA
Girò SU noi Fonìbil guardo, e foco
Dagli occhi dardeggiò, ma smorto e tetro;
Digrignò i denti spaventosi, e roco
Muggì, come spezzata onda, lo spetro;
E udir mi parve questo tuon: Si poco
Temuta è dunque la mia possa? Addietro,
Addietro, gente dell^ altrui bramosa.
La più di tutte audace e perigliosa.
Se con la spada e co^ pensieri ardite
Tradurre al culto di ragion la terra
Che in mal punto attingeste, e alle meschite
Ed ai costumi chMo fondai , far guerra ,
E turbar Pozio del mio regno, udite
Ciò che nel grembo all^ avvenir si serra;
Franchi, udite e tremate: mille porte
Per tutti esterminarvi apre la morte.
Alti*! in dure battaglie, altri di stento
E di squallido morbo, altri trafitto
Sotto il ferro cadrà del tradimento;
Faran bianco le vostre ossa P Egitto.
Le vele che portar tanto ardimento,
Fulminate dall^Anglo in rio conflitto ,
D^Abukir lasceranno infame, e bruna
Di Franca strage la fatai laguna.
Mi fèr r orrende profezie fremire.
Volsi gli occhi al gran Duce, e su la fiera
Fronte gli vidi folgorar P ardire;
Li rivolsi allo spettro, e più non v^era.
Ben di lampi e di fumo in Abukire
Una striscia mirai, che densa e nera
Tra le Galliche antenne in frettolose
Rote nel mar tuffossi, e si nascose.
TANTO QUINTO 3^5
Scarco di quel funesto ingombro il cielo
Tornò sereno, e tornar lieti i petti.
D^un cor medesmo e d^ un medesmo zelo
Moviam rapidi , queti e circospetti.
E già quanto d^ae volte è un trar di telo,
In ordinanza militar ristretti,
D^Alessandro siam sotto alla cittade
Scossa al baleno delP ignote spade.
Qui Tardua cominciò Niliaca impresa.
Chi fia cbe tutta a mano a man la dica?
Il di primiero combattuta e presa
Cadde d^ Egitto la reina antica.
Munir le mura e il porto di difesa
Fu del secondo rapida fatica*^
Norma si diede e provvidenza alFuopo
De^ cittadini il terzo e P altro dopo.
In Rosetta nel quinto, in Damanuro
Brillò nel sesto di nostr^ arme il lampo.
L'altro fé Rammama, T altro fé scuro
D'Araba strage di Gebrissa il campo.
De' re alle tombe ne' seguenti un duro
Conflitto arse: vincemmo^ e senza inciampo
Del fortunato Bonaparte al piede
L'Egizie sorti il di ventesmo vede.
Dietro il volar di sue vittorie è lento
Della parola e del pensiero il corso.
Ancor Cinzia col bel carro d'argento
Tre giri integri non avea trascorso,
Che sottomesso ogni nemico o spento,
MenG sentia del Franco impero il morso
Dal Pelusiaco seno alle rimote
Spiagge, ove <britta il pie l'ombra percuote.
3y6 IL BARDO DRU^A SRT.YA. IVEKÀ
E sagge fiiro e salutari e dive
Del vlncitor le leggi, e dolce il fireno.
Sovente conquistar T Egizie rive
L^Àrabo, il Perso, il Turco, il Saraceno^
Ma fu crudo il concjuisto, e ancor lo scrive
Colma d^orror la storia, che sereno
Farà il sembiante , e allegrerà gP inchiostri
L^opre narrando del Cimeo Sesostri.
Oltre Gaza respinti, oltre Siene
Del Canopo i tiranni, a far beati ^
Gli abitatori, a sciome le catene
I pensier tutti delF Eroe fur dati.
I santi dritti^ ond^ esce il comun bene,
I costumi, le cui*ie, i magistrati
Restituisce^ e pien di maraviglia
L^ uomo dell^ uom la dignità ripiglia.
Con severa bilancia ripartito
Regola il carco che la patria impone^
Frange i ceppi al commercio, che fiorito
L^arti risveglia, a cui la pace è sprone.
Per le vie, per le case al dolce invito
LMndustria ferve: ogni s(juaUor depone
II già cangiato Egitto, e sente a prova
La presenza del Dio che lo rinnova.
Vita di tutto Ei tutto osserva, e saggio
Dispon delPopra il mezzo e la maniera.
Tale il re delle pecchie, allor che il raggio
Del monton sveglia V alma primavera ,
À riparar del rio verno P oltraggio
Desta al lavor del miele e della cera
LMndustri ancelle, e, osservator severo.
Le fatiche ne scorre e il magistero.
CANTO QUINTO 877
Altre -intendono ai fari, altre la manna
Van de^ fiori a predar cupide e snelle.
Qual le compagne a scarìcar s'affanna,
Qual del dolce licore empie le celle.
Queste, tratti i pungigli, la tiranna
Torma de^ fuchi caccian lungi ^ e quelle
Castigano le pigre. Un odor n^esce
Che ti ristaura, e il lavorìo più cresce.
Con infinita provvidenza il senno
De' suoi sofi comparte il sommo Duce.
Altri r ombra del punto fissar denno,
Che rompe all'arco meridian la luce.
Altri i portenti investigar, che fenno
Chiaro l'Egitto, ovunque ne traluce
L'orma aVicor maestosa, alla cui vista
Il pensiero stupisce, e il cor s'attrista.
Quei dell'alcali indaga e de' metalli
I segreti covili, arcano obbietto
Di maraviglia^ per deserte valli
Questi raccoglie il peregrino insetto.
Qual pe' freschi del Nilo ampi cristalli
Del muto abitator turba il ricetto
Ittologo bramoso, e qual procura
Nuove piante all'amor della natura.
Ai lenti ceppi di tenace arena
Altri toglie i canali^ e quando i colti
Chieggon del Nilo la feconda pieiia.
Corregge i flutti vagabondi e sciolti.
Altri all' aura le late ali disfrena
Di ventoso molino^ altri per molti
Gorghi in severo idraulico travaglio
Getta nell'onde il tentator scandaglio.
ijS a. BARDO DELLA SELVA NERA
Sagaci intorno al chimico fornello
Sudano intanto d^ E^culapio i figli 9
Che de^ morbi a frenar V atro flagello
D' erbe e nitri facean dotti perigli.
La schiava al fato stirpe d^Ismaello
L^arte, che a morte sa troncar gli artigli,
Stupita impara, e vede alfin,.che dove
LVom si guarda, il destin Turna non move.
Cosi Palme scienze ricondotte
Alla terra natia per mano amica,
Dopo r orror di lunga iniqua notte ,
Salutar liete la lor cuna antica.
E di saper più ricdie ed incorrotte,
E con fronte più casta e più pudica,
Il delitto espiar d^un esecrando
Timor del Vero, che le spinse in bando.
Bello il vederle ai porti, alle bastitc
Girar ti*a spade e bronzi, e con le pure
Man le seste, gli squadri e le matite
Oprar tranquille in mezzo alle paure.
Bello il veder* le vie coperte e trite
Di guerrieri e di sofi: e le secure
Ganoplc genti intanto dappertutto
Raccor delibarmi e della pace il frutto.
Securo punge il suo cammei, uè teme
DalFÀrabo ladrone onta e rapina
Il viator: libera il dorso preme
L^ Indica merce alP Eritrea marina.
Di Bonaparte è F occhio ovunque è speme
Deir utile, o del meglio: in sua divina
Mente Ei lo volge ad ognMstante, e il piede
Move rapido e franco ove lo vede.
CANTO QUINTO 879
Tatto discorre il Delta, ed ogni passo
È un beneficio. Intento a ciò che giova,
Ode, osserva, provvede, uè mai lasso,
O nascendo o morendo il Sol, lo trova.
E se talvolta di vigor già casso.
Lo spirto no, ma chiede il corpo nuova
Di forze emenda, di veder ti pensa
Giove in riposo all^ Etiopia mensa.
Che pari a Giove Ei pur talor discende
Alla dolcezza d^ ospitai convito.
N^ esulta in cor T Egiziano, e pende
Da quelle labbra di stupor rapito.
Se in lui veder nelle battaglie orrende
Credette il divo d^ Iside marito ,
Or n^ udendo il sublime almo sermone,
Pittagora ascoltar pargli e Platone.
De^ suoi giravi di senno alti pensieri
Fa tesoro la Fama^ e sì voi pure
Moli eteme di Céope e di Meri
Li parlerete coll^ età future,
n maggior de^ Potenti e de^ guerrieri
Qui, direte, s^ assise, e le mature
Sentenze svolse dal profondo petto,
E fu degno di cedro ogni suo detto.
Gli occhi alzando di Céope al sublime
Monumento, dell'arte immenso afianno,
Contra cui le già stanche e mute lime
Del tempo vorator dente non hanno:
Venti secoli e venti dalle cime
. Di quella mole a contemplar ci stanno^
Sclamò r Eroe. L'udì la Fama, e disse:
Cadrà quel massoy non quel detto. E scrisse.
1
38o n. BARDO DELLA SELVA NE&A
Giunto là, dove Neco il gran tragitto
Fece aUe Rubre nelle Libich^onde,
Con lieto grido saluta P Invitto,
Sceso a bearle , quelle chiare sponde.
Ma sdegnoso delF istmo il derelitto
Mar vermiglio, agitò le rubiconde
Spume, e cercò, sentendo il fato amico,
Pien di nuova speranza il varco antico.
Tutto guardando, e tutto in sé romito
Il Magnanimo intanto esaminava
L^ acque, le prode, il ben acconcio sito
Che le porte al commercio Ihdo dischiava.
Del Bgliuol di Psammitico V ardito
Genio il segm'a dappresso, e gli mostrava
L^orme ancor vaste del canal che spinse
L^orto air occaso, e in un due Mondi avvinse.
E ben la fiamma al cor gli s^accendea
DeU^ emula virtù, ben nell^ audace
Pensicr gli lampeggiò la grande idea,
Che forse ancora nell' Eroe non tace.
Ma diverso lassù fato volgea.
Già nuove palme gli prepara il Trace
Stretto coirAnglo, a cui la Franca sorte,
Arbitra fatta dell^ Egitto, è morte.
Sul mar di Siria e in Acri, ove Fortuna
Sfida a conflitto la virtù Francese,
Ondeggia al vento con la Turca luna,
Ahi vile accordo! il leopardo Inglese.
Di Joppe e Gaza la campagna è bruna
Di barbari già pronti a inique offese.
Ma tante torme e tante armi son polve
Dinanzi a quel valor che tutto solve«
CAUTO QDIHTO 38 1
Vide il costoro orribile macello
n monte che T Ebreo sacra ad Elia.
L'umil terra lo vide, u' Gabriello,
Siccome è scritto, salutò Maria.
E tu il vedesti, tu che d^Israello
Apristi all^arca trionfai la via,
Retrogrado Giordano, e la seconda
Fuga tentasti con la trepid^ onda.
E fora il muro al suol caduto alfine
Che in Acri il sommo Vincitor rattenne^
E avrfa rimesso la Fortuna il crine
Alla mano che stretto ognora il tenne ^
Ma il Ciel, che a più mirande e peregrine
Prove il chiamava, all^alto ardir le penne
Precise, il Ciel che a più levarlo inteso ,
Due gran fati al suo brando avea sospeso.
D^Asia il fato e d^ Europa era pendente
Da quella spada, e trepidava il Mondo.
Librò, credo, amendue V Onnipossente,
E ponderoso in giù scese il secondo.
Sparve l'altro più lieve, e nella mente
Si rinchiuse di Dio, che nel profondo
bel suo consiglio or forse il fa maturo,
Né par che molto restar debba oscuro.
S'oiFerse agli occhi allor di Bonaparte
Grande un prodigio , e qual vulgossì, occulto.
Noi vi terrò ^ ch'egli è d'eterne carte
Degno, né debbe rimaner sepulto.
Già d'Acri a terra rovinose e sparte
Cadeau le mura^ del superbo insulto
Già il fio pagava l'Ottoman, cui resta
Solo un riparo, e mal potea far testa.
38-2 IL BARDO DBLLA SELVA NERA
Tacita liscia daUe GimmeriQ girotte
La nemica del dl^ ma non del Duce
Tacca la cura, che per V alta notte
In mille parti il suo pensier traduce.
Ed ecco balenando aprir le rotte
Ombre a^ suoi sguardi un^ improvvisa luce ;
Ek:co stargli davanti eccelsa e ritta
L^ augusta immago della Patria afflitta.
Àvea lacero il crin, smorto il bel viso y
E su la guancia lagrime e squallore.
Guatò muta il Guerriero, e il guardo fiso
Parca sul volto gli cercasse il core.
Indi un sospir dal petto imo diviso:
Mi conosci tu ? disse : al suo dolore
Non ravvisi la madre ? e il suo periglio
Dunque ancora non parla al cor del figlio?
Tu fra barbare genti, inutil vanto,
Cogli d^Àsia gli allori^ e il fero Scita,
Giunto coll^Unno, al crin mi sfronda intanto
Quei che lasciasti nella tua partita.
Né questa è tutta la cagion del pianto,
Lassa! né sola è questa la ferita
Che mi dà morte. I figli, i figli, ahi stolti!
Spengon la madre in ree discordie avvolti.
Grande, felice, e di valor precinta
. Feci io tutti tremar., mentre fui teco.
Or giaccio oppressa, disprezzata e vinta ^
Che Bonaparte mio non è più meco.
Il tuo lasciarmi , il tuo partir m^ ha spinta ,
]\rha, misera! sommersa in questo cieco
Di mali abisso, e dclP uscirne è vano
Ogni sforzo, se lungi è la tua mano.
/
CANTO QUINTO 383
Torna., deh! toma a me, figlio, mia speme,
Mia speranza, mio tutto. A che ti stai
Cercando pur su queste rive estreme
Gloria minor del tuo coraggio? e il sai.
Salvar la patria che t^ invoca e geme,
Pensaci, è gloria più solenne assai.
Deh non patir ch^ empio ladron ne tolga
La vita, e il pugno in queste chiome avvolga.
«
Non patir che la bella Itala figlia
Usurpator Sarmatico t^inyoli.
Piange in barbari ceppi, e si scapiglia
LMnfelice, e non è chi la consoli.
A te le sue catene, a te le ciglia
Alza, pregando che a scamparla voli,
n promettesti, lo giurasti, e flb'o
Sempre d^ un Dio la tua promessa e il giuro.
Vieni dunque, e ne salva. Delle genti
In te gli occhi son fissi. Il mormorio
Del mar che fireme, è carco deUamenti
Che ti manda PEuropa \ odi , per dio !
Se firapponi al soccorso altri momenti,
Tu più patria non hai. Disse, e spano
Come baleno \ e per la via che prese ,
DI gemiti suonar P aria s^ intese.
N
CANTO SESTO
TL XTX BRUMÀtRE
Amor di patria, amor di gloria un fiero
Fan certame nel Duce^ e d^armi instrutto
Prepotenti è ciascun. Vince il primiero.
In magnanimo cor la patria è tutto.
Sol di questa il dolor gli empie il pensiero:
Arde già di partir , già sopra il flutto
Vola il ^o spirto 9 già le rive afferra,
Già vendica V onor della sua terra.
D^Acri gli allori su P infranto muro
Gli mostrava la Gloria, e gli dicea:
Vieni, prendi, son tuoi, monta securo:
Ed Ei voltate già le spalle avea.
Un lauro più d^assai bello e più puro
Di qua dal mare il suo pensier vedea^
Di questo solo Ei vuol la fronte adoma.
Francia, t'allegra^ Italia, sorgi: Ei torna.
Ma senza memoranda alta vendetta
Non fia, no, dell'Invitto il dipartire.
Intégi*a e degna dell'Eroe P aspetta
De' prodi il sangue estinti in Abukire^
E tal l'ebbe. Su l'onda maladetta
Le Gallich' ombre si placaro e l'ire.
Di Turca strage il mar crebbe, e l'ondosa
Faccia spari da tanti corpi ascosa.
IL BARDO DEIXiL SELYi NERi, CANTO SESTO 385
Spente le forze de^ nemici, e ogn^uopo
Dell^ armata provvisto , al lido aduna
I suoi più fidi il Duce, e dal Canopo
Salpa *^ e nòcchiera in poppa ha la Fortuna.
Né fragil prora vi fu pria, né dopo
Mai r onde ne vedranno altra veruna
Di tanto carco. Il cor cui poco é il mondo,
Quel cor si cela in quelFangusto fondo.
Gontra le vele del fatai naviglio,
Consci forse del Dio cVei porta in grembo,
Non osano di far lite e scompiglio
I venti: dorme la procella e il nembo.
Solo increspa con placido bisbiglio
Dolce un Levante alla marina il lembo:
E Tonda intanto: Chi è Costui, dir pare,
A cui V aria obbedisce, e serve il mare?
E certo il mar sentia che su quel legno
Navigava il valor che al fier Britanno
Farà caro costar dell^ onde il regno,
Finché ne spezzi lo scettro tiranno.
Quindi parve d^ uman senso dar segno
II tremendo elemento, e un bello inganno
Fatto air Inglese insecutor schernito ,
Pose il vindice suo salvo sul lito.
Come giunto s'udì Fàlto Guerriero,
Di giubilo delire a lui davante
Si versar le città lungo il sentiero :
Mise a tutti il piacer Pali alle piante.
Ognun s'affretta e incalza, ognun primiero
Esser vuole a gioir del suo sembiante.
Bonaparte gridare i vecchi padri.
Iterar Bonaparte odi le madri.
386 IL BARDO DELLA SELVA NERA
Bonaparte i fanciulli, Bonaparte
Rispondono le valli ^ e nell' ebbrezza
Di tanto nome, al vento inani e sparte
Van le memorie d^ogni ria tristezza.
Nel tripudio ognun corre ad abbracciarte ,
Sia nemico , od amico : V allegrezza
Non distingue i sembianti^ un caro errore
Dona gli amplessi, e negli amplessi il core.
Francia tutta del Magno alla venuta
Rizzossi^ ne tremò PAIpe, e T avviso
Dienne all^ Itala Donna. L^ abbattuta
In mezzo al pianto lampeggiò d^ un riso ,
E serenossi. Ma in pie surta e muta
Di maraviglia, Europa il guardo fiso
Su la Senna converse, ove sentia
Che alfin soluto il suo destino andria.
Qual, pria che fosse il mar, la terra, il cielo,
Del caos T orrenda apparve atra mistura,
Ove Tumido, il secco, il caldo, il gelo
Fean pugna, e muta si tacca natura*,
Che tal, rimosso alla menzogna il velo,
Fusse di Francia il volto ti figura ,
Quando il Magno a camparla dal Ciel fisso,
Venne , quale già Dio sovra V abisso.
E Pabisso in che Pegra era sepolta.
Tutto il vide Egli si. Vide il Delitto
Passeggiar venerato, e per istolta
Potenza fatto probitate e dritto.
La Virtù vide di gramaglie avvolta,
Atterrati gli altari, Iddio proscritto.
La Giustizia mercato, e disciplina
Generosa la Frode e la Rapina.
CAUTO SESTO 387
Vide in bisso il codardo, e nudo il petto
Del forte, il petto ancor del sàngue brutto
Per la patria versato^ e a rio banchetto
Di sue ferite divorato il frutto^
E spinte al cenno di vii duce inetto
Al macello le schiere, e ornai già tutto
Morto il bellico onor, morta la scuola
De^ prodi, e viva P arroganza sola.
Fremè d^ orrore e di pietade al diro
Spettacolo PEroe. Tutte discorre
Fra sé le vie, le guise, onde al martiro
Di tanto scempio alfin la patria tórre.
Vede, ovimque gli sgu;'*di Ei volga in giro.
Di colpe orrendo intreccio, e che a disciorre
Cotanto nodo il taglio mestier fea,
Che del re Frigio il groppo un di sciogliea.
Dopo molte vegliate in questa cura
Torbide notti, alfin die calma al vago
Pensier quel Dio che queta ogni rancura
Col ramo che di Lete intinse al lago.
Ed ecco in sogno manifesta e pura
Tornargli innanzi la medesma immago
Che gli apparve in Sona. Mesta del letto
Su la sponda s^ asside, e con affetto
Cosi prende a parlar: Figlio, il crudele
Mio stato il miri. A che ti stai ? Sol una
È la via di salute, ed Infedele
AlPalme dubitose è la fortuna.
In che mar di misfatti abbia le vele
Spinto il poter de^ molti, e chq nessuna
Esser può libertade ove son tutti
Liberi, il vedi: e assai n'ha il fatto istrutti.
388 IL BARDO DELLi SELVi NERA
hirogej ch'ella è unMmpossibil cosa
In vasto stato; arroge F opulenza,
E lo splendor de^izj, e la sdegnosa
Di tutte leggi popolar licenza.
Arroge la ribelle, imperiosa
Forza dell^uso, cui né violenza
Non doma, né lusinga; e in questo suolo
L^uso comanda il comandar d'un solo.
Sorgi dunque, e novello e più temuto
Rialza e premi il necessario Trono.
Re codardo che fugge, ed ha potuto
Ne' perigli lasciarmi in abbandono;
Re che vita non rischia, e fece acuto
De' miei nemici il ferro, al mio perdono
Chiuse ogni varco. Re vogl'io chi forte
Vola al mio scampo, non chi vuol mia morte.
Nell'arduo calle, a cui t'esortò, vedi,
Vedi tu capo di regnar più degno?
China la fronte, ti ritira e cedi.
Ch'esser qui debbe del migliore il regno.
Ma se nullo t'è pari, é colpa, il credi,
' Il tuo rifiutQ , e d' alto cor non segno.
Le presenti e le tarde età vedranno
Questo vile rifiuto: e che diranno?
Dìran: Stanca la Gallia d'una stolta
Libertà che a perir la conducea.
In mille parti scissa e capovolta
Un sommo e solo correttor chiedea.
Ogni brama, ogni speme era raccolta
Nel fatai Bonaparte: Ei la potea
Far salva, Ei solo; e ad un poter funesto
Lasciolla in preda, e si fé reo del resto.
CANTO SESTO 389
Diranno: I giorni del terror tornaro
Tinti di sangue^ e Bonaparte il volle.
Rifisse la civil furia P acciaro
Nel sen firaterno^ e Bonaparte il Volle.
I delitti^ atterrato ogni riparo,
Inondar Francia^ e Bonaparte il volley
Cy egli è un voler la colpa, ove i suoi passi
Frenar potendo, imperversar la lassi.
Questa di mali, o Figlio, onda fremente
Franger non puossi che d^un Trono al piede,
Ài voler d^ una sola arbitra mente ,
Che air utile comun ratta procede.
Àllor forte, allor grande, allor possente
Mi sarò tra le genti ^ allor fia sede
Di virtù vera la tua patria, or rio
Mar di vizj , ù ^1 furor soffia di Dio.
Àllor tremanti abbasseran le ciglia
I re giurati^ e tu sembiante al Sole,
Che, fonte e centro della luce, inbriglia
De' minor fuochi il giro e le carole,
Tu porrai loro il fireno ^ allor la Figlia
Del tuo valor, che suo drudo non vuole
Né Italia beUa
Dirà: -Di Bonaparte ecco P ancella.
£ tu d' ancella la farai Rema,
E il serto che portò Carlo , alP incude
Ritemperato di miglior fucina.
Locherai su la fronte alla virtude,
Alla virtù canuta e peregrina
Di Giovinetto Eroe, che in sen già chiude «
Le tue vive scintille , e fia P amore
Dell'Italo che giusto e caldo ha il core.
Monti. Poemetti, a 5
SgO IL BARDO DELLA SELVA HEBA
Disse e sparve. Apre gli occhi, erge la testa
Il supremo Guerrier: cerca col guardo
II fuggito fantasma, e alla tempesta
Del cor ben sente che non fu bugiardo.
Balza in piedi agitato. Era già desta
La foriera del di, già il primo dardo
Della luce le torri ardue feria,
E la vita spandea per ogni via.
A mirar Y ascendente astro divino
Fermossi^ e in quella gli si fece appresso
II figlio del suo cor, che mattutino
Scendea del padre al consueto amplesso.
Di Lui parlo, cV or fa lieto il destino
DellMtalica Donna, e forte ha messo
La man pietosa entro sue piaghe, ond'ella
A sanità già toma e si rabbella.
Dati e presi gli onesti abbracciamenti,
In che tace la lingua e parla il petto,
Gontra i puri del Sol raggi sorgenti
Seder si fece al fianco il giovinetto^
E gli uditi nel sonno eccelsi accenti
Pur volgendo nell^alma: O mio diletto.
Mira, disse (e nel dir stendea la mano),
Come bello è del ciel Pastro sovrano.
Delle stelle monarca egli s^ asside
Sul trono della luce, e con etema
Unica legge il moto e i rai divide
Ai seguaci pianeti e li governa.
Per lui natura si feconda e ride,
Per lui la danza armonica s^ alterna
Delle stagion, per lui nullo si spia
Grano di polve che vital non sia.
CANTO SESTO 39 1
E cagiou sola del mirando effetto
È la costante, eguale, unica legge,
Con che il raggiante imperador P aspetto
Delle create cose alto corregge.
Togli questa unità, togli il perfetto
Tenor de^ varj moti , onde si regge
L^ armonia de^ frenati orbi diversi ,
E tutti li vedrai confusi e spersi ^
£ r un Faltro inghiottire, e furibondo
Il mar levarsi e divorar la terra,
E squarciarla i vulcani, e nel secondo
Càos gittarla gli elementi in guerra.
Figlio, in questa mina ( e dal profondo
Cor sospirò) F immagine si serra
Di nostra patria: cade la sua mole,
Peixhè a^suoi moti non è centro un Sole.
Tacque; e surto del loco ove sedea.
Gli occhi al suol fitti, e a passo or presto or lento
Misurava la stanza; e sculto avea
Su la fronte F interno agitamento.
Tra la primiera genitrice idea
Di perigliosa impresa, ed il momento
Dell' eseguire , V intervallo è tutto
Fantasmi; e bolle de' pensieri il flutto.
Allor fiera consulta in un ristretti
Fan dell' alma i tiranni ; e la raccolta
Ragion nel mezzo ai ribellati affetti
Sta, qual re ti*a feroci arme in rivolta,
lyia prestamente, ove la Gloria getti
Nel mezzo il dado, quella lite é sciolta.
Tormenta i petti generosi allora
Il periglio non già, ma la dimora.
39^ n. BARDO DELLà SELVA NERA
Tutto quel dì V Eroe fu muto, e pronte
Tutte sue forze rassegnò. Non tante'
Scoppiar scintille fa il martel di Bronte
Sovra r incude di Vulcano, quante
Scoppian le cure dentro quella fronte
Alla fronte di Giove simigliante,
Quando Pallade ancor non partorita
Del cérebro immortai chiedea P uscita.
Scese la notte, e in sogno ecco plorando
Tornar la stessa vision, che in atto
Di sdegnoso dolor gli fea comando
Di precider le lunghe al gran riscatto.
Surse il Forte, e la man stesa sul brando;
O Patria, disse, t^ obbedisco, E ratto
Nel raccolto Senato al nuovo Sole
Entra, e queste vi tuona alte parole:
In quale stato vi lasciai. Francesi?
In qual vi trovo? Vi lasciai la pace,
Trovo guerra; lasciai conquiste, e scesi
Veggo dall'Alpi T Alemanno e il Trace;
Lasciai lucenti di guerrieri arnesi
Gli arsenali, e son vóti. La vorace
Rapina ha tutto dissipato, eretta
In ria scienza dal poter protetta.
Hanno esausto lo Stato; il Nume è spento
Di Giustizia; né senno, né decoro
Nel maneggio civil; qual vile armento
Spinti i soldati al marzì'al lavoro.
Ove sono i miei figli? ove li 'cento
Mila fratelli , che lasciai d' alloro
Carchi? che avvenne di cotanti forti f
Mi rispondete ; che ne fu ? Son morti.
V
CANTO SESTO i^ì
Morti, ahi ! son della patria i defensori,
E vivi i tristi che la patria uccidono*,
Vivi non pur, ma eccelsi e reggitori
Supremi al comun pianto empj sorridono.
E delle leggi intanto i creatori
Senza consiglio , senza cor s^ assidono
In venduto Senato: han sotto il piede
Spalancato P abisso, e nullo il vede.
Ma d^nfamia coperto e irrevocato
Passò, lo giuro, de^ ribaldi il regno ^
E della patria qui sul lacerato
Corpo il giura de^ prodi il santo sdegno.
Come vento tra scogli imprigionato.
Fremè il Consesso a quel parlar già pregno
Di vicina tempesta^ ed una voce:
Lo Statuto, gridò cupa e feroce.
Lo Statuto? il Magnanimo riprese,
E r accento suonò più che mortale.
Lo Statuto? Ed ardisce alma Francese
Oggi invocarlo ? Lo Statuto ? E quale ?
Quello cui tante e tante volte offese
Delle parti il furor ? quello in cui strale
Non è che fitto non sia stato ? Un nome
Che in fronte al giusto fa rizzar le chiome.
Dunque un nome s^ oppon , che soli affida
I traditori? un nome in cui delinque
Santamente ogn^ iniquo, e il parricida
Poter si sacra tuttavia de^ Cinque ?
E non udite ancor dunque le strida.
Che le rive lontane e le propinque
V invian gridando : A terra , a terra P empio
Statuto, o Franchi, e fine al patrio scempio?
394 ^^ BiRDO DELLA SBLYA NERA
Tremar di gioja ai generosi «ccenti
I pochi integri, e di terrore i molti
Perversi^ e fuggir sotto i vestimenti
Più man fur yiste, e trasmutarsi i volti.
À camparlo quel di dai violenti
Ferri di questi o scellerati o stolti,
Fama è che intomo al perigliante Duce
Fiammeggiar fu veduta una gran luce.
L^Àngiol fu forse della patria, forse
Altro messo del ciel, che tolto al mondo
L' onor non voUe de' mortali, e torse
n colpo che mettea Francia nel fondo.
Di noi pietoso un Dio certo il soccorse ,
Né più bello 9 no mai, uè più giocondo
Giorno briUò di questo, in cui la forte
Mano il &en prese della patria sorte.
Qual robusto di fianchi alto naviglio,
Che privo di governo in mar crudele
Estremo corse d^ annegar periglio,
Frante Fantenne, e lacere le vele^
Se di miglior piloto arte e consiglio
II sottragge alF irata onda infedele ,
Sue ferite ristaura, e sul mar scuro
Le tempeste a sfidar toma s ecuro ^
Cotal la Grande Nazion rivenne,
Che Grande allor veracemente emerse,
E sanò le sue piaghe, e di solenne
Luce vestita ogni squallor deterse.
Le virtù fuggitive in bianche penne
Tornar. Giustizia racconciò le sperse
Rotte bilance, e dal furor segnate
Cancellò le rubriche insanguinate.
CÀUTO 8B8TO 3g5
La Concordia rifulse , e di catene
Indissolute la nemica avvinse^
Franse gli empj pugnali in su P arene
Angle temprati, e Tire tutte estinse.
La virtù che di Dio nell^ uom mantiene
La riverenza, la virtù che strinse
Gol ciel la terra, più graditi e cari
Bruciò gF incensi su i risurti altari.
Elbber norma ed impulso e vigoria
I diversi doveri ^ e d' un sol fiato
Tutti sospinti per diversa via
Mossersi a gara ad animar lo Stato.
Così volge sue rote in armom'a
L^ ordigno che misura il tempo alato ^
Hanno vario il cammino e vario il volo
Tutte 5 ma il punto che le move, è un solo.
E le scienze intanto e le sorelle
Arti, splendor de^ regni e formatrici
D'almi costumi, senza cui né belle
Son le città, né i troni unqua felici,
Schiuser liete i lor templi^ e di novelle
Ghirlande ornate, con più fausti auspici
Ricominciar lor riti, e ogni villano
Costume entrato ne cacciar lontano.
Cosi tutte lasciò Francia le brune
Spoglie del lutto, e rivestissi il manto
Di sua grandezza. Io sol nella comune
Letizia, ahi lasso! io mi fui solo al pianto.
Redir d'Egitto, e alle paterne cune
Volar fu il primo mio desire^ Un santo
Dover spingea quest'alma intenerita
Ad abbracciar colei che mi die vita.
396 IL BARDO DELLA SBLYA NERA
Moto ratto di Frejo, e per la via,
Di lei sola il pensier tutto ripieno,
Anticipando nel mio cor Tenia
n piacer del serrarla a questo seno.
E una dolcezza dentro mi sentia
Da non dirsi, e godea che indegno almeno
De^ cari amplessi io non facea ritomo.
Di qualche bella cicatrice adorno.
In vai di Varo, già narrailo, siede
L^ umil terra otc nacqui. Frettoloso
Vèr quella adunque celerando il piede
Odo annunzio per via fero e doglioso.
Odo che le vicine erte possiede
Il vincitor nemico, odo cVegli oso
Fu di calarsi in suol Franco, e col fuoco
Desolarlo e col ferro in ogni loco.
Di mio villaggio fo dimanda, e tutto
Da^ barbari P intendo per feroce
Rabbia, correa due giorni, arso e distrutto.
Mi strinse il gel le vene a quella voce.
Palpitando proseguo, e già condutto
Mi son davanti al suol natio. Veloce
Raddoppio il passo, e m^ apparisce, entrando.
Spettacolo crudele e miserando.
Àvean le fiamme intomo orribilmente
Divorate le case, e su la scura
Solitaria mina alto un tacente
Orror regnava e il lutto e la paura.
Irto i crini, e col cor che il danno sente
Pria che lo vegga, alle paterne mura
Tremante, ansante mi sospingo^ ed arse
Tutte le trovo, e al suol crollate e sparse.
CANTO SESTO igj
Se' tu fiiggita in salvo, o sotto questa
Macerie orrenda, o madre mia, sei chiusa?
Ecco il crudo pensier che alla funesta
Vista mi corse nellUdea confiisa.
Gridai, gente cercai: tutto era mesta
Solitudin. Tenea la circonfusa
Oste i colli imminenti, e non ardiva
Uomo appressarsi alla deserta riva.
Neil' orribile dubbio odo un lamento
D' afflitta belva, un ululato acuto
Che uscia di mezzo alle rame, e il sento
In suon che sembra dimandarmi aiuto.
Salgo, ed ahi! veggo (umano sentimento,.
Vieni e impara pietà), veggo giaciuto
Là sul rottame il mio Melampo, antico
De' nostri lari e sempre fido amico.
Mi riconobbe ei si, ma non die segno
Dell' usata esultanza il doloroso^
E d' amor e di fede unico pegno
Levò la testa e mi guardò pietoso.
Poi si die ratto con umano ingegno
A raspar le macerie, e lamentoso
Ululando e scavando tutta volta^
Dir parca: La tua madre è qui sepolta.
E, ohimè! che vero ei disse ^ ohimè! che quanto
M^ era dolor serbato io non sapea !
Misera madre ! ... E qui ruppe in un pianto,
Che degli occhi due fonti gli facea.
Pianse percosso di pietade il santo
Veglio, pianse Malvina, ed attendea,
Già disposta a maggior duolo, dal caro
Labbro la fine del racconto amaro.
FRAMMENTI DELLA PABTE E
DEL
BARDO DELLA SELVA NERA
PUBBLICATI DOPO LA MOBTB DELL' AUTORE
AFTERTIMENTO DELV EDITORE,
I primi sei Canti del Bardo furono pubblicati dair Autore neh-
fanno 1806 in Parma co' tipi Bodoniani in quattro diverse edi"
zioni contemporanee j la prima in foglio ^ la seconda in quarto,
la terza in ottavo e V ultima in ottavo piccolo j ed il chiaro tipo-
grafo vi adoperò tutta quella sua mirabile perizia deli arte, dalla
pia magnifica forma venendo alla più gentile e leggiadra. Nel
frontispizio di quelle edizioni leggevasi Parte Prima; ma questa
fo la sola che si avesse dalle mani delV Autore, poiché di già
nel 1809 ^^^^ '^^ ^^ Palingenesi scriveva che la Seconda Parte
non erasi potuta pubblicare per un anno e pia eli cattiva salute
che aveva ritardato il lungo suo lavoro, e per alcune politiche
mutazioni che ne avevano alterato il pioAo, Tra i manoscritti la-
sciati daW Autore morendo trovavasi però finterò Canto VÌI,
cioè il primo della Parte Seco fida, intitolato : Le Lagrime^ ed il
principio delV ottavo. Efo appunto quel Canto FU che col titolo
di Pietà Filiale venne dalV illustre sig, cav, Andrea Maffei dato
in luce nel 1 833^ sopra un autogrcfo da lui posseduto, nelV oC"
casione che S, E, il eh, sig, barone Mazzetti era stato promosso
a Presidente del Tribunale ìT Appello in Milano, Nello stesso anno,
e sempre col titolo di Pietà Filiale venne inserito dal Lampato
nel tomo IV delle Opere inedite e rare del Monti^ ove trovasi an^
Cora il principio del Canto Vili, I lettori vedranno volentieri
nella mia edizione questi preziosi frammenti awanta^iati d^ al-
quanto e collocati al proprio lor luogo.
CANTO SETTIMO
LA PIETÀ FIUALE
Oh del nostro sentir parte migliore,
Generosa di belle alme fralezza,
Lagrime pie! per voi vinto il dolore
Tace, e la punta del suo dardo spezza ^
Per Yoi fra Fonde degli afianni il core
Beve, ignota al profano, alma dolcezza^
Voi degli afflitti voluttà, voi pura
Fonte di pace in mezzo alla sventura.
•
Misero quegli che cader vi mira,
E, di voi schivo, ad altra parte abbassa
La sdegnosa pupilla, e non sospira
Su r infelice venerando , e passa !
Verrà del Cielo a visitarlo Pira,
Che inulta la ragion vostra non lassa;
IN è stilla pur del pianto altrui negato
Scenderà sul superbo abbandonato.
Ma tre volte felice chi di belle
Lagrime bagna, compatendo ^ il ciglio!
La Pietà le raccoglie, e ammorza in quelle
LUra che ferve nel Divin Consiglio;
Mentre il vostro vapor, ch'alto alle stelle
E caro ascende dal terreno esiglio.
Su r umano fallir stende un bel velo,
E riconcilia colla terra il Cielo.
4oa IL BABOO DELLA SELVA REEA
Né voi già larghe scorrere godete
Tra il fasto cittadin sott^ aureo tetto ^
Che la diva Pietà, da cui movete,
Non batte no del crudel ricco al petto.
Anime pure di vostr^ acque han sete ,
Di voi più degne in povero ricetto^
Ivi il cor di Terigi, ivi le ciglia
y^ aspettano d^ Ullino e della figlia.
Poiché in parte per gli occhi ebbe disciolto
Il duol che chiuse al favellar la via,
Alzò Terigi il caro umido volto ,
Che ancor più caro nel dolor verna.
Vede il veglio che, il guardo in sé raccolto,
Lagrìmava e tacca, vede la pia
Vergin che sopra gli pendea corbelli
Occhi intenti ed aperti in due ruscelli.
La man pose alla man della dolente.
Grato a tanta pietà , quell^ infelice ^
Sovra il cor la si strinse, ed il languente
Sguardo in lei fisso: Sospendi, le dice, .
Questo pianto sospendi, alma innocente^
Che la lagrima tua consolatrice
Tempo non é che tutta su V orrenda
Avventura ti'abocchi, e al cor ti scenda.
Se tu pur conoscesti e ti fu cara
Una madre, o Malvina, un^ adorata
Madre, udirai e intenderai se amara
Fu la mia sorte e a rimembrar spietata.
Disse ^ e quale é colui che si prepara
Caso acerbo a narrar, V addolorata
Mente raccolse il Cavaliero, e detti
Cercò conformi ai perturbati affetti.
CANTO SETTIMO ^OÌ
Parla, riprese aUor con un sospiro
La giovinetta a confortarlo intenta^
Parla, caro infelice: il tuo martiro
Non r apri a cor che fugga e non lo senta»
Anch' io conosco, anch' io sostenni il diro
Strale che V arco del disastro avventa.
Anch' io r ebbi una madre , una diletta
Madre ed amica che lassù m'aspetta.
Si dicendo, levò le rugiadose
Luci, e , col guardo al ciel diritto e fiso,
La man sul petto virginal compose ,
E si dolce atteggiò 1' aria del viso,
Che 1' anima parca le desiose
Ali aprire e innalzarse al paradiso,
Disdegnosa del carcere terreno
Che la divide dal materno seno.
Di quel dolce abbandono ancor non era
D'Ullin la figlia generosa uscita,
Che apparecchiato a proseguir la fiera
Storia che il pianto avea prima impedita,
Terigi ripigliò: Poiché la fera
Pietosa m' ebbe in suo parlar chiarita
La crudel sorte della madre, immoto
Rimasi e freddo , e d' ogni senso vóto.
Al tornar dello spb*to, enti'O le chiome
Cacciai la mano, e del dolore il grido
Alzai d' intorno , e la chiamai per nome ^
Né mi rispose che il deserto lido.
Di su, di giù mi ravvolgea siccome
Furente, e tuttavia raspando il fido
Cane ululava, e dir parca: M'aiuta,
Che la misera ancor non è perduta.
4o4 n. BARDO DELLA SELVA NERA
Come rapida fiamma al cor mi corre
Questo sospetto, e nel pensier mi
Sotterraneo recesso, ov^ella porre
Potea nell^uopo a salvamento il piede.
Per udita esser anco mi soccorre
Fresco l'eccidio del paese , e fede
Danne il fumo che, in mezzo all'alto orrore,
Sfoga tra sasso e sasso, e ancor non muore.
À quel lampo di speme rinfiammarse
Le membra mi sentii di repentina
Forza ^ e alla parte ov'io pensai che trarse
In occulto potea quella meschina,
Il dì che crudo entrò il nemico e sparse
D'ogn' intomo la morte e la mina.
Ratto mi diedi a disgombrar la smossa
Bica di sassi e travi a tutta possa.
Ma solo, ahi lasso! che potea? Tropp' era
Alto r ingombro, e la man poca a tanto.
La man che tutta è sangue in quella fiera
Fatica, e un' onda il corpo tuttoquanto.
Pur proseguo, e vi spendo ogni maniera
Di travaglio e di pena^ infin che firanto
Ogni vigore, in mezzo all' affannosa
Opra al suol cado come morta cosa.
Cado, e abbracciava sanguinoso e rotto
Le accalcate mine. In quello stato
Odo, o parmi d' udir, cupo di sotto
Un lamento lugubre e prolungato.
Mi riscuoto; e di nuovo in giù condotto
L'orecchio al suol, di nuovo odo un plorato,
Che distinto m'avvisa e gemebondo
Un sepolto che grida in quel profondo.
cìnto settimo /^oS
Ella vive, ella vive^ e balzo in piedi
Forsennato di gaudio^ e tuttavia
Iterando, ella vive, a far mi diedi
Sforzo che vano e disperato uscia.
Dio, gridai, Dio clemente, o mi concedi
La sua vita, o ti prendi anco la mia.
Così pregando, un improvviso e molto
Romor di piedi avvicinarsi ascolto.
Era d^ armati un bellicoso, ardito
Drappel, cui patrio amore, ira movea
Contro il vicin nemico, e lui pentito
Far della strage miseranda ardea.
Corsi, e squallido, ansante, irto, sfinito
Narrai V orrido caso ^ e non avea
Tutto ancor detto, che lo stuol già sopra
Ài franti muri di gran cor s^ adopra.
E a quella parte ov^ io lor destre invoco ^
Sgombra il passo impedito, e mi seconda,
E già siam presso al sotterraneo loco^
Già la chiamo, già par che mi risponda.
Oh momento ! il mio core era di foco ,
E tremava ad un tempo come fronda.
Apresi il varco alfine, alfin più chiara
Mi vien la voce lamentosa e cara.
Precipitoso per la data porta
L^ impaziente mia pietà mi caccia,
Gridando, O madre! e già la tengo (ahi corta
Immensa gioja ! ) fi:a le calde braccia.
La dolorosa omai tra viva e morta,
Al suon della mia voce alza la faccia,
Mi guarda, mi conosca, e, messo un grido.
Cade spenta dal gaudio, ed io T uccido.
Mosti. Poemetti. 26
4o6 U. BARDO DSIXi SELVA MERA
Io per camparla le troocai la vita,
Misero incauto! e si fé giuoco il Cielo
Di mia pietade fih'al tradita.
Se ancor del crudo colpo mi querelo ,
Dio } perdona: nasconde V infinita
Tua provvidenza impenetrabil velo.
Ma tanto amore ed una tanta fede ,
No y mertar non parca questa mercede.
Che si fosse di me, che mi facessi
Dopo Talta sventura, io noi so dire^
Si dalPambascia e dal dolore oppressi
Gli spirti tutti uscian d' ogni sentire.
Come fur richiamati agP intermessi
Officii della vista e dell^ udire,
Trovaimi cinto di dolenti volti
In pio silenzio a me d^ intomo accolti.
Muto li guato, e già il pensier tornando
Ne' suoi discorsi, colla man rimovo
I circostanti, e con lo sguardo errando
D' ogni lato , la cerco e non la trovo.
Dov'è? languido e fioco alfin domando,
Dov'è la madre? e tace ognun. Di nuovo
Chieggo, e fiero mi levo, e la discreta
Carità degli amici indarno il vieta.
In povero vicin tempio, dall' ira
Ostil non tocco, avean locato intanto
Umilemente su la nuda pira
Di poche pietre il corpo onesto e santo.
Giacegli gramo al fianco e lo rimira
n povero Melampo, che di pianto
Avea gli occhi suffiisi, e ad or ad ora
Solleva il capo, si lamenta e plora.
CAUTO SETTIMO 4^7
Di molte turbe, quivi convenute
Sotto la scorta del guerrier drappello,
Bisbigliavan le vie dianzi sì mute:
Ciascun tornava al suo deserto ostello^
E finigando delParse ed abbattute •
Case ogui lato, accolto in quel sacello
Àvean le salme d^ alcun altro estinto ,
E deposte nel mezzo al pio recinto.
y^ era una madre dal dolore uccisa ,
Giovinetta col figlio alia mammella,
Una tigre, una Furia avria conquisa
La sua sembianza dilicata e bella.
Grudel ferro sul petto in empia guisa
n caro pegno le trafisse, ed ella
Per r immenso dolore al punto istesso
Spiro col labbro su la piaga impresso.
Crescea materia di comun lamento
Un generoso che , a campar V amico ,
Si lanciò tra le fiamme e vi fu spento,
Vittima illustre dell^amor ch'io dico.
Lagrimavasi ancora il violento
Fato d' un veglio di valore antico ,
Che, giusto, uwano, liberal, cortese.
Tutti amò. Dio temette, e nullo offese.
Come il pie misi nella santa soglia
Tra quella di defunti atra corotfa.
L'altrui sventura che la nostra doglia
Sospende e dolce a compatir ne sprona,
Religi'on che pronta in noi germoglia
Nel disastro, e al pensìer grave ragiona ,
Si mi scosser l'inferma anima anela.
Che tutta cadde al mio furor la vela.
4o8 IL BARDO DELLA SELVA IfBRl
Sentii 9 venendo nella sacra stanza,
Stanza augusta di Dio quanto più nuda ,
La sua sentii presente alta possanza ,
Che d^ ogni umano affetto ci denuda.
Questo Dìo degli afflitti una costanza
Par che nel petto allor mMnfonda e chiuda^
La costanza del giusto, che la pace
Trae dagli affanni, inchina il capo e tace.
Oh necessaria agli infelici e cara
Religioni Tu davi al mio dolore
Sublime qualità, sì che V amara
Piena non tutto mi sommerse il core.
M'appressai della madre alPumil bara,
VafHssi le pupille, e di chi muore
Già mi stringea Tangoscia^ ma le penne
Levò la mente al Cielo, e la sostenne.
Sorse intanto la notte, e ricopria
Del benigno suo vel le lagrimate
Opre mortali^ e ognun del tempio uscia
Di mestizia dipinto e di pietate.
Ma me né forza né pregar partia
Dalle care a' miei sguardi ed onorate
Spoglie, e là mi rimasi, onde di duolo
Inebbrìarmi a mio pien grado, e solo.
Le venerande tenebre rompea
Del sacro chiuso una lugubre e muta
Lampa ^ e la fioca luce orror crescea
Dai distesi cadaveri sbattuta.
Al nudo capo matemal facea
Letto una pietra, ed io su la sparuta
Fronte tenea le ciglia immote e fisse.
Quasi aspettando che le sue m'aprisse.
CANTO SETTIMO 4^9
Poiché alfin la solinga aspra mia cura
Fu di lagrime sazia e di sospiri^
O poter fosse della pia natura
Che tutti placa col pianto i martiri,
O fosse opra del Giel, me su la dura
Terra giacente con pesanti giri
Tale avvolse un sopore, e mi si fuse
Su gli occhi, che domati alfin li chiuse.
Ed ecco vera innanzi e luminosa
Starmi V immago della cara estinta,
Che i rai m^ asciuga colla man pietosa ,
E in soave d^amor voce distinta:
Figlio, disse, pon modo all^affannosa
Doglia, che offende il mio gioire. Io cinta
DMmmortal luce in ciel mi godo, e ({uivi
Ài senso alzata degli eterni Divi,
T'amo d'amore che in mortai non scende
Intelletto, e di te con Dio ragiono,
E in lui veggo il tenor delle vicende
A cui tu resti, e di che lieta io sono.
Ma sollevarne il vel mi si contende^
Di conforti e d'avvisi unico dono
Farti mi lice, e venni a ciò. Tu gli odi,
E in cor li figgi di ben saldi chiodi:
La patria, per cui bella è ognor la morte,
A fecondi d' onor nuovi perigli
Minacciata d'esterne empie ritorte
Di nuovo appella ad alto grido i figli.
Soccorso invoca su le Cozie porte
Italia stretta da robusti artigli,
E il brando che a tarparli il Ciel destina,
n fatai brando è fuor della vagina.
4lO IL BiRDO DEIXl SELVA, NERA
E già splende suU^Àlpi , già V etema
Neve incalcata da terreno piede
Sente V orma francese, e la superna
Cima d^armi fianuneggia, e il rarco cede.
Là ti chiama V onor che ti governa,
Di là si scende ad immortai mercede,
Alla mercè del forte che sé stesso
Dona alla patria ed all^ amico oppresso.
Sceso in valle di Po Paltò Guerriero,
A cui nullo guerrier si paragona,
Farà gran pugna, fiaccherà del fiero
Rivai r orgoglio, che temnto or suona ^
Vittoria mieterà che dell^ impero
Italo e Franco la regal corona
Daragli al crine, e più non dico: il Fato
Matura il resto a più bei dì serbato.
Ciò che possa V ardir Gallo ne^ campi
Di Marengo tremendi , fia dimostro.
Ivi sarà che di valor tu stampi
Orma degna, tu piur, d^ eterno inchiostro.
Va dunque , e tua virtù chiara divampi
Per r onorato calle che ti mostro.
Fa che di te quel Grande che ti guida ,
Qualche bel fatto intenda e ti sorrida.
Con questa speme al ciel beata io tomo^
Più non lice indugiarmi: al tergo mio
Olezzante aleggiar sento del giorno
L^ aura vietata che m^ Incalza : addio. —
Si dicendo mi cinse al collo intomo
Le braccia, e sparve in un balen, mentr^io
Per rattenerla a lei m'avvento, e a vóto
Tornan le mani al petto, e mi riscuoto.
CANTO SETTIMO 4'^
Confortato mi desto , e coU^ aita
De^ già pronti compagni a dar mi volsi ,
Duro oflScio ! la tomba a chi la vita
Diemmi^ e tutto al grand^uopo il cor raccolsi.
Pietosamente in parte erma e romita
Ne recammo la spoglia^ e anch^ io ne tolsi
Su queste spalle il peso, alle sante ossa
ÀncVio scavai con (juesta man la fossa.
Io la calai là dentro , io sovra il letto
Dell^ etema cpuete la composi ^
Delle man giunte le fei croce al petto,
E i fior mesti di morte al crln le posi^
£ dato il lungo estremo sguardo , e detto
L^ ultimo addio, su i santi e preziosi
Membri gittammo della terra il velo,
Pregando alP alma etema luce in cielo.
Oh Malvina ! al cader delle versate
Gementi zolle s\d materno volto,
Qual mi movesse assalto la pietate,
Alle labbra d^ un figlio il dirlo è tolto.
Così sparir vid^ io, lasso ! le amate
Sembianze, e ancor le veggo, ancora ascolto
Il cupo suon della terra che piomba
Su quella fronte , e dentro mi rimbomba.
CANTO OTTAVO
Ma già levato avea dell^ armi il grido
De^ Franchi il sommo correttor Guerriero,
E alla possente voce, Armi, ogni lido,
Armi freme ogni petto, ogni pensiero.
Come suol dall^ arena arsa di Dido
Soffiar Tumido vento, e alzarsi nero
Di nubi un gruppo che del ciel la faccia
Nasconde, e strage all' arator minaccia^
Cosi da tutta la francesca terra,
Terra di prodi ognor feconda, s'erse
Subitamente nube atra di guerra,
Che d'armati le Cozie Alpi coperse.
L' orror del varco indamo il cammin serra,
E la neve che pie mai non sofferse,
E i torrenti e gli abissi. Alla virtude
Sprone è il periglio, e nulla via si chiude.
Fama è che sopra queir orrende cime
L'ombra s'aggiri, avvolta di tempeste.
Del feroce Annibàl, che delle prime
Orme guerriere stampò V ardue creste.
La vede il montanar fosca e sublime
Passeggiar su le nubi , e dalle teste
Dell' erte rupi rotar nembi al basso,
Vietando ai fanti e cavalieri il passo.
IL BARDO DELLA SELVA NERA, CANTO OTTAVO 4'^
D^asta armato e d^ usbergo ergesi il crudo
Fantasma a guardia del tremendo calle,
Pari a dirupo smisurato e nudo,
Cui batte etemo turbine alle spalle.
Spesso, se vero è il grido, alza lo scudo,
E forte il percotendo , empie la valle
D^alti rimbombi e di paure, e truce
Fa del grand^ elmo balenar la luce ,
E delPelmo il cimier, che tremolante
Fra i rotti nembi trapassar si mira ,
E trarsi dietro il turbo e la sonante
Àia de^ venti procellosi e Y ira.
Air immenso fracasso il viandante
D^orror sacro compreso il pie ritira
LÀ
SPADA DI FEDERICO II
RE DI PRUSSIA
OTTAVE
t
ALLA
GRANDE ARMATA
VINCENZO MONTI
La più bellicosa delle greche nazioni non veniva a com-
battimento senza prima sacrificare a Calliope^ e V antica
sapienza parve stabilire Pamistà tra il Guerriero e il Poeta,
associando Ercole colle Muse. Per insegnarne ancora che
gV illustri conflitti sono V argomento più caro di queste
Dive, la medesima lasciò scritto che il primo deloro canti
fu il trionfo di Giove lor genitore, e i forti fatti dei Numi
che per lui combattevano nella gran giornata di Flegra.
A voi dunque, valorosi Duci e Soldati del Grande Na-
poleone, io consacro a buon titolo questi versi dalla mili-
tare virtù vostra inspirati^ e dai campi di Marengo e di
Àusterlitz , ove già vostro Bardo sto intrecciando corone
degli allori colà mietuti, io corro per diporto a raccogliervi
qualche fironda di quelli di Jena, finché sono ancor caldi
del sangue dell^ inimico. Né io temo che questo tributo
4i8
d^ ammirazione sia da voi rifiutato. Siete figli della piq
grande ed insieme della più eulta e gentile fi*a le nazioni;
e mi conforta inoltre di buòna speranza un altro pensiero.
L' ofierta mia rispettosa vi si presenta sotto gli auspicj e
V eccitamento d' un Principe generoso, un dì pit>de vostro
compagno nelle battaglie, ed ora dolente di trovarsi lon-
tano dai gloriosi vostri pericoli.
À questo magnanimo desiderio il cuoic vostro ha già nomi-
nato r Augusto Eugenio Napoleone, amore e ferma tutela
del beato Regno Italiano. Da lui mi venne V ardire d' in-
titolarvi la Spada di Federico ^ egregia vostra conquista;
ed Egli è pur quello che a tutte le ottime discipline libe-
rale di beneficj, compartisce a me qnell^ ozio onorato, che
divenuto un giorno bella sentenza di gratitudine sulla bocca
del Titiro Mantovano, inspira adesso alla mia canti di lode
ai primi guerrieri flell^ universo.
Milano, a4 Novembre 1806.
LA SPADA
DI
FEDERICO II
I
Sul muto degli Eroi sepolto frale
Etema splende di virtù la face.
Passa il Tempo, e la sventola coU'ale,
E più bella la rende e più vivace.
Gorre a inchinarla la virtù rivale^
Alessandro alla tomba entro cui tace
LMra d'Achille, e, maggior d'ogni antico,
Bonaparte alPavel di Federico.
n
Del sudore di Jena ancor bagnato
Al sacro marmo ei giunse, e la man stese
Al brando che in Rosbacoo insanguinato
Tarpò le penne del valor Francese:
Famoso brando dal martel temprato
Della Sventura^ e che per dure imprese
Nomar fé Grande chi lo cinse, e dritto
Diede e splendor sovente anco al delitto.
m
La man vi stese , e disse : Entra nel mio
Pugno, o fatai tremenda spada. Il trono
Gh' alto levasti, e i lauri onde coprio
Un dì la fronte il tuo Signor, miei sono.
Dal gorgo intatta dell'umano obbho
Sua gloria volerà^ ma tale un suono
Di Jena i campi manderan, che fiacco
Quel n'andrà di Torgavia e di Rosbacco.
4^0 LÀ SPADA
IV
Così dicendo, con un fier sorriso
LMmpugna^ e il ferro alle contente ciglia
Dalla vagina già splendea diviso.
Mise Parme una luce atro-vermiglia^
Mise, forte tremando, un improvviso
Gemito il sasso : ed ecco maraviglia ,
Ecco una man che scarna e spaventosa
Sul nudo taglio dell^acciar si posa.
V
Era del guanto marzìal vestita
La terribile mano, e si vedea
Sangue uscirne a gran gocce: e tosto udita
Fu roca, orrenda voce che dicea:
Chi sei che al brando mio porti Tardità
Destra ? E il brando di forza a sé traea,
E un fremer si sentia di rotte e cupe
Voci, qual vento in cavernosa rupe.
VL
Rise il franco guerriero alla superba
Sdegnosa inchiesta per lui solo intesa
(Che sol delle grand^alme al senso serba
I suoi portenti il cielo, e li palesa)^
II magnanimo rise^ indi in acerba
Sembianza d^ ire generose accesa^
E mia, gridò, cotesta spada, e invano
La contende PÀvemo a questa mano.
VII
Se di Gocito su la morta foce
Non vien dei fatti di quassù la fama,
Se laggiù del mio nome ancor la voce
Non ti percosse, e di saperlo hai brama,
Ghiedilo a quel tuo trono, ombra feroce,
Ghe là giace atterrato, e invan ti chiama.
Tu ben sette , a fondarlo , anni pugnasti ,
Io sette giorni a riversarlo: e basti.
DI FEDERICO II 4^'
vm
Non tutto ancora il suo parlar finiva,
Che un doloroso altissimo lamento
Suonò per V aria, e alla virtù visiva
Del favellante Eroe sparve il portento.
Ma non già sparve agli occhi della Diva,
Che, animando su Tarpa il mio concento,
Presta al pensiero la pupilla, e il move
Per le vie de^ baleni in grembo a Giove.
IX
Ivi si spazia, e con intatte piume
Tra gli accesi del Dio strali s'avvolve^
A suo senno de^Fati apre il volume^
Tocca il sigillo del Futuro, e il solve:
E fragoroso passar vede il fiume
Deir umane vicende, e sciolti in polve
Sparir là dentro i troni, e su la bruna
Onda regina passeggiar Fortuna.
X
Poiché r emersa dall^ eterna notte
Larva scettrata infranto vide il soglio
Di Brandeburgo, e violate e rotte
L^ auguste bende del Borusso orgoglio,
Cesse il ferro conteso^ ed interrotte
Di furor mormorando e di cordoglio
Fiere parole^ alPaura alto si spinge,
E lunga lunga il ciel col capo attinge.
XI
Perchè nessuna al suo veder si rubi
Di tante alla gran lite armi commosse,
Squarcia d^ intomo coUa man le nubi^
E si truce fra nembi appresentosse ,
Ch^un de^ negri parca vasti Gherubi
Che un dì la spada di Michel percosse.
Bieca allor la grand^ Ombra il guardo gira
Sul pugnato suo regno: ed ahi! che mira?
MoMTi. Poemetti, aj
/^VL2 LA SPADA
xn
Di Prosso sangue dilagate e nere
Mira di Jena le funeste valli,
E le sue si temute armi e bandiere,
E i vantati non mai vinti cavalli
Fulminati o dispersi; e prigioniere
Gir le falangi, e i bellici metalli
Su meste rote con le bocche mute
Cigolando seguirle in servitute.
xm
Mira il nipote successor pentito
Morto alla fama, ed al rossor sol vivo.
Voltar le spalle, e maledir P invito
DelPAnglo insultator del santo olivo.
Mira i Prenci congiunti altri ferito.
Altri spento in battaglia, altri captivo;
E cagion fugge delle ree disfide
La regal donna. Amor la segue, e ride.
XIV
Del valor, che di Praga e Friedbergo
Cinse un giorno gli allori alle sue chiome,
Cerca i duci; e qual cade, e qual dà il tergo,
Qual Farmi abbassa trepidanti e dome.
Della prisca virtù sciolto è P usbergo
Da tutti i petti: si spalanca al nome
Del vinci tor qual rócca è più sicura,
E ne volge le chiavi la Paura.
XV
Spinge V Elba atterrite e rubiconde
Al mar le spume; e il mar le incalza al lido
Anglo muggendo, e su le torbid'onde
GP invia del sangue si mal compro il grido.
A quel muggir F Oderà alto risponde,
E: Rispetta il Laon, bada al tuo nido,
Grida allo Sveco dalla riva estrema;
Bada al tuo nido, Re pusillo^ e trema.
DI FEDERICO II 4^^
XVI
Di fanciulli e di padri orbi cadenti
Il coronato spettro ode frattanto
Le pietose querele, ode i lamenti
Delle vedove donne in negro ammanto^
Ode urli e suono di feroci accenti^
E vede alPonda del pubblico pianto
La discesa di Dio giusta Vendetta
Folgorando temprar la sua saetta.
XVII
E temprata e guizzante la ponea
Nel forte pugno del guerrier sovrano^
Né cangiata il divin dardo parca
Sentir del primo vibrator la mano.
UlrsL allor delle Franche armi sorgea
Superante il furor dell^ Oceano ,
Simile all^ira del signor del tuono,
Che guarda bieco i regni, e più non sono.
xvm
Pur, siccome talor, rotta la scura
Nube, fuor porge la serena testa
u II ministro maggior della natura,
E i campi allegra in mezzo alla tempesta;
Bella del par Clemenza fra la dura
Ragion delibarmi al cor si manifesta;
E di mano alPEroe tenera diva
Fa lo strale cader, che già partiva.
XIX
Qua vedi al pianto di fedel consorte
Rimesso di sleal sposo il delitto,
E di malizia gravido e di morte
Pietose fiamme consumar lo scritto.
Là del sedotto Sassone le torte
Vie d'eiTor perdonate, e allo sconfitto
Ricomposte sul crin le regie bende ,
Che or fatto amico un maggior dio difende.
XX
Ecco poscia un diadema in tre spezzato
( Se non inganna dello sguardo il volo )
Saldarsi, e ratto del gran Sire al fiato
Que^tre brani animarsi, e fame un solo.
Rompe al nuovo prodigio il vendicato
Polono i ceppi, e dell^ Artico polo
Alle barbare torme oppon più saggio
Saldi schermi di ferro e di coraggio.
XXI
Allor, siccome è di quel forte il senno,
Prender nuova sembianza, e depor Pire
D^ Agenore la figlia, e quei che fenno
Tante piaghe al suo fianco, impallidire.
E deir invitto, che la salva, al cenno
Altri balzar dal solio, altri salire:
E il rio mercato ir chiuso, ove a mal frutto
Compra il Britanno delP Europa il lutto.
xxn
Al grande audace mutamento in viso
Guardansi i Regi paventosi e muti,
E tremar nelle destre all^ improvviso
Senton gli scettri in Albì'on venduti.
Cade ne^ petti attoniti preciso
Ogni ardimento^ e in fronte agli sparuti
Gorrettor delle genti in solchi orrendi
Scrive il dito di Dio: Piega, o discendi.
xxm
Dell'odiosa scritta non sofferse
L'ombra superba la veduta^ e fatto
Di nembi un gruppo, in quello si sommerse,
Né più la vidi. Ma per lungo tratto
Nube vidi tremenda che coperse
Il Germanico cielo esterrefatto ,
DI FEDERICO II 4^5
XXIV
D^ Europa intanto alla Città reina
Viaggia della Spree la trionfata
Spada, e la segue con la fronte china
La Borussa Superbia incatenata.
Densa al passar dclParme pellegrina
Corre la gente stupefatta, e guata;
E già la fama con veloce penna
Ne prenuncia la giunta in su la Senna.
XXV
Fuor delPonda levarsi infino al petto
L^ altero fiume regnator fu visto,
E nel vivo raggiar del glauco aspetto
Splendea la gioja di cotanto acquisto.
Ma un segreto del cor grave rispetto
Del trionfo al piacer sorgea commisto
Air apparir del brando che si spinse
Sol contro cinque in sette campi, e vinse.
XXVI
Luogo è in Parigi alla Vittoria sacro,
Ove i Genj di Marte alle severe
Ninfe compagni delP ascreo lavacro
Cantan de^ Franchi le virtù guerriere.
Della Diva d^ intomo al simulacro
Pendon V arme de' vinti e le bandiere ,
E n'è si pieno il tempio che alle nuove
Nimiche spoglie omai vien manco il dove.
XX vn
Ivi di cento ferrei nodi avvolto
Freme l'Orgoglio delle genti dome.
Ivi l'atre Congiure, ivi lo stolto
De' regnanti Furor raso le chiome.
Lordo di bava i mostri alzano il volto
Alle perdute appese insegne; e come
Rabbia li rode, colle gonfie vene
Fanno il dente suonar su le catene.
4^6 Là. SPADA DI FEDERICO II
xxvm
Prodi di bianco pelo, a cui caduta
Del corpo è la virtù, ma non del core,
Custodiscono il loco^ e la canuta
Fronte ancor spira militar terrore.
À questo tempio fra la turba, muta
Di riverenza insieme e di stupore,
In guardia dato al buon guerriero antico
Passa il brando immortai di Federico.
XXIX
Questo è dunque, dicean le generose
Tremole teste deVegliardi eroi,
Questo è il ferro a cui tutta un dì stoppose
LMra d^ Europa, e si pentì dappoi?
Questa V arme fatai cbe fea spumose
Del nostro sangue le campagne? E noi.
Illustri avanzi del tuo sdegno, or scinta
Te qui vediamo, e la tua luce estinta?
XXX
Ma se trofeo cadesti, o forte spada,
D^una spada maggior che aprir ferita
Sa più profonda, non verrà che cada
Mai la fama al tuo lampo partorita.
In questa di valor sacra contrada
Alti onori t^ avrai ^ che riverita
Pur de^ nemici è qui la gloria, e schietti
Della tua faran fede i nostri petti.
XXXI
Sì dicendo scoprir le rilucenti
Cólte in Rosbacco cicatrici antiche,
E vivo scintillò negli occhi ardenti
Il pensier delle belliche fatiche.
Pai've r inclita spada a quegli accenti
Agitarsi, e sentir che fra nemiche
Destre non cadde; parve di più pura
Luce ornarsi, e obbliar la sua sventura.
LA
PAUNGENESI POUTICA
CANTO
Spirìtus intuì alit , toUnMjue infiui per artiu
Mflm «gitat moleni, et magno te corpore miscat.
ViBO. JEn. 1. TI.
Là
PALINGENESI POLITICA
CANTO
DelPElrcinio cantore era già queta
La bellicosa lira ' , e q[ueti i tuoni
Della gaUica folgore che lungi
Di Fri'edlando su P orrenda valle
Mettea, sazia di strage, i lampi estremi
Di sarmatico sangue rubicondi.
E già rimessa al generoso fianco
L' arbitra delle pugne invitta spada ,
Stendea placato il vincitor la mano
All'attonito vinto, e dell'olivo
Sul domato Niemene offiia la fronda.
Vide l'Europa le congiunte destre
De' due sommi Potenti, e su la speme
Del suo riposo fé sereno il ciglio:
E misto al suon dell' onda che superba
Dell'alto giuramento al mar correa,
Sul fiero campo della morte il dolce
Inno udissi di pace, che le Scalde
Nereìdi intonar lungo le prode
Della baltica Teti. Cosi, quando
Giove in Flegra percosso ebbe le fronti
D'Encelado e Tifeo, lungo i ruscelli
Del nettare immortai nella beata
43o LÀ PALINGENESI POLITICI
Città de^Numi le celesti Muse
La vittoria cantar del genitore.
Air alta melodia tutte d^ Olimpo
Eccheggiavan le cime, e da lontano
Dal fulmine spezzate e ancor fumanti
Di Pelio e d^Ossa rispondean le rupi^
Mentre cinto di gloria entro i lor giri
Ricomponeva le sconvolte sfere
L^ onnipotente senno , e inebriata
Dell'almo canto P aquila divina
Su r estinte saette appiè del trono
Le grandmali abbassando s'addormia.
Ma non dorme del mio Giove terreno
L'aligera ministra, né lo strale,
Ai forti artigli consegnato, è spento.
Vive le fiamme ne* mantien V orgoglio
DelPobbliqua Alb'ion che nel delitto
Cerca sua gloria. Di novelli sdegni
La turbata pupilla ecco lampeggia
Dell'offeso mio sire: ed io fedele
Sul carro il seguirò delle divine
Figlie di Giove, cbe di là dal Sole
Ne' regni della bella Eterni tate
Portano il grido delle belle imprese.
Oh di prisco valor, di prisca fede
Inclito seggio, Ispana terra! E quella
Non se' tu, che in Sagunto all'amistade
Del punico ladron morte prepose?
Or qual demenza all'amistà ti sprona
Della nuova Cartago? A diradarti
La lunga notte in che languisci avvolta,
Un almo Sole alfin ti splende , un Sole
Del cui limpido raggio innamorata
Si fea- più bella la regal Sirena,
Che ancor devota il guarda e lo saluta^
E tu chiudi le ciglia? e stolta i nembi,
LA PALINGSIIBSI POLITICA 4^'
Per ofiuscarlo, e le tempeste invochi
Del britannico cielo ? Oh sventurata !
À punir la tua colpa il mio signore
Alza irato la spada, che battuta
Gontra i superbi alla celeste incude,
Di mortai brando paragon non teme.
Die questa spada al buon Trajano un giorno
L^ etemo imperador, quando al suo piede
Tutti prostese della terra i regi.
Dopo quel divo, il Cesare V ottenne
Che r impero del mondo in due diviso,
Largì la dote che fu morte a Roma.
Spento il gran donator, giacque per molte
Età nascoso T incorrotto acciaro,
Finché del Magno Carlo alla possente
Destra pervenne, e suscitar fu visto
D^ Occidente lo scettro in Campidoglio.
Ed or nel pugno di più forte erede
Dopo milPanni a trionfar venuto ,
I suoi regni racquista^ e alla vagina
(Così volge il destin) non fia che tomi,
Finché non taccia innanzi a lui la Terra.
Curvate il capo al possessor novello
Del fatai brando, pirenee montagne:
Umil ti prostra, Ibera donna. Ei viene ^
Move tre passi, e al quarto é giunto. E voi,
D^ogni gente avversar], Angli superbi,
Celerate la fuga^ e dite al vostro
Be che del sangue delP Europa é chiuso
L^ orribile mercato , e non a lui ,
Ma solo al Grande che pietoso il chiuse,
A lui solo il valor die questo impero.
Sian vostro regno e scogli e sirti e flutti.
Case degne di voi : ma non lasciate ,
Algosa razza , per regnar , le vostre
Ondeggianti prigioni. Ivi son tutte
43 a LA PALOrGENESl POLITICA
Le vostre posse. D^ogni suol rifiato,
Voi toccate la terra , e più non siete.
Su le pronte rapito ali d^ amore
(Di (juell^amor che, nato in cor gentile
Dal beneficio, agP immortali innalza
De^ mortali il sentire), io sospingea
L^afiannoso pensier su T adorate
Orme del Giusto alle cui tempie il cielo,
Sol per tornarlo al suo splendor, concede
L^ ispano diadema. E palpitando.
Gol veder della mente m^ avvolgea
Dentro il turbo crudel , che su V ibero
Dal britannico lido si diffuse ^
E di Giuseppe su le sacre chiome
Ruggir Fintesi, e lui vid^io serena
Portar la fronte che traverso al velo
Della nube feral splendea più bella.
Come allor che da livida palude
S'alza negro vapor, che invidioso
D'Iperìone al folgorante figlio
Copre il nitido volto, e non F offende^
Sola s' attrista della tolta luce
La famiglia de' fior che moribonda
Il mesto capo inchina, e pregar sembra
L'amato raggio che la torni in vita^
Tale in mezzo all'offese era il sembiante
Dell'augusto Giuseppe, e tal de' probi.
Cui l'absenza struggea del sacro aspetto,
L'amoroso dolor. Ma in sua virtude
Venne l'alto guerrier che vede e vince.
Che vuole e puote ciò che vuole, e spersa
Fu l'anglica procella, e serenato
L' ispano cielo che al beante raggio
Del caro si ravviva astro novello.
Io la grave frattanto arpa d' UUino
Venia toccando, e su le varie fila
LÀ PALINGENESI POLITICA 4^3
Deir invitto mio slr tessea le geste
Maravigliose ^ e F armonia de^ forti
Garmi^ e il parlar che dal profondo seno
Traggon dell' ahna le potenti Muse ,
Deir Invidia facea su i verdi crini
Rabbiose e stolte sibilar le serpi.
Ma inferma nel levarsi all'alto obbietto
Si smarriva la mente ^ e perdea Pali
La vinta fantasia^ che di c[uel magno
Intorno alla regal diva presenza
Tale un timor si crea, tale un rispetto,
Che le ginocchia ed il pensiero atterra.
Perch' io vólto in quell' uopo alla reina
Gall'iope, dicea: Tu scorgi, o diva,
Del tuo divoto sacerdote il corto
Immaginar, tu vedi la sublime
Maestosa caligine che cela
Questo re della gloria. E tu de' regi
Compagna etema e degli eroi, deh! sgombra,
Sgombra il vel che l'occulta, e vista dammi
Che in luce aperta sostener lo possa^
Ch'io ben veggo i baleni, ed odo i tuoni
Che fan palese il suo potere e l'alta
Dai re temuta volontà suprema^
Ma del profondo ordinator pensiero
Non discerno le vie. Non indagarle
Presuntiioso , rispondea la diva^
Su 1' opre sue sta scritto : Adora e taci.
Né l' immago cercar del suo valore
Nell'antica virtù ^ che smorti emblemi
Sono Alcide e Teseo ; né prode in Pindo
Fama solleva che tant'alto ascenda.
Non il guerriero, per la cui vendetta
L' etemo figlio di Saturno i neri
Sopraccigli inchinò, su l'immortale
Capo agitando \^ divine chiome,
434 Z'A PALOIGEIIE8I POLITICA
Onde tutto tremava il vasto Olimpo.
Non V altro che da cento accompagnato
Figli di numi la vocale antenna *
Fra r orrende Simplegadi ^ sospinse j
E la furia sprezzò cbe in fier conflitto
Coli' Europa a cozzar PAsia spìngea ,
Sgominando due mari, ed amendne
Col grand^urto scotendo i Continenti,
Finché carco d^ eroi per quella via
D^Argo passando il sacro pino, al fiero
Cozzo fin pose, e si placaro immote
Le concorrenti furibonde rupi.
Né di qual più lodato o la romana
Storia esalti o F argiva, il glorioso
Nome ti porga di paraggio ardire ^
Che nell^ opre del senno e della mano
Levar su tutti ad un sol tempo il grido,
E alle genti dar leggi, e degF imperi
Cangiar V aspetto e ricrearli in meglio ,
E coir arti di Palla e di Sofia
Temprar Pire di Marte, e la severa
Ragion di stato serenar col dolce
Delle Grazie sorriso e delle Muse,
Né il divo germe di Filippo il seppe.
Né il Dittator, né Ciro^ e la veloce
Operosa virtù di questo nuovo
Verace Enosigeo^ va per occulti
Sì profondi sentier, che seguitarla
Non può la vista interior. Ma pure
Perché delPalta ed ineffabil mente
Sotto mistico vel Popra tu vegga,
A portentosa vision lo sguardo
Intendi ardito, e mi t^ accosta. Ed io
M^ appressai coraggioso, e la divina
Pimplea su gli occhi colP ambrosio dito
Due vivifiche stille mi diffuse
Li. PALiNOBnai POLITICA. 43S
Del collirio immortal che degli Etemi
Irriga la pupilla, e la mia fronte
Percotendo, gridò: Contempla e scrivi.
Guardai^ e vidi a me dinanzi un negro
InBnito oceàn , che per tempesta
Da fieri venti combattuto mugge,
Orrido campo di battaglia all^ira
DeMiscordi elementi. Per la vasta
Tumultiiosa oscurità diverse
Vagolai* si vedean forme tremende
Di mostriiosi gnomi, altri d^ acquoso
Vapor composti, ed altri d^acre, ed altri
Di terrestri sostanze. Han d^atra fiamma
Da nitri generata e da bitumi
I più truci la faccia, e tutti insieme
Azzuffati e confusi in fiera guisa
Per signoria fan pugna, e sempre in guerra
Ognun perde, ognun vince, e mai non regna.
E qual le nubi aggira , e ne sprigiona
Fólgori e tuoni ^ qual nell'onde irate
Devolve le montagne, e le sommerge
Sì che punte di scogli al guardo mio
Parean delPAlpi le sepolte cime^
E qual con faci d'inestinto asbesto
Per secreti cunicoli ne' fianchi
Delle rupi penetra , e cerca i rivi
D'asfalto e zolfo su cui dorme intatta
Di Vulcano la forza. A queste i gnomi
Asfaltiche correnti approssimaro
L'atre facelle*, e tosto il dilatato
Aere tonava, e impetuoso urtando
L'opposto fianco delle balze, apria
Voragini di foco. Dal bollente
Seno dell'onde le roventi creste
Sollevavano i monti, e liquefatti
Scogli eruttando e fiamme e schiuma e fumo
436 LA PÀUNGElffBSI POLITICA.
E di liquido vetro ardenti fiumi,
Pingean Tabisso di terribil luce.
Dalla lite crudel, cbe terra e mare
Ed aria e fiioco si movean furenti,
Inorridita rifuggia Natura;
Ed io la strana vision pensoso
Contemplando verna, ma il senso arcano
NellUnteUetto ancor non discendea.
Già mi voltava a dimandar; quand'ecco
Una gran voce, che dall^ alto venne,
Su r abisso gridò: Silenzio, o flutti;
Pace, irati elementi. E subitana
Una luce segui , che con possenti
Fulgidi strali saettava il volto
Delle tenèbre; e le disperse. Allora
Uno Spirto divin corse su V acque
Inferocite , e le calmò ; le cinse
Di sue grand^ ali , e fecondonne il grembo ;
Le divise dal secco, e immantinente
Alzar la testa le montagne, ed ime
Giacquer le valli: i tortuosi passi
Sciolsero i rivi mormoranti, e tale
Nell^ inerte terreno alma s^ infuse.
Che tutto si vestì d^erbe e di fiori
E d^ olezzanti arbusti e d^ ardue selve
Onde la Terra il sacro capo inchioma^
Penetrò la vital forza i recessi
Delle squallide rupi, e nelle fredde
Vene del masso imprigionò del foco
L^ eterna e schietta elementar scintilla.
Poi di vergine luce un grazioso
Raggio frangendo, colorò le gemme,
Il rubin, lo smeraldo e lo zafluro:
Le caverne vostì di cristallini
Ingemmamcnti e stalagmiti, a cui
Dier vaghezza e splendor con aurea polve
LÀ PALUfGBIIBSI POLITICA 4^7
n cinabro e V azzurro. Anco il marino
Zoofile animossi, anco la pietra-
Che volge V ago al polo. Apparve in somma
In ogni lato la virtù delPalmo
Spirto che interno percorrea la Terra,
E in tutte infuso le sue parti, tutta
Agitava la mole , e col gran corpo
Si mescolando, in ciò che parla o nuota
O pasce o vola, diffondea la vita.
Composte le feroci ire intestine
E alPorror tolta in che giacca sommersa,
La rinnovata Terra al divo Spiro
Vivificante da^suoi verdi altari
Porgea laudi e profumi, che Paurette
Rapian su Tali susurranti^ e intorno
Spargendoli, e di mille un odor solo
Temperando, alle nari una fragranza
Porgean che dentro ti scendea nel core^
Mentre di ramo in ramo saltellando
Lieti gli augelli, di soave canto
Ricrèavan le selve, e da per tutto
Candida e bella son*idea la Pace;
Dal giocondo spettacolo rapita
La mia mente bevea tutta dolcezza^
Ma incerto errava V intelletto ancora.
Colla rosata man diemmi il secondo
Colpo la diva su la larga fronte;
E ratto, come tocca dallo strale
Del galvanico elettro , entro il cerébro
Scintillò la fibrilla intuitiva.
La mia scorta sorrise, e vie più bella
Raggiando replicò: Contempla e scrivi.
Guardai; e tosto un ampio e popoloso
Mondo m^ apparve , su le cui racchiuse
Da temperata zona alme contrade
Dolci versava della luce i fiumi
Morti. Poemetti. a 8
4^^ Li^ PALINGENESI POLITICA
Un benefico Sole^ e de ^ suoi doni
Godea far pompa liberal natura.
Lo cingea da tre lati il circonfuso
Mare, e di mille peregrine merci
Tre altri mondi gli porgean tributo.
Di scienza superbe e d ' ogni cara
Arte gentile, ma di cor divise
E di leggi e di brame e di costumi,
Di questa bella regì'on le genti
In mutua guerra si struggean delire.
L^un coir altro cozzanti e insanguinati
Ondeggiavano i troni, altri scommessi
Da perfidi consigli, altri da falsa
Arte di regno trabalzati, ed altri
Per destre inette, o per funesta lega,
O per ferocia femminil caduchi:
E intomo a lor studia cupo levarsi
Suon di pianti e sospir, sospiri e pianti
Delle suggette nazì'on vendute.
Perocché dalP atlantica marina
Circondato di nembi ergea la testa
Immenso, formidabile, nefando
Regal fantasma, cl^e una man stendea
Su le porte del dì, P altra su Tonda
Che i destrieri del Sol stanchi riceve,
E tutti di Nettuno i vasti regni
Di sua grand^ombra ricopriva. A lui
L'Orto edùca e l'Occaso i preziosi
Suoi calami e legumi, e l'odorate
Selve, e la scorza che all'infermo è vita.
Nudron le plnte a lui morbide pelli
Le belve peregrine, e l'afra madre.
Orrenda merce ! partorisce i figli.
A lui perenne di tre mondi oppressi
La ricchezza s'aduna. Ed egli il cupo
Sen della terra co' rapaci artigli
LA PALlNGilXESI POLITICA 4^9
Lacerando, delPauro apre le fonti
E le inghiotte; dell' aui*o che Natura
Ne' più cupi recessi avea nascoso ,
Del suo parto fatai forse pentita.
Coir incantato corruttor metallo
Compra il crudele e guerre e sangue e colpe
E lagrime di genti, e con catene
D' auro tessute avviluppando i troni ,
A cader li sospigne: indi maligno
Esulta, e cresce della lor caduta.
Io fremente il mirava, e con irata
Penna la fiera vision scrivea,
Che già sgombra di nebbie e luminosa
Mi lampeggiava nelP aperta mente;
Quando improvvisa un'altra luce emerse,
E in mezzo al mar di quella luce un Trono
Adamantino, tutto dentro e fuori
Di sempre vigilanti occhi ripieno;
Che pari al trono in Palmo un di veduto
Mettea fólgori e lampi e tuoni e gridi.
Sedeavi eccelsa in mezzo una guerriera
Regal sembianza che spargea ne' petti
Riverenza e terror. Cinta di due
Folgoranti corone era la chioma;
L'una d'auro splendea, l'altra di ferro:
Ed altre il pugno ne ticn strette, ed altre
Per sempre infrante ne calpesta il piede'
Ritti intorno al terribile Guerriero
Co' forti ferri al fianco e gli elmi al crine
Stavansi molti bellicosi eroi
Aspettanti il suo cenno. Innanzi a lui
Su vasta immensurabile pianura
Di diverso color l'aura agitava
Dieci mila bandiere, e con fracasso
Simigliante di molte acque al fragore,
Altissime dicean voci infinite:
44o ' ^^ PÀLINGEITESI POLITIGi
Gloria d'Europa al sei*Yator supremo.
E quel supremo servator su Tali
De^ quattro venti di procelle armato
Inviava il suo spirto, che de' regi
Visitava le colpe, e ne sperdea
Come polve l'orgoglio e la possanza.
Degli alti Federati e degli amici
Visitava la fede, e la copna
Delle larghe sue penne, o di regale
Serto dotata la rendea più salda.
Di nazì'on cadute o in sonno avvinte
Visitava le piaghe, e come dolce
Raggio di sole che ridesta i fiori
Dal turbine battuti, ei di novella
Vita le genti rintegrava, e a ferme
Destre efficaci commetteane il fileno,
Ed una ne vid'io che giovinetta,
Ma d'alto senno e d'alto cor ministra,
Tratta lo scettro già secura, e giusto
Cosi r estolle sul commesso regno.
Che nuli' altro è più bello e più felice.
Tutte d'Europa quel possente spirto
Visitava le prode ^ e della truce
Larva del mar tiranna apparso a fronte,
Scintillò, s'ingrandì, spinse fra gli astri
L'eccelso capo, e trasmutossi in Sole
Che tutta quanta illuminò la Terra.
Si converse a quel Sol l'Indo che beve
Il sacro Gange, e di Saibbo assiso
Su la tomba, agitò le sue catene.
Lo vide il Perso, e salutollo, e al raggio
Di quella luce riforbendo il ferro,
Verso Bengala balenar lo fece.
Lo mirar del gangetico Nereo
Le Gicladi infinite, e d'ogni parte
Sclamavano concordi immense voci :
LA. PALINGENESI POLITICA 44 ^
Gloria desinari al vindice sapremo.
Gloria, rispose P Occidente^ e armata
Di consiglio, d^ onore e di vendetta,
Gloria iterava colla man sul brando
L^ americana Libertade. Un solo
Era del mondo il grido, ed una sola
Contro il fiero de^mari empio tiranno
La giusta e santa e salutar congiura*
Io guardava ed udiva, e nel segreto
Del mio pensier de^ due veduti abissi,
E de^ due spirti animator le vie
Paragonando, nel crear del primo
Vedea P immago del secondo, e tutta
D** ardite fantasie, d^alte parole
E d^alti affetti la vestia. Quand^ ecco
Frettolosa avanzarsi e sbigottita
Bellissima una dea cbe terra e cielo
Di sue care sembianze innamorava.
Candido come neve allor caduta
Vestimento 1' avvolge. Ha nella destra
Di verde oliva un ramuscel^ su gli occhi
Due lagrime pietose. In questa forma
Si trasse innanzi al gran sedente, e disse:
Questo ramo è tuo dono. Ed io pur dianzi,
Da te protetta, nel regal giardino
Il piantai dell'Europa, e con attenta
Solerte cura F educava. Ahi lassa!
Su ristro che ancor fresche ed alte serba
L'orme che Pugna vi stampò de' tuoi
Procellosi destrieri, un negro sorge
Turbo improvviso che P amata fronda
Schiantar minaccia, e fecondar di largo
Sangue novello le tedesche glebe.
Alza Io scettro, vindice possente
Del tradito mio nume, e mi difendi.
Tacque, e piangendo si coprì d'un velo.
44^ I-^ PALINGENESI POLITICA
À qu«i detti, a quel pianto ad offuscarsi
Di nubi incominciò T adamantino
Seggio, e a volver di fumo immense rote,
D^ira svegliata orrendo segno ^ e dentro
Alla densa caligine , da spessi
Lampi divisa, si sentian profondi
Correre i tuoni, e strepitar le folgori
Di partir desiose. I circostanti
Eroi dal fianco trassero fremendo
Le generose spade. In un momento
Si spiegai*, s'agitaro le diverse
Dicci mila bandiere e le veloci
Selve di ferri che dal Sol percossi
Mettean barbaglio agli occhi e tema al petto.
Nelle spade securi e più nel core
Taciturni procedono e terribili
Gli ordinati squadroni. In lunga riga
Scudo a scudo, elmo ad elmo e fianco a fianco
Si strigne, e al moto delle teste vedi
L' un coir altro toccarsi i rilucenti
Cimieri e Fonda dell'eccelse piume.
Sotto il pie de' guerrieri e de' cavalli
Trema la terra, e nubi alza di polve
Che da luu^e veduta al ciel rotarsi.
Fa delle madin impallidii* la gota,
E il coraggio brillar de' giovinetti
Che d' illustre sudor bagnarsi anelano
Nelle fervide mischie, e il dorso premere
Di focoso destrier fra tube e timpani.
Tutto m'ofiria d'intorno una tremenda
Faccia di gueiTa: ma l'eccelso sire.
Che d'auro e ferro si ghirlanda, e siede
Sul trono di veglianti occhi stellato,
Fuor della nube non mandava ancora
La voce che de' re cangia i destini^
Voce al turbo simil, che sul cespuglio
LA PALINGENESI POLITICA 44^
Passa innocente, e F arduo cedro atterra.
Meste intorno al caduto e paventose
Stan le piante minori, ed egli in grande
Spazio prosteso imputridisce, e il piede
Dell^ armento P insulta e del pastore.
Di novità bramoso io nelP udire
Tutta inviava e nel veder la mente,
Quando , lieve scotendomi Y accorta
Pieride dicea: Vate, in quel buio
Bolle il vaso dell^ira, e le negre ali
Spiega già r ora del final castigo.
Se non le tarpa un dio, fiera di canto
Avrai materia. Or tu le viste cose,
Severo ingegno, nelle carte scrivi
Destinate a color che questo tempo
Diranno antico e menzogner. Disparve,
Così detto, la diva, e dileguossi
La portentosa vision. Raccolsi
Tosto i pensieri^ e ciò che vidi, io scrissi.
A. 4»
NOTE
ALLA PALINGENESI POLITICA
Pàg. 43 1.
• Questo Canio forma appendice alla seconda parte del Bardo, e »i
pubblica separato perchè sta per sé solo, e perchè contempla le cose
presenti o recenti. E anche la seconda parte di quel poema sarebbe
già pubblicata, se un anno e più di cattiva salute non avesse ritar-
dalo questo lungo lavoro, e se alcune politiche mutazioni non preve-
dute (poiché i profeti del Parnaso non preveggono che il passato)
non avessero alterato il mio piano, e spesso distrutta la mia fatica.
Taccio che i fatti presi a cantare
son di tal volo,
Che noi seguitcria lingua nb penna.
Né io amo di essere il Cherìlo di Alessandro.
Pao. 436.
» La nave Argo, fabbricata colle querce Dodooee, rendeva oracoli,
secondo la favola : perciò fu della loquace e sacra.
Ivi.
3 Ammasso di scogli nel Bosforo tracio, parte su la costa d'Asia,
parte su quella d* Europa. Favoleggiarono i poeti che questi scogli fos-
sero mobili e cozzassero insieme, finché Giasone colla nave Argo pas-
sandovi in mezzo, pose fine al loro contrasto, e li rendette immobili,
adempiendo un' antica predizione. Apollonio e Valerio Fiacco hanno
descritta con molta magnificenza questa favola, il primo nel libro se-
condo, e l'altro nel libro quarto.
Ivi.
4 Scotìlor della terra: nome dato a Nettuno. •
LÀ
FERONIADE
JrrERTIMENTO DELL'EDITORE
La Feroniade ebbe la sua orione dalT essersi il Monti, in occasione
delle caccie che il principe Luigi Bruschi Onesti nipote di Pio VI
dava nei contorni di Terracina, avvenuto nella fonte di Feronia^ ram-
mentata da Orazio, ed avervi come quell* antico poeta e la sua cont"
pagnia lavato ora manusque (Sat. V, lib. I, v. a 4)* Donde imma"
ginb che le vicende di Feronia potevangli dare bel campo per immor~
talare le opere che Pio VI con veramente regale munificenza aveva
intraprese per bonificare e rendere alla coltura il territorio Pontino,
divenuto una trista e malsana palude, E fattone parola al sommo ar^
cheologo Ennio Quirino Visconti, questi gli suggerì le opere del Kir-
cher, del Corradini e del Volpi sull'antico Lazio ^ come quelle che
gli avrebbero somministrata ampia materia onde ornare di bella eru"
dizione e di nazionali memorie il suo lavoro. Ciò quanto all' origine
del poema j nelle Note si troverà tutto quanto può renderne facile e
piana t intelligenza. Per ora basterà il dire che questi versi furono
V opera che V autore, più. che ogni altra sua, andò limando ed accarez-
zando j dachè incominciata da lui nei tempi più. lieti della sua vita,
quando egli troi^avasi in quella regione d'Italia ove ogni pietra con-
tiene un monumento, e nella quotidiana conversazione del Visconti be-
veva l'amore de' classici studii, quantunque per le vicende de' tempi ri-
manesse sempre fra' suoi manoscritti, non la perdette di vista giammai,
ma Mandava di quando in quando ripigliando Jra le mani per fiorirla
sempre più <f ogni bellezza d immagini e di stile. Questa avvertenza
giova a spiegare t unione che si rai^visa qua e là in questi tre Canti,
di luoghi, di persone, ec, , che possono parere tra lor disparate, se-
condochè ivarii passi appartengono alla prinui composizione del poema
fatta in Roma , sotto gli auspicii dei Braschi , ovvero ai ritocchi ed
alle aggiunte colle quali t autóre lo andava accostando al suo com^
pimento fra noi negli ultimi anni della sua vita.
LA
FERONIADE
CANTO PRIMO
I lunghi affanni ed il perduto regno
Di Feronia dirò, Diva latina',
Che del suo nome fé beata un giorno
Di Saturno la terra. Ella per fiere
Balze e foreste erro gran tempo , esclusa
Da^suoi santi delubri, e molto pianse,
Dai superbi disdegni esercitata
D'una Diva maggior, che Pinseguia,
Finché novelli sacrifici ottenne
Sugli altari sabini, e le fur resi
Per voler delle Parche i tolti onori.
Ma qual de' Numi l'infelice afilisse,
E lei, ch'era pur Diva, in tanto lutto
Avvolgere potéo ? Fu la crudele
Moglie di Giove, e un suo furor geloso.
Tu che tutte ne sai l'alte cagioni.
Tu le mi narra, o Musa, e dall' obblio
Traggi alla luce il memorando fatto
Non ancor manifesto in Elicona.
E se dianzi di nuove itale note
L'ira vestendo del Pelide Achille,
Alcuna meritai grazia o mercede.
Su questi cai*mi, che tentando or vegno,
MoHTi. Poemetti, 29
454 LÀ FERONIADE
Di quel nettare, o Dea, spargi una stilla,
Che dal meonio fonte si deriva,
Non già quando con piena impetuosa
GP iliaci campi inonda, a tal che gonfi
DellMta strage Simoenta e Xanto*
Al mai* non ponno ritrovar la via.
Ma quando, lene mormorando, irriga^
I feacj giardini: e dolce rendi
Su le mie labbra la pimpléa faveUa.
Là dove imposto a biancheggianti sassi ^
Su la circéa marina Ànsuro pende,
E nebulosa il piede aspro gli bagna ^
La pomezia palude, a cui fan lunga
Le montagne lepine ombra e corona,
Una Ninfa già fu, delle propinque
Selve leggiadra abitatrice, ed era
II suo nome Feronia. I laurentini
Boschi, e quei che la fulva onda nudrisce
Del sacro fiume tiberin, quantunque
Di Ganente superbi e di Pomona^,
Non videro giammai forme più care.
Qual verno fiore che segreto nasce?
In rinchiuso giardin, né piede il tocca
Di pastor, né di greggia^ amorosetta
L^aura il molce, di sue tremule perle
L^alba P ingemma, e lo dipinge il sole
Di sì vivo color, che il crine e il seno
D^ogni donzella innamorata il brama;
Tal di Feronia la beltà crescea.
Era diletto suo di peregrine
Piante e di fiori in suolo estranio nati
L^ odorosa educar dolce famiglia ,
Propagarne le stirpi, e cittadina
Deir ausonio terren fame la prole.
Sotto la mano della pia cultrice
Ricevean nuove leggi e nuova vita
CAUTO PRIMO '* ^55
Le selvatiche madri, e, il fero ingegno
Mansuefatto e il barbaro costume,
Del ciel cangiato si godean superbe.
Ed essa la gentil Ninfa sagace
Con lungo studio e paziente cura
I tenerelli parti ne nudria,
Castigando i ritrosi, e a culto onesto
Traducendo i malnati. Essa il rigoglio
Ne correggeva ed il non casto istinto^
Essa gli od) segreti e i morbi e i sonni
E gli amor ne curava e i maritaggi ,
Securo a tutti procacciando il seggio,
E salubri ruscelli ed aure amiche^
Né violarli ardia co^ morsi acuti
D^Orizia il rapitor, che irato altrove
Volgea le furie , e con le forti^ penne
L'antiche flagellava àppule selve,
O di Lucrino i risonanti lidi '.
Ma chi potrìa di tutti a parte a parte
II sesso riferir, la patria, il nome?
V'era la rosa che mandar primieri
Di Damasco i giardini e di Mileto ^
Quella rosa che poi , nel fortunato
Grembo translata dell'Ausonia terra,
Fu pestana nomata e prenestina^.
Sua sorella minor, ma di più grido.
Le fioriva da canto la modesta
Ljcnide , figlia deUe ambrosie linfe '*",
Di che le Grazie un dì le belle membra
Lavar di Giterea, q[uando dai primi
Ruvidi amplessi di Yulcan si sciolse.
Altro amor di Ciprigna in altra parte "
L'amaraco olezzava. In su la sponda
L'avean del Xanto le sue rosee dita
Piantato^ e il petto e le divine chiome
Adornarsi di questo ella solca.
4^^ LA PERONIADB
Quando desire la pungea di farsi
Al suo fero amatore ancor più bella.
Ecco prole gentil d^ egizia madre
Vivaci aprirsi su P allegro stelo
n sonnifero loto e il molle acanto '^
Che alla soave colocasia gode
Intrecciar le sue fronde. Ecco il portento
DelParte, che talor vince natura,
n superbo ranuncolo, un dì vile '^
Mal noto fiore , ed or per Popra e il senno
Di Feronia, che molto amor gli pose,
Fatto sì bello, che il diresti rege
DegP itali giardini. Àleppo e Cipro,
Gandia, Rodi e Damasco in umil pompa
n mandaro alla Diva; ed ella, esperta
De^ botanici arcani , immantinenti
Di yarìate polveri ne sparse
L^ ima radice , che le bebbe , e a lui
Di ben cento color tinse le chiome.
E tale or questo di belParte figlio
Di donzelle non solo e di fiorenti
Spose, a cui lode è la beltà nudrire.
Ma di matrone ancor cura e desio,
Ne' romani teatri e ne' conviti
Alle antiche patrizie il petto adoma,
Ove Amor spegne la sua face , e ride.
Ma più cara alle Grazie ed alla casta
Man di Feronia, con più pio riguarda
Educata tu cresci, o mammoletta.
Tu che negli orti cirenèi dal fiato *^
Generata d'Amore, e dallo stesso
Amor sul colle pallantéo tradutta,
Di Zefiro la sposa innamorasti,
E del suo seno e de'pensier suoi primi
Conseguisti Fonor. Pudica e cara
Nunzia d'aprii, deh! quando per le siepi
CANTO PRIMO 4^7
Dell^ ameno Gemobbio in sul mattino'^
Isabella ed Emilia, alme fanciulle,
Di te fan preda e festa, e tu beata
Vai fra la neve de'virginei petti
Nuove fragranze ad acquistQr, deh! movi,
Mammoletta gentil, queste parole:
Di primavera il primo fior saluta
Di Gemobbio le rose, onde s^ ingemma
Della regale Olona il paradiso,
Ghe di bei fior penuria unqua non soffre.
Felice Paura che vi bacia, e tutta
Di ben olenti spirti in voi s^ imbeve^
E felice lo stelo onde vi venne
Si schietta leggiadria: ma mille volte
Più felice e beato al par de^ Numi
Ghi con man pura da virtù guidata
Dispiccarvi saprà dalla natia
Fiorita spina, e d^Iuieneo sidPara
Gon amoroso ardor farvi più belle;
Ghè senza amor non è beltà perfetta.
Né mai perfetto amor senza virtude. —
Dove te lascio ne^meonii campi
Sì lodato, o dMncanti e di maUe '^
Possente domator, tu che dai Numi
Moly sei detto con parola al volgo
Non conceduta, e sol dal saggio intesa
( Ghè al volgo corruttor d^ogni favella
Parlar la lingua degli Dei non lice).
Se là di Girce fra le mandre Ulisse
Non stampò di ferine orme il terreno.
Di questa erbetta e del suo latteo fiore
Alla virtù si dee: parlante emblema,
Del cui velo copria P antico senno
La temperanza, che de^ turpi affetti
Doma il poter. Di questo portentoso
Vegetante fra noi , siccome è grido ,
458 LA FERONIÀDE
Di Maja il figlio dal natio Cillene
La tenera portò bruna radice,
E deir accorto Dio fu degno il dono.
Con questa ei tutti della maga i filtri
Contra Titaco eroe fece impotenti^
E il suo bel fior, che da non casta mano
Sdegna esser tocco, di Feronia poscia
Dolce cura divenne, che di mille
Felici erbette gli fé siepe intomo,
À.ltre d'eterno yerde, altre dotate
Di medica virtude, onde il furore
Placar de' morbi, addormentar le serpi,
E sanarne i veleni^ altre che il sonno
Inducono benigne, il dolce sonno
Degli afflitti si caro alle palpebre.
E tal di tutte un indistinto uscia
Soave olezzo che apprendeasi al core.
Che di mille dirò scelti arboscelli
Lieti a dovizia di nettarei frutti,
E di fiori e di chiome, in cui Natura
Per infinite varliate guise
Spiegò la pompa della sua ricchezza.^
Alle ben nate piante peregrine,
Qual d'arabo lignaggio e qual d'assiro,
Qual dall'Indo venuta e qual dal Nilo,
L'italo suolo arrise, e sue le fece^
Sì che in lor della patria e della prima
Origine il ricordo oggi è perduto.
Tanto è l'amor del nuovo cielo, e tanta
Fu la cura di lei, che nel ben chiuso
Suo viridario ad educarle prese.
Or con arte confuse, ed or disposte
In bei filari, come strai diritti.
Rallegrando di molli ombre i sentieri.
Ecco schiuder dal seno i bei rubini,
A Minerva e a Giunon pianta gi*adita.
CAUTO PKDfO 4^9
E a Cerere cagion d^alto disdegno '?,
Il coronato melagrano , e tutti
Adescar gli occhi ed invitar le mani.
Ecco il melo cidonio alle gibbose '^
Sue tarde figlie di lasciva e molle
Lanugine vestir le bionde gote,
Del cui fragrante sugo hanno in costume
Le amorose donzelle in Oriente
Nudrir la bocca ed il virgineo fiato ,
Quando la face d^ Imeneo le guida
Di bramoso garzone ai caldi amplessi.
Vedi il Perso arboscel^ che i rosei frutti '9
Ne mostra di lontan^ vedi il fratello
D^ armena stirpe, che con gli aurei figli
Gli contende superbo i primi onori ^
Perocché dai regali orti sconfitti ^^
Deir atterrata Cerasunte ancora
Quel fiammante rivai giunto non era,
Che, di corpo minor, ma di più viva
Porpora acceso, avrìa lor tolto un giorno
E di bellezza e di dolcezza il vanto.
Ma stillante più ch^ altri iblèo sapore,
L^onor dispiega di sue larghe chiome**
n calcidico fico, il cui bel frutto,
Se verace è la fama, alle celesti
Mense sol noto, fira^ mortali addusse,
E a Fitalo donò la vagabonda**
Cerere, allor che tutta iva scorrendo
La terra in traccia della tolta figlia.
ÀU^ apparir della divina pianta
Di molte forme e molti nomi altera
Tutte esultar le rive^ e Cipro e Chio
E gli orti ircani e i misj e il verde Egitto,
E la gi*an madre d^ogni bella cosa,
Lutala terra, con attento amore
La coltivaro, e de^suoi dolci pomi""^,
46o L4 FEBOiniDE
Solo a Serse e a Gartago agri e funesti*',
Fér gioconde le mense anche più tìU.
Né te, quantunque nmfl pianta vulgare,
Lascerò ne^miei carmi inonorato,
Babilonico salcio, che piangente
Ami nomarti, e or sovra i laghi e i fonti
Spandi la pioggia deUuoi lunghi crini,
Or su le tombe degli amati estinti,
Che ne^cupi silenzj della notte
Escono consolate ombre a raccoire
Sul freddo sasso degli amici il pianto.
Tu non vanti dei lauri e delle querce
11 trionfale onor, ma delle Muse ,
Che di tenere idee pascon la mente.
Agli studi sei caro, e daUuoi rami**
Peudon Farpe e le cetre, onde si sparge
Di pia dolcezza il cor degP infelici.
Salve, sacra al dolor mistica pianta,
E Fumil zolla, che i mortali avanzi*^
Del mio Giulio nasconde, in cui sepolto
Giace il sostegno di mia stanca vita,
Della dolce ombra tua copri cortese.
E tu strazio d^ amore e di fortuna.
Tu derelitta sua misera sposa.
Che del caldo tuo cor tempio ed avello
Pesti a tanto marito, e quivi il vedi,
E gli parli, e ti struggi in vóti amplessi.
Da trista e cara illusìon rapita.
Datti pace, o meschina, e ti conforti
Che non sei sola al danno. Odi il compianto
D^ Italia tutta ^ i monumenti mira.
Che alla memoria di quel divo ingegno
Consacrano pietose anime belle.
E se tanto d^ onore e di cordoglio
Argomento non salda la ferita
Che ti geme nel petto, e tuttavia
CAlfTO PRIMO 4^1
Il lagrimar ti giova, e forza cresce
Ài generoso tuo dolor P asciutto
Giglio de^ tristi, che alla voce sordi
Di natura e del ciel, né d^un sospiro,
Né d^un sol fiore consoUb P estinto,
Dolce almeno ti sia che su F avaro
Di quell^ossa sacrate infando obblio
Freme il pubblico sdegno, e fa severa
Delle lagrime tue giusta vendetta.
Ma dove , o Musa , di sentiero uscita
Ti tragge ira e pietà? Deh! toma al ris<
Del cantato giardin, toma ai profumi,
Alle fragranze che F erbette e i fiori
Ti esalano dMntomo. A sé ti chiama
Principalmente ed il tuo canto aspetta
L'odorato de' Medi arbor felice*^,
Di cui non avvi più possente e pronto
(Se fede acquista di Maron la Musa)
Medicame verun contra i veneni
Delle dire matrigne, allor che seco
Scellerate parole mormorando,
Empion le tazze di nocenti sughi.
Chioma e volto di lauro ha l'almo arbusto;
E se diverso e vivo in lontananza
Non gittasse l'odor, lauro saria.
Candidissimo è il fior di che s'ingemma.
Né, per molto soffiar che faccia il vento,
L'onor mai perde della verde fronda.
Ora etrusco limone, or cedro, ed ora
Arancio lusitan l'appella il vulgo.
Sotto vario sembiante ognor lo stesso.
Questa è la pianta che, nel ciel creata*?^
L' aureo pomo fatai lassù produsse
Ch'Ilio in faville fé cader: con questo
L' ardito Aconzio e Ippómene già fero
(Che non insegni, Amor?) alle lor crude
462 LÀ FEROmADE
Belle nemiche il fortunato inganno.
E fìi per questa che ad immane drago
Die negli orti a vegliar d'Esperetusa
n sospettoso mauritano Atlante,
Finché di là la svelse il forte Alcide,
Spento il fero custode , e peregrino *^
Seco r addusse nell^ ausonio lito,
Quando di Spagna vincitor tornando *9^
Nel Tevere lavò l'armento ibero,
E fé sopra il ladron dell'Aventino
Delle tolte giovenche alta vendetta.
Poi com'egli d'Evandro abbandonate
Ebbe le mense e l'ospitai ricetto,
E a quel giogo pervenne, ove nascoso
Agl'Itali mostrò la prima vite ^
n ramingo dal ciel padre Saturno,
Ivi sul 4orso edificò del monte
Sezia, un'umil città, donde Setina^'
Fu nomata la rupe, e qui di Giove
L'errante figlio alla saturnia terra
Primiero maritò l'albor divino
Che tutti empiè di meraviglia i colli
E d'invidia le selve. Al primo spiro
Del suo celeste odor vinta temette
( E fu giusto il timor ) la sua fragranza
Di Preneste la rosa: al primo aspetto
Di quel candido fior vinte temette
Le sue vergini tinte il gelsomino.
A baciarlo lascive, a carezzarlo
D' ogni parte volar 1' aure tirrene ,
Desiose d'aver carchi del caro
Effluvio i vanni rugiadosi: corsero
A fregiarsene il crine e il cofano seno
D'Alba le Ninfe e di Laurento, e quelle
Del Vultumo arenoso e del Taburno.
Gorser da tutte le propinque rive
CANTO PRIMO 4^3
Gli Egipani protervi, e saltellando'*,
E via pittando ognun F ispido pino,
Di questo ramo ghirlandar le fronti.
Lo volle il Dio d'Arcadia, e lo prepose^'
Àgli ebuli sanguigni ed ai corimbi^
E lo volle Silvan, dimenticate
Le ferule fiorenti e i suoi gran gigli.
Venne anch'essa del Sol Circe la figlia'^,
E di sua mano un ramoscel spiccando
Della scesa dal ciel pianta diletta,
In grembo al sacro suo terreno il pose.
Così crebbe il divin bosco odorato.
Che di soave olezzo intomo tutte
Della maga spargea le rilucenti
Tremende case, ov'eUa ognor cantando,
E con r arguto pettine le tele
Percorrendo, facea dolce da lungi
E periglioso ai naviganti invito,
Mentre pel bujo della tarda notte
Lamentarsi e ruggir s'udian leoni
Disdegnosi di sbarre e di catene.
Urlar lupi, e grugnire ed adirarsi
Nelle stalle cinghiali ed orsi orrendi.
Che fur nomini in prima, e della cruda
Incantatrice sventurati amanti.
Queste ed altre infinite eran le piante,
E Ferbe e i fiori che godea l'attenta
Di Feronia educar mano pudica^
Di tutti quanti i fiori ella il più bello.
Ma sotto vago aspetto alma chiudendo
Superbetta, d'amor tutte parole
La ritrosa fanciulla ebbe in dispregio.
Né la vinse il pregar di madri afilitte.
Che la chiedeano in nuora, e per la schiva
Vedean languire i giovinetti figli;
Né mai lusinghe la piegar di quanti
464 L^ FERORUDE
Dèi le latine ad abitar contrade
Dai pelasghi confini eran venuti ^^^
Gh^ ella a tutti s^ invola, e non si cura
Conoscere d^atnor Falma dolcezza.
Ma di Giove non seppe un^ amorosa
Frode fuggir. La vide, e da^ begli occhi
Trafitto il Nume, la sembianza assunse^
D^ un imberbe fanciullo , e si deluse
L^ incauta Ninfa , e la si strinsi al seno
Con divino imeneo. U ombra d^un^elce^?
Del Dio protesse il dolce furto, e lieta
Sotto i lor fianchi germogliò la terra
La violetta, il croco ed il giacinto.
Ed abbondanti tenerelle erbette.
Che il talamo fornirò^ e le segrete
Opre d^ amore una profonda e sacra
Caligine coprio^ ma di baleni ^^
Arse il ciel consapevole, ed i lunghi
Ululati iterar su la suprema
Vetta del monte le presaghe Ninfe.
Questi fur delle nozze inauspicate
I cantici, le faci, i testimoni^
Questo alla nuova del Tonante sposa
De^suoi mali il principio, e noi conobbe
L^ infelice^ ma ben di Giove il vide
L^ eterno senno ^ né potendo il duro ^^
Fato stornar, nel suo segreto il chiuse^
E la doglia , che solo il cor sapea ,
Premendosi nel petto, a far più mite
n funesto avvenir volse il pensiero.
Primamente quel bosco e quella rupe
Sì gli piacque onorar, dove la Ninfa
Dell^ occulto amor suo gli fu cortese.
Che per loro obbliò Dodona ed Ida,
E men care di Creta ebbe le selve:
Tal che le genti la presenza alfine
CAUTO PRIMO . 4^^
Sentir del Nume, e V inchinar devote,
E Giove Imberbe V invocar sulP are^
Gh^egli loro così mise in pensiero
Per la memoria del felice inganno.
Qui del culto novel consorte el volle
La dolce amica sua^ qui degli Etemi
In aurea tazza il nettare le porse,
E la fece immortal. Poscia, tonando,
Del monte il fianco occidental percosse;
E una subita fonte cristallina^^
Scaturì mormorando , e dalla balza
Comandò che perenne ella scorresse,
E da Feronia si nomasse: ed oggi
Serba quel nome ed il ricordo ancora
DelP antico prodigio. AUor le volsche
Genti lor Diva l'adoraro, e lei*»
Antefora chiamaro e Filostefana,
E Persefone, e tutte a lei de^ campi
Fur sacre le primizie. Ad inchinarla
Sovrana e Diva i Numi adunque tutti
Gorser d^ Ausonia; che il voler tal era
Del supremo amator: e non pur quelli
A cui per valli e campi e per montagne
Fuman Pare latine, e di plebeo**
Rito van lieti, e di Minori han nome;
Ma mossero fi*equenti ad onorarla
DI cortese saluto anche i Maggiori.
Primo il padre Lieo, ch^indi non lungi *^
In un temuto e per antico orrore
Sacro delubro raccogliea benigno
Dal timor dc^mortali incensi e voti;
E la bionda inventrice era con lui**
Dell^ auree spiche e delle sante leggi.
Cerere, che solca le pometine
Spesso anteporre alle trinacrie messi.
Nò te d'Aricia il bosco, e il nemorensc '*^
466 Là FEROMIàDE
Lago trattenne, o vergine Diana ^
Che tu pur, del lunato argenteo carro
ÀI temo aggiunte le parrasie cerve,
Con gli altri Divi ad abbracciar venisti
La novella Immortale, e di te degna ^^
Fu Falta cortesia cbe ti condusse.
Gol favor di Feronia iva frattanto
Scorrendo i campi TAbbondanza, e, tutto
Versando il corno, ben compiuta e ricca
Fea deir avaro agricoltor la speme.
Ogni prato, ogni colle, ogni foresta
Di pastorali avene e di muggiti
E nitriti e belati alto risuona ^
E prigioniera dall^ opposte rupi
Le dolci querimonie Eco ripete.
Venti e quattro cittadi, onde T immensa ^7
Fertile valle si vedea cosparsa.
S'animar, s'abbellirò, e stretto in nodo
Di care parentele, in mezzo al sangue
De' torelli giurar dell' alleanza
Il sacramento^ e l'invocata Diva
Le dilesse, e su lor piovve la piena
Di tranquilla ricchezza. Incontanente
Crebbero i lari, crebbero le mura^
Di maestà, di forza e di rispetto
Le sante leggi si vestir ^ fur sacri
I reverendi magistrati^ sacra
La patria carità^ sacro l'amore
Della fatica e dell' industi'ia. Quindi
Tutte piene di strepito le vie,
E i teatri e le curie ^ e dappertutto
Un gemere di rote, un picchio assiduo
Di martelli e d' incudi , un suonar d' arme
Buone in pace ed in guerra, onde si crebbe
La feroce de'RutuIi potenza,
Che al pietoso Troian tanto fé poscia
CÀUTO PRIMO 4^7
Sotto il cimiero impallidir la fronte,
Quando gli disputar Camilla e Turno
Di Lavinia e d^Italia il gi*ande acquisto.
Eran le genti pometine adunque
Molte e forti e felici^ e manifesta
Di Feronia apparìa per ogni parte
La presenza, il favor, la possa e Popra,
Però da cento altari a lei salia
Delle vittime il fumo, e ne godea
Il Tonante amator, che stanco e carco
Delle cure del mondo, a serenarle
Scendea sovente ne^ segreti amplessi
Della diva fanciulla. Un aureo nembo
Li copriva; e oziosa al sole aprico
Col rostro della folgore ministro,
L^ aquila sacra si pulia le* piume;
Mentre sicure dal furor di Giove
Tacean d^Àto e di Rodope le rupi,
E avea Bronte riposo in Mongibello.
Erasi intanto la Saturnia Giuno
Fatta accorta del dolo, e i suoi grand^ occhi,
Che gelosia più grandi anche facea.
Non fallibili segni avean già scorto
Di nuova infedeltà. Raro il soggiorno
Del marito in Olimpo: alto il silenzio
Dei talami divini: inoltre mute
Della foresta dodonéa le querce,
Cheti i tuoni delPIda, e dissipato
Il denso fumo che facea palese
La presenza del Nume: onde, turbata
In suo sospetto, alle nevose cime
Dell^ Olimpo salita, in giù rivolse
L^ attento sguardo, e ricercò P infido
Sul mar sidonio, sul nonacrio giogo,
Suirismen, sull^Asopo, ove sovente
Delle vaghe mortali amor lo prese.
468 LÀ FBRORIÀDE
Indi in Ausonia declinando i lumi,
D^Ansuro nereggiar sul balzo vide
Tale un nugolo denso, che per vento
Non si movea dL loco, ancorcliè tutta
Fosse in moto la selva. A cotal vista
Le si ristrinse il cor^ le corse un gelo
Per le membra immortali , e si fér truci
I neri sopraccigli. Immantinente
Iri a sé cbiama, e: Prestami, le dice,
Su via prestami, o fida, il tuo piovoso
Arco d^ oro e di luce. E sì dicendo.
Né risposta aspettando, entro si chiude
AUaumanzj vapori, e taciturna
Su le rupi setine si precipita.
Tocca pur anco non avea la terra
GoMeggieri vestigi, che levarsi
U invisibile Dea P aquila vide,
L^ aquila testlmon del Dio marito ;
E sotto r ombra delle grandi penne
Furtiva e cheta camminar la nube,
E tra le piante dileguarsi. A lei
Dovunque passa riverenti e curvi
Dan loco i rami della selva ^ e Paure
Non osano di far rissa e bisbiglio.
Volse indi V occhio addietro, e, donde tolta
S^era la nube, in pie rizzarsi mira
Cosi bella una Ninfa, che alla stessa
Cornicciosa Giunon bella parca.
Sventurata beltà! LMra e il dispetto
Tu crescesti nel cor della gelosa.
Che spiccossi qual lampo e rabbuffata
Con questi accenti alla rivai fu sopra:
E qual ti prese insania ed arroganza,
Insolente mortai, che una cotanta
A me far osi ingiuria, e non mi temi?
Ravvisami, proterva^ io degli Dei
CANTO PBDfO 4^9
Son P etema reina, io la sorella,
10 la sposa di Giove. — Scolorossi,
Tremò, si sgomentò, non fé parola
La misera Feronia^ e siccome era
Scomposta i veli e le bende e le chiome,
Dell^ amplesso celeste accusatrici.
Mise in tutto furor la sua nemica^
La qual su lei di rinnovar bramosa
Di Callisto la pena, ad un vincastro^'
Die rabbiosa di piglio, e la percosse.
Attonito restò P occhio e la mano
Deir acerba Giunon, quando delP altra
Vide al colpo divino inviolata
Resistere la salma, e le primiere
Sembianze rimaner: to^o conobbe
Che di tempra immortai fatta Favea
L^ onnipossente Nume^ onde sdegnosa,
Che a vóto mira uscito il suo disegno,
E terribile e ria più che mai fosse :
Questo, disse, al mio scorno anco mancava.
Adultera impudente, che dovesse
Farlosi eterno! Sémele ed Alcmena
Eran poca vergogna alPonor mio,
E i due figli di Leda, e Ganimede,
Ch^ altra ancor ne s^aggiugne, e di malnati
Mi si fan piene le celesti mense.
Ma inulta non andrò, se Giuno io sono^
Né tu senza castigo. Via di qua.
Via di qua, svergognata! — E in questo dire
11 bianco braccio fieramente stese,
S^ aggrandì, si scurò, gli occhi mandaro
Due fiamme a guisa di baleni in mezzo
Di tenebrosa nube^ e la grand^ira.
Che il senno ancor degP Immortali invola,
Quasi obbhar di Diva e di reina
Le fé modi e costumi. E di rincontro
Mosti. Poemetti. 3o
4yO LA FERORIADE
Di Giove allor la dolorosa amante ^
Che di rimorso trema e di rispetto,
Con basso ciglio e con incerto piede
Lagrimando partissi. Ella per monti
E per vaUi e per fiumi si dilunga,
E sempre a tergo ha la tremenda Giuno,
Che con minacce e dure onte e rampogne
Stimola e incalza F infelice. Ahi! dunque
Era da tanto un amoroso errore?
E già varcate avea le veliteme
Pendici, e gli ardui sassi, ove costrusse ^9
Gora la sua città, Cora il fratello
Di Catillo e Tiburte^ e non lontano
Era di Cinzia il sacro lago e il bosco.
Ove a Stige ritolto, e della Ninfa
Egeria in cura, Ippolito traeva^®.
Cangiato in Virbio, la seconda vita.
Qui di Saturno V adirata figlia
Sostenne i passi, e in balze aspre e deserte
Qui lasciò la meschina, e, desiosa
Di vendetta maggior, die volta addietro.
Tra le priverne rupi e le setine
S^apre immane spelonca, a cui di sopra
Grava il dosso una negra orrida selva,
E per lo mezzo la rinfresca un rivo.
Che con grato rumor casca e zampilla
Dalle fesse pareti. Ha di sedili
In vivo marmo una corona intorno,
E tal dalle muscose erbe si spande
Una fragranza, che da lungi avvisa
Veramente di Dei stanza e ricetto.
Qui da tutta la volsca regione
Per cento cave sotterranee vie
Vengon sovente a visitarsi i fiumi.
Il freddo Ufente, il lamentoso Àstura^',
11 sonoro Ninfeo, che tra le sacre
CANTO PRIMO 47'
Sue danzanti isolette ad Ànfitrite
Rapido volve e cristallino il flutto^
E il superbo Àmasen, che le gran coma
Mai non si terge, e strepitoso e torbo
Empie di loto i campi e di paura.
E cent^ altri v^ accorrono di fama
Poveri e d^onda fiumicei seguaci ^
E cento Ninfe, che il cader degli astri
Conoscono e del sole e della luna
Le armoniche vicende, e sanno i venti
E le piogge predire e le procelle.
Colà bieca sbuffando sMncammina
La di vendetta sitibonda Dea:
Simile a nembo di gragnuole gravida,
Che bruno il ciel viaggia, e orrendo stendesi
Su la bionda vallea, quando le Plejadi,
Che d^ Orion la spada incalza e stimola ,
Negli atlantici flutti si sommergono,
E tutto ferve per burrasca il pelago.
Tal terribile in vista ella s^ avanza^
E giunta al mezzo dello speco, in atto
Di maestà, di cruccio e di preghiera.
Fa dal labbro volar queste parole :
Fiumi, a cui delle volsche acque P impero
Die degli uomini il padre e degli Dei,
E voi le correggete, e a vostro senno
Le mandate a nudrir Fonda tirrena.
Una vii mia nemica, una spregiata
Di boschi abitatrice il cor mi tolse
Del mio consorte^ e non è tutto. A lei,
A costei V immortai vita è concessa ,
Privilegio avvilito, e Dea F adora
La bagnata da voi terra pontina.
Vendicate P offesa^ e s'^io dalFetra
Vi dispenso le pioggie, ite, abbattete,
Distruggete, spegnete. Altaici e templi
47 2 LÀ FBRORIADE
E città rovesciate: io le vi dono^
£ saran vostro regno ^ orma non resti
Deir abborrito culto, e raddolcisca
La mia giust^ira di Feronia il pianto. —
Disse; e per tatti a lei tosto PUfente
Diserto e chiaro parlator rispose :
A te r esaminar conviensi, o Diva,
Il tao desire, e F adempirlo a noi.
Delle piove e de^ nembi genitrice
Tu ne riempi l'urne, tu ne fai
Giove propizio, e ne concedi a mensa
Su r Olimpo seder con gli altri Eterni.
Ciò detto, frettolosi e furiosi
Si dileguar per la caverna i fiumi,
Chi qua, chi là ciascuno alla sua sede;
E partendo ne fér tale uii tumulto,
Tale un fracasso, che tremonne il monte.
14' udirono il fragor le pometine
Valli da lungi , e ne mandar muggiti ,
Di ruina presaghe; e palpitanti
Strinser le madri i pargoletti al seno.
Mentre corrono quelli il rio precetto
À compir della Diva, e ai duri sassi
Aguzzano per via le corna e l'ira,
Levossi Giuno in aria, e spiegò il manto ^
In cui ravvolge le tempeste e i nembi,
E subito gonfiar le bocche i venti,
E le nubi aggruppar, che cielo e luce
Ai mortali rapirò, e si fé notte.
Orrenda notte dal guizzar de' lampi
Rotta al fero de' tuoni fragor cupo.
Carco d'atre caligini la fronte.
Vola l'umido Noto, ed afferrate^*
Con le gran palme le pendenti nubi,
Le squarcia risonante, e tenebrosa
Sgorga la piova: il rotto aere ne rugge;
CANTO PRIMO 4? 3
E il suol ne geme e le battute selve.
Scende un mar dalle rupi. Allora i fiumi
Versano l'urne abbeverate e colme,
E quattro di maggior superbia e lena
Da quattro parti sul soggetto piano,
Svelte, atterrate le tremanti ripe,
Con furor si devolvono. Spumosa
E fi*agorosa la terribil piena
Le capanne divora e i pingui cólti,
E gli armenti e i pastori. E già le mura
Delle cittadi assalta e le percote,
Di cadaveri ingombra e della fatta
Strage ne^ campi: già delle bastile
Crollano i fianchi: già sfasciati piombano,
E dau la porta all^ inimico flutto.
S'alza allora un compianto, un ululato
Di vergini, di vegli e di fanciulli:
Corrono ai templi-, ed invocar Feronia,
E Feronia gridar odi piangenti
Le smorte turbe; e non le udia la Diva;
Che maggior Diva il vieta. Essa, la fiera
Moglie di Giove, di sua man riversa
Dell'esule nemica i simulacri.
Ne sovverte gli altari; e la soccorre
Ministra al suo furor l'onda crudele
Che tutte attorno le cittadi inghiotte.
Tre ne leva sul corno infuriando
Il veloce Ninfèo che lutulenti
Spinse quel di la prima volta i flutti,
L'umil Trapunzio e Longula e Polusca'^^:
Tre la ferocia del possente Astura,
L' opima Mucamite, e l'alta Ulubra,
E la vetusta Satrico, a cui nulla
Il nume valse della dia Matuta.
E per te cadde, strepitoso Ufeute,
Pomezia, la più ricca e la più bella ^^«
474 L^ FBRONIÀDE
Pianse il giogo circéó la sua caduta,
E la pianser le Ninfe, a cui commessa
De^suoi vaghi giardini era la cura.
U tremendo Àmaseno avea frattanto
Sotto i vortici suoi sepolti intomo
I Barbarici campi, e fatto un lago^^
Della misera Àusona, e Palte mura
D^Aurunca percotea, la più guerriera
Delle volschc cittadi, e la più antica.
Oltre gli anni di Dardano e Pelasgo
La sua fama ascendeva, e degli Àuiiinci
Venerevoli padri alto suonava
E glorioso fra le genti il grido.
L^avea quel fier divelta e conquassata
Dai fondamenti. Alle vicine rupi
Traggonsi in salvo gli abitanti j e il fiume
Li persegue mugghiando, e ne raggiunge
Altri al tallone, e li travolve; ed altri,
Che più pronti afferrar già la montagna,
Con r immenso suo spruzzo li flagella,
E di paura li fa bianchi in viso.
Ben mille ne contorse entro i suoi gorghi
Queir orribile Dio; ma di due soli,
Timbro e Larina, il miserando fato
Non tacerò, se a tanto il cor resile,
E pietoso il pensier non mi rifugge.
Amavansi cosi quegP infelici ,
Ch^ altro mai tale non fu visto amore,
E d^ Imeneo già pronte eran le tede,
E consentian giojosi al casto affetto
I genitori. Ahi brevi e false in terra
Le speranze e le gioje! In riva al mare^^.
Cui d^Anzio regge la Fortuna , avea
Pochi di prima air afrodisia madre
Porti i suoi voti il giovinetto amante ,
E abbracciato F aitar. Letta ttel Fato
CANTO PRIMO 47^
Del misero la sorte avea la Diva ^
E della Diva il santo simulacro
Tremo, e sudante (maraviglia a dirsi!)
Torse altrove il bel capo, e non sostenne
Tanta pietà. Ma ben di Giuno il crudo
Cor la sostenne^ e la virtude umana
Abbandonata si velò la fronte.
Nella comun sventura erasi Timbro,
Dopo molti in cercar la sua fedele
Scorsi perigli, P ultimo su Perta
Spinto in sicuro j e fra i dolenti amici
Di Larina inchiedea^ Larina intomo,
Larina iva chiamando, e forsennato
Con le man tese e co^ stillanti crini
Per la balza scorrea; quando spumosa
L'onda, cbe n'ebbe una pietà crudele,
La morta salma gliene spinse al piede.
Ahi vista! ahi, Timbro, che facesti allora?
La raccolse quel misero, ed in braccio
La si recò^ uè pianse ei già, che tanto
Non permise il dolor, ma freddo e muto
Pendè gran pezza sul funesto incarco.
Poi mise un grido doloroso e disse:
Così mi tomi 7 e son . questi gli amplessi
Che mi dovevi ? e questi i baci 7 e eh' io ,
Ch'io sopravviva?... E non segui ^ ma stette
Sovr'essa immoto con le luci alquanto^
Poi sulP estinta abbandonossi , e i volti
E le labbra confìise, e cosi stretto
Si versò disperato entro dell'onda,
Che li ravvolse, e sovra lor si chiuse.
CANTO SECONDO
Già tutto di Feronia era il bel regno
In orrenda converso atra palude.
Che pelago parea^ se non che rara
Dell^ ardue torri e delF aeree querce,
Non vinte ancor, V interrompéa la cima.
E già su le placate onde leggieri
Spiravano i Favon), e in curvi solchi
Arandole frangean sovra le molli
Crespe delP acque la saltante luce:
Quando di Circe la scoscesa balza
L^ aspra Giuno salì. L^ occhio rivolse
Alla vasta laguna, e, tutta intorno
La misurando con superbo sguardo,
Sorrise acerba su la sua vendetta.
Ma vista su la rupe in lontananza
Dair incremento delle spume nitrici
Pur anco intatta alzar la fronte alcuna'
Delle volsche città, che ree del culto
Dell^ abborrita sua rivai si fero,
Ed illeso agitar F argute frondi
Non lungi il bosco di Feronia, il bosco
Che prestò F ombra ai mal concessi amori,
Risorger si senti Pire nel petto
Già moribonde; e poi che v^ebbe alquanto
Fisso il torbido sguardo, in cor si disse:
Io desìster dall^opra, e del mio scorno'
Patir che resti un monumento ancora?
LÀ FERONIIDE^ CÀUTO SECONDO 477
Già non fui sì pietosa Inverso Egina^,
E la stirpe di Cadmo abbominata;
Che per quella mandai carca di fiera
Peste la morte su Fenopia terra ^
E sostenni per questa entro le case
Scendere io stessa dell^ eterno pianto ,
E di là contra d^Atamante e d^Ino
Tisifone invocar. Quei due superbi
Co^ sonori serpenti ella percosse,
E allor nel figlio dispietate e crude
Fur le mani paterne, e de^suoi vanti
Ino furente mi scontò Pofiesa.
E pur avola a Bacco era colei,
E a Venere nipote^ e non m^avea,
Come questa malnata itala druda,
Tolti i miei dritti, e del maggior de' Numi
Aspirato alle nozze. Oh mia vergognai
Potè Gradivo la feroce schiatta^
Sterminar de'Lapiti: aver da Giove
Potè Diana al suo disdegno in preda
I Calidonj: e meritò poi tanto
De'Calidon la colpa e de'Lapiti?
Ed io, progenie di Saturno, ed alta^
De' Celesti reina, a mezzo corso
Ratterrò gli odj e Pire, e dovrò tutte
Non consumarle? Oh mei contrasta il Fato^^
E una fama pur or s'è sparsa in cielo.
Che al volgere de' lustri il senno e l'opra 7
D'Italici Potenti al mio furore
E all'impero dell'onde questi campi
Ritoglierà. Ritolgali : men giusta
O men dolce uscirà forse per questo
La mia vendetta? Se cangiar non lice^
Delle Parche il decreto, e chi ne vieta
L'indugiarlo, e tentar nuove ruine?
Del tuo delitto dolorose e care
478 LÀ FBBORUDE
Le pene pagherai, niafa superba:
Anche il Lazio s^avrà la sua Latona.
Non selva lascerò, non antro alcuno
Che ti riceva^ scuoterò le rupi^
Crollerò le città dal tuo vii nume
Contaminate, e ne farò di tutte
Genere e polve, che disperda il vento. —
Nel turbato pensier seco volgendo ^
Queste cose la Dea , giunse d' un volo
Ifeir eolie spelonche, orrendo albergo
Degli adusti Ciclopi e di Vulcano.
Stava (juesto delFarti arbitro sommo
Intento a fabbricar per la pudica '**
Nemorense Dìfana un d^oro e bronzo
Gran piedestallo, su cui Palma effigie
Collocar della Diva. E su le quattro
Fronti v'avea F artefice divino
D'ammirando lavoro impresse e sculte
Di quell'almo paese avventurato
Le trascorse memorie e le future".
Era a vedersi da una parte il lago
Tutto d'argento. Tremolar diresti
L' onde e rotte spumar dai bianchi petti
Delle caste Amnisidi, a cui venute ^^
Già son meo care le gargafie fonti,
E d' Eurota le sponde. In su la riva
Della sacra laguna abbandonati
Giaccion gli archi e le frecce, onde famosi
Suonar di caccia fragorosa un giorno
Del Tài'geto e d'Erimanto i boschi*'.
Ed or la nemorense ne rimbomba
E la selva aricina. Indi non lunge '^
Stassi il carro lunato, e per la rupe
Sciolte dal giogo le parrasie cerve
Erran pascendo il tenero trifoglio.
Gradita erbetta, che gradir suol anco
CANTO SBCOHBO 479
Ài destrieri di Giove, ed alle caste
Di Minerva cavalle polverose.
Alto a rimpetto, fira pudiclii allori ,
Di Trivia il tempio signoreggia, ed essa
La placabile Diva in su la soglia '^
Del grande Àtride ad incontrar vien oltre
I pellegrini figli, Ifigenia
Sacerdotessa ed il fratello Oreste,
Pietoso Oreste e scellerato insieme*®,
Che per molti del mare e della terra
Duri perigli salvo le recavano
II fatai simulacro insanguinato
Dalle tauriche sponde alle tirrene.
In altro lato avea F Ignipotente '?
Sculti i novelli sagrifici e Pare
Di Diana cruente^ e i lagrimosi
Aiti latini, e un contro T altro armati
Di barbaro coltello i sacerdoti.
Mirasi altrove il miserando caso'^
Del figliuol di Teseo. Gonfiata ed aspra
Spandeasi d^oro con argentee spume
La corinzia marina , a cui dal mezzo *'
Uscia sbuffando una cerulea foca.
E per orride balze ecco fuggire
Gli atterriti cavalli, ecco sul lido
Rovesciato dal carro e lacerato
LMnnocente garzon. Dintorno al casto
Esangue corpo si batteano il petto**
Di Trezene le vergini^ e chiamando
Grudel Ciprigna, e più crudel Nettuno,
Più ch^ altre in pianto si struggea Diana.
Ài pregar delPaflUtta indi segm'a
D^Esculapio il prodigio e P ardimento,
Che, violato delle Parche il dritto.
Col poter della muta arte patema
Toma il pudico giovinetto in vita^
48o LA PSnONIADE
Cui redivivo, e in densa nube avvolto^
Con mutati sembianti alFaricine
Selve poi reca la deliaca Diva,
E , palpitando, alla segreta cura
Il commette d^ Egeria, inclita Ninfa
Delle leggi romane inspiratrice.
S^ apria di nero cì'anéo scolpita
Nel fianco della rupe una spelonca "
Sacra di Pindo alle fanciulle, e cara
Più che r antro cirréo. Le sèrpe intomo
Con tortuoso piede una vivace
Edera d^oro, ed un ruscello in mezzo
Di purissimo elettro. Ivi furtivo
D^ Egeria ai santi fortunati amplessi
(Che di tanto fu degno) il successore
Di Romolo traeva. Ivi le scese
Leggi dal cielo ricevea sul labbro
Della diva consorte, e ai mansueti
Genj di pace traducea le genti
Gol favor delle Muse , e di quel grande
Spirto divin che del trojano Euforbo •■
Pria la spoglia animò, poscia, migrando
Di corpo in corpo, la famosa salma
Del samio saggio ad informar pervenne,
E di Crotone empieo le mute scuole
Del saper delPAssiria e dell^ Egitto,
y^era una balza dalF opposta fronte,
Che al bel lago sovrasta, orrendo nido
Di crude belve un tempo e di colubri.
Ed or vasta , ridente , aprica scena *^
Di lieti ulivi. Tra le verdi file
De^ cecropj arboscelli alteramente
Minerva procedea, che del novello
Conquistato terren prendea diletto,
E con r alta virtù , che dagli sguardi
E dalPalma presenza esce de^Numi,
CANTO SECONDO 4^1
Liete faeea le piante, e delle pingui
Bacche oleose nereggianti i rami.
L^ accompagnava maestoso e bello
ÀUa manca un Signor d^alta fortuna*^,
Che con raro consiglio ed ardimento
Deir antico orror suo già spoglia avea
LMndocile montagna, e le ritrose
Alpestri glebe all^ ostinata cura
Del pio cultore ad obbedir costrette.
Mentre all^ombra d^un^elce, e alPozio in seno*',
Che il suo Signor gli ha fatto^ anzi il suo Dio,
Un poeta non vii P aspre vicende
Di Feronia cantava, e per sentiero
Non calcato traea Pitale Muse.
Àll^ ultimo con raro magistero
L' indomito Vulcan v'avea scolpita
Una dolente giovinetta madre •*
Che, con ambe le mani al crin facendo
Dispetto ed onta, su la fredda spoglia
Di tre figli piangea tolti alla poppa.
Taciturna e dimessa il padre Tebro
Yolgea qui Fonda: su la mesta riva
Ploravano le Ninfe, e al Vaticano
Una nube di duol coprìa la fronte,
Lagrime tante alfin, tanti sospiri
Faceano forza al ciel, finché la santa
Madre d^Àmore a consolar la donna
Dal terzo cerchio le piovea nel grembo
De' fecondi suoi raggi il quarto frutto.
Siccome vaga tremula farfalla
Scendea quelFalma, e nel materno seno
L'avventurosa si venia vestendo
Di sì lucido vel, ch'altro non fece
Mai più bell'ombra a più leggiadro spirto.
Al felice natal presenti avea
Sculte il fabbro le Grazie, inclite Dive,
48a LI FBEONIÀDB
Senza il cui nume nulla cosa è belku
V^era Lucina, a cui fur date in cura
Della vita le porte ^ eravi Giuno
Dei talami custode^ e di Latona
L^alma figlia pur v^era, a cui dolenti
S^odon nel parto sospirar le spose ^
E in disparte firaittanto un aureo stame
Al fatai fuso ravvolgean le Parche.
Delle rugose antiche Dee son tutte
Di pallid'oro le tremende facce,
E d^ argento le chiome e i vestimenti.
Del narciso d^Àvemo incoronate*?
Van le rigide fronti, e un cotal misto
Mandan di riverenza e di paura,
Che r occhio ne stupisce , e il cor ne trema.
Dell^industre Vulcan Popra tal era.
Mirabile, immortale. Affumicato
E in gran faccenda T indefesso Iddio
Di qua di là scorrea per la fucina.
Visitando i lavori, e rampognando
I neghittosi: con le larghe pale
Altri il carbon nelle fornaci infonde
Scintillanti e ruggenti: altri, con roize
Cantilene molcendo la £attica.
Dà il fiato e il toglie ai mantici ventosi ** y
Che trenta ve n^ avea di ventre enormi :
Qual su Fincude le roventi masse
Del metallo castiga*, e qual le tuffa
Nella firedda onda, che gorgoglia e stride.
Rimbomba la caverna, e dalle fironti
Di quei fieri garzoni in larga riga
Va il sudor per le gote e le mascelle
Sui gran petti pelosi. In questo mezzo
S'appresentò la veneranda Giuho
Nella negra spelonca, e parve il fulgido
Volto dei Sole che fi*a dense nubi
CANTO SECOnDO 4^3
Improvviso si mostra. E Bronte, il primo *9
Che la vide venir, die segno agli altri
Di sostarsi e cessar per lo rispetto
Della moglie di Giove. Udi Vulcano
Della madre P arrivo, e frettoloso,
Fra tanaglie e martelli e sgominate
Di metalli cataste zoppicando ,
Le corse incontro: e presala per mano,
Di fuliggine tutta le ne tinse
La bianca neve. Prestamente quindi
Le trasse innanzi un elegante seggio.
Che d^oro avea le sponde, e lo sgabello
Di liscio cassitéro ^^, ove la Diva
Posò r eburnee piante^ e, cosi stando,
Di sua venuta le cagioni espose.
E primamente lamentossi a lungo
Deir adultero Giove, alle cui voglie ^'
Poco essendo la Grecia, ancor ripiena
De^ suoi muggiti e de^ suoi nembi d^ oro ,
E per tante or di cigno, or di serpente,
E di zampe caprigne, ed altre vili
Frodi d^ amor contaminata e guasta.
Or ne venia d^ Italia anco le belle
Spiagge a bruttar de^suoi lascivi ardori,
Della moglie dimentico e del cielo.
E qui fé conta del fanciullo imberbe
La mentita sembianza, e i conceduti
Di Feronia complessi, e come assunta
ÀI concilio de^Numi era la druda ^
E segui, che per questo ella d^ Olimpo
Lasciato avea le mense, e le cortine
DeUalami celesti, e che desio
Sol di vendetta la traea de^Volsci
Vagabonda sul lido, ove già rotti
I primi sdegni avea, con alta mole
D^ acque coprendo le pomezie valli
484 Li^ FERONIADE
E le cittadi alla rivai devote^
Ma non tutte peró^ che salva alcuna
N^avean dall^ onde le montagne intomo.
Quindi ben paga non andar, se tutto
Non abbatte, non guasta, non diserta
L^abborrito paese. Or prendi, o figlio,
Deir eterno tuo foco una favilla^
Sveglia i tremuoti, che. oziosi e pigri
Dormon nel fianco di quei monti: orrendo
Apri un Iago di fiamme, ardi le rupi,
Struggi i campi e le selve ^ e pia non chieggo.
Intento della madre alle parole
Stava Vulcano, ad una lunga mazza ^*
Il cubito appoggiato^ e poi che Giuno
Al ragionar die fine, in questi accenti,
Su le piante mal fermo, egli rispose:
Ben io t' escuso, o madre, se di tanta
Ira t^ accendi^ che d^ amor tradito
Somma è la rabbia: ed io mei so per prova,
Io misero e deforme, e ancor più stolto,
Che bramai d^ una Diva esser marito ^^ ,
Bella, è ver, ma impudica e senza fede.
Pur ti conforta^ che per te son io
A tutjto fai' disposto. Io sotto i muri
Lagrimosi di Troja a tua preghiera
Già col Xanto pugnai, quando spumoso ^
Copertici ei respinse il divo Achille,
Che di sangue trojan gonfio lo fea^
E i salci gli avvampai, gli olmi, i ciperi
E V alghe e le mirici in larga copia
Cresciute intorno alla sua verde ripa.
Or pensa se vorrò nou adempire.
Di Giove in onta, il tuo desir, di Giove
Mio nemico del par che tuo tiranno.
Ti rammenta quel dì che fra voi surta '^
Su r Olimpo contesa, avventurarmi
CANTO SECOIIDO ^65
In tuo soccorso io volli. Egli d^an piede
ATafTerrò furibondo , e fuor del cielo
Arrandellommi per F immenso vóto.
Intero un giorno rovinai col capo
In giù travolto, e. con rapide rote
Vertiginose. Semivivo alfine
In Lenno caddi col cader del sole^
E chi sa quante in quell^ alpestre balza
Lunghe e dure m^ avrei doglie sofferte,
Se Eurinome, la bella Oceanina,
E Palma Teti doloroso e rotto
Non m^ acGOgliean pietose in cavo speco ,
A cui spumante intomo ed infinita
D^Oceàn la corrente mormorava.
Ivi per tema del crudel mi vissi
Quasi due lustri sconosciuto e oscuro
Fabbro d^armille e di fermagli e d^ altre
Opre al mio senno inferiori e vili.
Or i tuoi torti, o madre, io lo prometto,
E in uno i miei vendicherò: poi venga,
Se il vuol, qua dentro a spaventarmi questo
Seduttor di fanciulle onnipossente,
Ingiusto padre ed infedel marito:
Vedrem che vaglia del suo carro il tuono
Senza il fulmine mio, senza Paita
Del mio martello. — In cosi dir P irato
Dio sulla mazza con la man battea^
Poi gittolla in disparte, e corse ad una
Delle fornaci. AlP infocate brage
Appressò le tanaglie: una ne trasse
D^ inestinguibil tempra, e in cavo rame
LMmprigionò. Di cotal peste carchi,
Della spelonca uscir Vulcano e Giuno^
Quai fameliche belve che^ di notte
Lascian la taiiia^ e taciturne e crude
Van nell'ovile a insanguinar P artiglio.
MoMTi. Poemetti, 3i
486 LI FKRONIiDB
Della squallida grotta in su V uscita ^^
Di rugiadose stille allor raccolte
Dalle rose di Pesto Iri cosperse
La sua reina, e con ambrosia il divo
Corpo lavando, ne deterse il fumo
Ed ogni tristo odor. DagV immortali
Capelli della Dea quante sul suolo
Caddero gocce del licor celeste,
Tante nacquer viole ed asfodilli.
Mosse, ciò fatto, la tremenda coppia
Circondata di nembi ^ e come lampo
Che solca il sen della materna nube
Con si rapido voi, che la pupilla
Per quella riga a seguitarlo è tarda,
Tal di Giuno e Vulcano è la prestezza:
Su la vetta cal^ precipitosi
Delle rupi setine, onde la faccia
Scoprìasi tutta del sommerso piano.
Guarda (disse Giunon), riguarda, o figlio,
Di mia vendetta le primizie. — E in questo
Gli mostrava T orribile palude
Da freschi venti combattuta e crespa.
Mentre i raggi del Sol vólti alP occaso
Scorrean vermigli su P incerto flutto^
Del Sole, che parea dalP empia vista*
Fuggir pietoso, e dietro ai colli albani
Pallida e mesta raccogliea la luce.
Già morìa su le cose ogni colore,
E terra e ciel tacca, fuor che del mare
L^ incessante muggito^ allor che pronto
n fatai vase scoperchiò Vulcano,
E air aiu-a scintillar la rubiconda
Bragia ne fece. Ne sentirò il puzzo
I sotterranei zolfi e le piriti
E gli asfalti oleosi, e dal segreto
Amor sospinti, che tra loro i corpi
GlllTO SBCONDO 4^7
Lega e run T altro a desiar costrigne,
Ne concepir meraviglioso affetto,
E di salso umidor pasciuti e pingui
Si fermentaro, ed esalar di sopra
Improvvisa mefite. E pria le nari
Ne fìir de' bruti e desolanti offese,
Che tosto piene le contrade e i campi
Fér di lunghi stridori e di lamenti.
M' ulularono i boschi e le caverne ,
E tutti intomo paurosi i fonti
N'ebber senso d'orror. Corrotte allora ^7
La prima, volta le caronie linfe
Mandar T alito rio, che tetro ancora
Spira, e infamato avvicinar non lascia
Né greggia né pastor. L'almo ruscello
Di Feronia turbossi, e amare e sozze
Dalla pietra natia spinse le polle
Sì dolci in prima e cristalline. E Àlcone ,
Pastor canuto, che v'avea sul margo
n suo rustico tetto ^ a sé chiamando
Su l'uscio i figli, e il mar, le selve, il cielo
Esaminando, e palpitando: Oh! (disse)
Noi miseri, che fia? Mirate in quale
Fier silenzio sepolta é la natura!
Non stormisce virgulto, aura non muove.
Che un crin sollevi della fironte: il rivo,
n sacro rivo di Feronia anch'esso
Ve' come sgorga lutulento, e fugge
Con insolito pianto, e là Melampo,
Che in mezzo del cortil mette pietosi
Ululati, e da noi par che rifugga,
E a sé ne chiami. Ah chi sa quai sventure
L'amor suo n'ammonisce e la sua fede!
Poniamo, o figli, le ginocchia a terra ^
Supplichiamo agli Dei, che certo in ira
Son co' mortali. — Àvea ciò detto appena,
488 - LA FERONIII»
Che tingersi mirò Parìa in sangaigno,
E cupo un rombo propagossi. Il rombo
Venia dall' opra di Vulcan^ che ratto
La montagna esplorando, ove più vivo
Con lo spesso odorar sentia V eiBuvio
De' commossi bitumi, entro un immane
Fendimento di rupi era disceso,
Bujo baratro immenso, a cui di zolfi
Ferve in mezzo e d'asfalti un bulicame
Che in cento rivi si dirama, e tutte
Per segreti cunicoli e sentieri
Pasce le membra degP imposti monti.
In questa di tremuoti atra officina
Lasciò cader Mulcibero l'ardente
Irritato carbone. In un baleno
Fiammeggio la vorago, e scoppi e tuoni
E turbini di fumo e di faville
Avvolser tutto l'incombusto Dio.
Più veloce dell'ali del pensiero
Per le sulfuree vie corse la fiamma
Licenziosa, ed abbracciò le immense
Ossa de' monti, e delle valli i fianchi,
E d'Ànfitrite i gorghi. Àllor dal fondo
Senza vento sospinti in gran tempesta
Saltano i flutti: ondeggiano le rupi,
E scuotono dal dosso le castella
E le svelte cittadi. Addolorata
Geme la terra, che snodar si sente
Le viscere, e distrar le sue gran braccia,
E tu, padre di miUe incliti fiumi,
E di due mari nutritor, crollasti,
O nimboso Appennin, l'alte tue cime;
E spezzata temesti la catena
Che i tuoi gioghi all'estreme Alpi congiugne;
Siccome il di, che col tridente etemo
Percotendo i tuoi fianchi il re Nettuno,
A tutta forza dall'esperio lido ^*
CANTO SECONDO 4^9.
n siculo divise, e ìq mezzo all' onde
Procida spinse ed Ischia e Pitecusa.
Plato istesso balzò, forte atterrito ''s,
Dal suo lurido trono, e visti intorno
Crollar di Dite i muri e le colonne
(Che dritto a piombo su Pinfema volta
n tremoto ruggia), levò lo sguardo,
E violato dalla luce il regno
De' morti paventò. Stupore aggiunse
L'improvviso nitrito e calpestio
De' suoi neri cavalli, che, le regie
Stalle intronando, inferocian da strano
Terror percossi, e le morate giubbe
E le briglie scuotean, foco sbuffando
Dalle larghe narici^ infin che desta
A quel romor Proserpina, la bella
D'Avemo imperatrice (che sovente
Prendea diletto con le rosee dita
Porger loro di Stige il saporoso
Melagrano divino ), ad acchetarli
Corse, e per nome li chiamò, palpando
Soavemente di que'feri il petto
Con le palme amorose. Uscito intanto
Era Vulcan dalla tremenda buca
Lieto dell'opra, e con piacer crudele
Contemplava la polve e il denso fumo
Delle svelte città. Giace Mugilla^*,
E la ricca di pampani e d'olivi
Petrosa Ecetra, e la turrita Artena,
E l' illustre per salda intatta fede
Erculea Norba, a cui di cento greggi
Biancheggiavano i colli. E tu cadesti,
Cora infelice, e nelle tue mine
Le ceneri perir sante del primo
Ausonio padre, uè poter giovarti
Di Dardano i Penati, né degli almi
Figli di Leda la propizia stella ,
490 ' Li FEK05IADC , ClffTO SECOHDO
Che air aprico tuo suol dolce ridea.
Voi sole a terra non andaste, o sacre
Ànsure mura^ che di Giove amica
Vi sostenne la destra, e la caduta
Non permise dell' ara, ove tremenda
Riposava la folgore divina.
Senti di voi pietade il Dio, di voi,
E non sentilla delle bianche chiome
D'ÀIcon, d'Àlcone il pijl giusto, il pijl pio
Deir Ausonia contrada. Umilemente
ÀI suol messo il ginocchio, il venerando
Veglio tenea levate al ciel le palme ^
E a canto in quel mcdesmo atto composti
Gli eran due figli in vista si pietosa,
Che fatto avria clementi anco le rupi.
Quando venne un tremor che violento
Crollò la casa pastorale, e tutta
In un subito, ahi! tutta ebbe sepolta
LMnnocente famiglia. Unico volle
La ria Parca lasciar Melampo in vita,
Raro di fede e d'amistade esempio.
Ei rimasto a plorar su la rovina,
Fra le macerie ricercando a lungo
Andò col fiuto il suo signor sepolto,
Immemore del cibo, e le notturne
Ombre rompendo d'ululati e pianti^
Finché quarto egli cadde, e non gV increbbe,
Più dal dolor che dal digiuno ucciso.
Fortunato Melampo! se qualcuna
Leggerà questi carmi alma cortese,
Spero io ben che n'andrà mesta e dolente
Sul tuo fin miserando. Il tuo bel nome
Ne' posteri sarà quello de' veltri
Più generosi^ e noi malvagia stirpe
Dell'audace Giapeto, a cui peggiori
I figli seguiran, noi dalle belve
La verace amicizia apprenderemo.
CANTO TERZO
All^ ardua cima del sereno Olimpo '
Risalia Giove intanto, e ad incontrarlo
Àccorrean presti e riverenti i Numi
Su le porte del cielo. In mezzo a tutti,
In due schierati taciturne file,
Maestoso egli passa, a quella guisa
Che suol, calando al pallido Occidente ,
Passar tra i verecondi astri minori
D^Iperìone il luminoso figlio,
Quando dall^ arsa eclittica 11 gran carro
Della luce ritira, e TOre ancelle ■
Sciolgono dal timon bianco di spuma
I fumanti cavalli. Ai sacri alberghi
Dell^ aurea reggia rispettosi i Divi ^
Accompagnar TOnnipotente ^ e giunti
Al grande limitar, per se medesme ^
Si spalancar sui cardini di bronzo
Le porte d^oro, che uno spirto move
Intrinseco e possente: e tale intomo
Nell^ aprirsi mandar cupo un ruggito,
Che tutto ne tremò Falto convesso.
Ivi in parte segreta, a cui nessuno
Non ardisce appressar degli altri Etemi
( Fuor che le meste e querule Preghiere,
Che libere pel ciel scorrono, e al Nume
Portano i voti degli oppressi e il pianto),
L'Egioco Padre in gran pensier s' assise
Sovra il balzo d^Olimpo il più sublime.
Contemplava di là giusto e pietoso
49^ ^^ FERONIÀDE
De^ mortali gli affanni e le fatiche :
Mirò d^Àusonia i campi , e la Pontina ^
Valle in orrendo pelago conversa;
Mirò per tutto (miserabil vista!)
Le sue tante cittadi^ altre sommerse^
Altre per forza di tremuoto svelte
Dalle ondeggianti rupi, e la catena*,
Donde pendon la terra e il mar sospesi ,
Scuotersi ancora, ed oscillar commossa
Dalla tremenda di Vulcan possanza.
Ciò tutto contemplando in suo segreto,
Non fu tardo a veder che tanto eccesso,
Tanta rovina sana poco all^ira
Della fiera consorte. In compagnia
Del potente de^ fuochi egli la vide
Verso la sacra selva incamminarsi.
Ove Feronia nel maggior suo tempio
Di vittime, d^ncensi e di ghirlande
Dalle genti latine avea tributo.
Di Giuno ei quindi antivedendo il nuovo
Scellerato disegno, a sé chiamato
Di Maja il figlio, esecutor veloce
De^suoi cenni, gli fé queste parole:
Nuove furie gelose, o mio fedele,
Hanno turbato alla mia sposa il petto j
E quai del suo rancor già sono usciti
Senza misura lagrimosi effetti.
Non t'è nascoso. Un simulacro avanza
Dell'esule Feronia, un tempio solo ^
Di tanti che già n' ebbe; e questo ancora
Vuole al suolo adeguar la furibonda.
Or che consiglio è il suo? Stolta, che tenta?
Se rispettar le nostre ire non sanno
Le sante cose in terra, e i monumenti
Dell'umana pietà, chi de' mortali
Sarà che più n' adori, e nella nostra
CiHTO TSEZO ^93
Divina qualità più ponga fede ?
Prendi adunque sol mar Tirreno il toIo^
T^appresenta a Giunon carco de^ miei
Forti comandi. Con le fiamme assalga,
Se tanto è il suo disdegno, anco la selva
(GVella a ciò si prepara, e consentire
Io le TO^pur quest^ ultima vendetta):
Ma se V empia oserà stender la destra
Alle sacre pareti, e violarne
n fatai simulacro^ alla superba
Tu superbo farai queste parole:
Fisso è nel mio volere (e per la stigia
Onda lo giuro ) che Pachea contrada
Lasciar debbano i Numi, e nelP opima
Itala terra stabilir più fermo.
Più temuto il lor seggio. Io le catene
Del mio padre Saturno ho già disciolte,
E P offesa obbb'ai, che mi costrinse 1
A sbandirlo dal ciel. L^ ospite suolo ,
Che ramingo P accolse e ascoso il tenne.
Sacro esser debbe, né aver dato asilo
Di Giove al genitor senza mercede.
Dopo il beato Olimpo, in avrenire
Sia dunque Italia degli Dei la stanza,
E di là parta un di quanto valore
DeUa mente e del braccio in pace e in guerra
Farà suggetto il mondo, e quanta insieme
Civiltà, sapienza e gentilezza
Renderanno P umana compagnia
Dalle belve divisa, e minor poco
Della divina. A secondar P eccelso
Proponimento mio già nello speco
Della rupe cuméa mugge d^Apollo *
La delfica cortina, ed esso il Dio 9,
Dimenticata la materna Delo,
Ai dipinti Agatirsi ama preporre
494 ^^ FBROIUADE
Del Soratte gli scalzi sacerdoti.
Già la sorella sua di Cinto i gioghi **
Lieta abbandona, e le gargafie fonti,
Del nemorense lago innamorata.
Alle sorti di Licia han tolto il grido "
Le prenestine, e di Laurento i boschi
Tacer già fanno le parlanti querce
Della Tinta Dodona. In su la spiaggia '*
D^Ànzio diletta Venere trasporta
D^Amatunta i canestri, e Bacco e Vesta,
E Cerere e Minerva, e il Re dell^onde
Son già Numi latini. E alle latine
D^ Elide Pare già posposi io stesso,
E sul Tarpéo recai dell^Ida i tuoni '^
E le procelle. Perocché maturo
Già s^ agita nelPuma il gran destino^
Che gloriosa dee fondar sul Tebro
La Reina del mondo. Al sol bisbiglio '^
Che di lei fanno i tripodi cumani.
Tutta trema la terra: e già s^ appressa
D^Anchise il pio figliuol, seco adducendo
D'Ilio i Penati, che faran nel Lazio
La vendetta di Troja, e spezzeranno '^
D^Agamennon lo scettro in Campidoglio*
Cotal de' Fati è il giro ^ e disviarlo
Tenta indamo Giunon : da Samo indamo *^
Porta alla sua Cartago il cocchio e V asta
E Pargolico scudo, armi che un giorno
Fian concedute con miglior fortuna
Di Dardano ai nepoti, allor che Giuno *?
Per quella stessa region, su cui
Tanta mole di flutti ora sospinse,
Placata scorrerà del Lazio i lidi.
Ivi su Para Sospita le genti'*
LMnvocheranno^ ed ella, il fianco adoma
Delle pelli caprine, e dentro il fumo
CANTO TBBZO 49^
De^ lanuTini sagrificii avvolta ,
Tutti a mensa accorrà d^Àusonia i Numi
Cortesemente, e porgerà di pace
A Feronia Pamplesso^ onde già fatte
Entrambe amiche, toccheran le tazze
Propinando a vicenda, e in larghi sorsi
L^ obbho beran delle passate cose.
Va dunque, e sì le parla. Il suo pensiero
Tolga in meglio P altera, e alle sue stanze
Rieda in Olimpo^ che Pandar vagando
Più lungamente in terra io le divieto.
E se niega obbedir, tu le rammenta '^
Le incudi un giorno al suo calcagno appese-,
E dille che la man che ve le avvinse,
Non ha perduta la possanza antica.
Disse ^ e Mercurio ad eseguir del padre *^
Il precetto s^ accinse. E pria V alato
Petaso al capo adatta, ed alle piante
I bei talari, ondaci vola sublime
' Su la terra e sul mare , e la rattezza .
Passa de^ venti. Impugna indi P avvinta
Verga di serpi, prezioso dono*'
Del fatidico Apollo il di che a lui
L^Argicida fratel cesse la lira:
Con questa verga , tutta d^ oro , in vita
Ei richiama le morte alme, ed a Pluto
Mena le vive, ed or sopore infonde
Nell^ umane pupille, ed or ne 1 toglie.
Si guemito, e con tal d^ali remeggio
Spiccasi a volo. Occhio mortai non puote
Seguitarne la foga^ in men che il lampo
Guizza e trapassa, egli è già sceso, e preme
II campano terreno, un dì nomato'*
Campo flegréo, famosa sepoltura
De' percossi Giganti. Intorno tutta
Manda globi di Aimo la pianura,
49^ LÀ FERONIÀDB
Ed Ogni globo dal gran petto esala
D'un fulminato. A fronte alza il Vesero
Brullo il colmigno ^ ed al suo pie la dolce ^
Lagrima di Lièo stillan le viti.
Lieve lieye radendo il folgorato
Terren di Maja il figlio ^ e la marina
Sorvolando j levossi alP erte cime
Della balza circéa, che di Feronia
Signoreggia la selva. Ivi fermossi,
Qual uom che tempo al suo disegno aspetta^
E di là dechinando il guardo attento
Ài piano che s'avvalla spazioso
Fra Pànsure dirupo ed il circéo,
E tutto copre di Feronia il bosco ^
A quella volta acceleranti il passo
Vide Giuno e Vulcano^ armati entrambi
D' orrende faci , ed anelanti a nuova
Nefanda offesa. All'appressar di quelle
Vampe nemiche un lungo mise e cupo
Geipito la foresta: augelli e fiere,
A cui Natura ) più che all' uom cortese,
Presentimento die quasi divino,
Da subito terror compresi, i dolci
Nidi e i covili abbandonar stridendo
E ululando smarriti, e senza legge
D'ogni parte fuggendo. I primi incendi
Eran già desti, e già di Giuno al cenno,
Già la sua fida messaggera e ancella
Verso Eolia battea preste le penne *^
Con prego ai venti di soffiar gagliardi
Dentro le fiamme, e promettendo pingui
In nome della Dea vittime e doni:
Come il di che d'Achille ai caldi voti^^,
Del morto amico gli avvampar la pira.
Già stendendo verna l'umida notte
Sul volto della terra il negro velo,
CANTO TERZO 497
E in grembo al suo pastor Cinsia dormia^
Quando i figli d'Àstréo con gran firacasso**
Dall^ eolie spelonche sprigionati
S' avventar su V incendio , e per la selva
Senza freno Io sparsero. La vampa
Esagitata rugge, e dalla quercia
Si devolve su Polmo e su Tabete;
Crepita il lauro ^ e le loquaci chiome
Stridono in capo al berecinzio pino,
À sfidar nato su gli equorei campi
D^ Africo e d'Euro i tempestosi assalti.
Già tutta la gran selva è un mar di foco
E di terribil luce, a cui la notte
Spavento accresce, e orribilmente splende
Per lungo tratto la circéa marina ^
Simigliante al Sigéo *7 ^ quando gli eletti
Guerrier di Grecia del cavallo usciti
In faville mandar d'Ilio le torri,
E atterrita la frigia onda si fea
Specchio al rogo di Troja^ miserando
Di tanti eroi sepolcro e di tant'ire.
All'orrendo spettacolo il feroce
Cor di Giuno esultava; e impaziente
Di vendicarsi al tutto (che suprema
Voluttà de' potenti ^ la vendetta),
Un divampante tizzo alto agitando
E furiando, vola al gran delubro.
Ch'unico avanza della sua nemica.
Ferma in cor d'atterrarlo, incenerirlo,
E spegnere con esso ogni vestigio
Dell' abbonito culto. Airmato ci pure
D'empia face , Vulcan seguia non tardo
La fiera madre; e già le sacre soglie
Calcano entrambi : dai commossi altari
Già fugge la Pietà, fugge smarrita **
La Fede avvolta nel suo bianco velot
49^ LA FERORIADE
Con vivo lenso di terrore anch'esso
Si commosse il tuo santo simulacro,
O misera Feronia, e un doloroso
Gemito mise (meraviglia a dirsi !),
Quasi accusando d' empictade il cielo*
Ma del figliuol di Maja, a ciò spedito.
Non fu tarda Taita in tanto estremo:
E come stella che alle notti estive
Precipite labendo il cielo fende
Di momentaneo solco, e va sì ratta,
Che rocchio appena nel passar F avvisa^
Non altrimenti il Dio stretto nell'^ali
Il sereno trascorse, e rilucente
Sul vestibolo sacro appresentossi.
All'improvvisa sua comparsa il passo
Stupefatti arrestar Vulcano e Giuno,
E si turbar vedendosi di fronte
Starsi ritto Mercurio, e imperioso
Contra il lor petto le temute serpi
Chinar dell'aurea verga, e cosi dire:
Fermati, o Diva^ portator son io
Di severa ambasciata. A te comanda
L' onnipossente tuo consorte e sire
Di gettar quelle faci, e inviolata
Quest'eflBgie lasciar e queste mura.
Riedi alle stanze dell'Olimpo, e tosto ^
Che ti si vieta andar più lungamente
Vagando in terra, e funestar di stragi
Le contrade latine, a cui l'impero
Promettono del mondo il Fato e Giove. —
E di Giove e del Fato a mano a mano
Qui le aperse i voleri , e il tempo e il modo
De' futuri successi: e non die fine
All'austero parlar, che ricordolle
Le incudi un giorno al suo calcagno appese,
E il bi-accio punitor, che non avea
CAMTO TERZO ^99
Perduta ancora la possanza antica.
Cadde il tizzo di mano a quegli accenti
Al Dio di Lenno, e tra le vampe e il fumo
Si dileguò; né disse addio, né parve
Aver mal fermo a pronta fuga il piede;
Ma con torvo sembiante e disdegnoso
Si ristette Giunon, che rabbia e tema
Le stringono la mente, e par tra^ ferri
La generosa belva che gli orrendi
Occhi travolve, e il correttor flagello
Fa tremar nella man del suo custode.
Senza dir motto alfin volse le spalle,
E rotando in partii* la face in alto,
Con quanta più potco forza la spinse:
Vola il ramo infiammato, e di sanguigna
Luce un grand' arco con immensa riga
Segna per Petra taciturno e scuro.
U Sidicino montanar v* affisse
Stupido il guardo, e sbigottissi, e un gelo
Corse per Possa al pescator d'Amsanto,
Quando sul capo minar sei vide,
E cader sibilando nella valle.
Ove suona rumor di fama antica.
Che del puzzo mortai, che ancor v'esala,
L'aria e Ponde corruppe, ed un orrendo *d
Spiraglio aperse, che conduce a Dite.
Come aUor che su i nostri occhi Morfeo
Sparger ricusa la letéa rugiada.
D'ogni parte la mente va veloce,
E fugge, e toma, e slanciasi in un punto
Dall' aurora all' occaso, e dalla terra
Alla sfera di Giove e di Saturno ;
Con tal prestezza si sospinse al cielo
La ritrosa Giunon. L' Ore custodi
Delle soglie d'Empirò incontanente
Alla Reina degli Dei le porte
5oO LA FEEONIADB
Spalancar dell^ Olimpo, e la bionda E3>e^,
Ilare il volto, e F abito succinta,
Le corse iacontro con la tazxa in mano
Del nettare celeste^ ed ella un sorso
Né por gustò dell^ immortai bevanda^
Che troppo d^ amarezza e di rammarco
Ayea F anima piena. Onde con gli occhi
In giù rivolti e d^allegrezza privi,
Né a verun degli Dei, che surti in piedi
Erano al suo passar, fatto un saluto,
n passo accelerò verso i recessi
Del talamo divino^ ed ivi entrata.
Serrò le porte rilucenti, e tutte
Ne faro escluse le fedeli ancelle.
Poiché sola rimase, al suo dispetto
Àbbandonossi^ lacerò le bende,
Ruppe armille e monili, e gettò lunge
La clamide regal che di sua mano
Tessè Minerva, e d^auree firange il lembo
Circondato n'avea. Né tu sicura
Da^suoi iurori andar potesti, o sacra
Alla beltade, inaccessibil ara '* ,
Che non hai nome in cielo , e tra' mortali
Da barbarico accento lo traesti,
Cui le Muse abbonir. Cieca di sdegna
Ti riversò la Dea: cadde, e si franse
Con diverso fragor V ampio cristallo ^* ,
Che in mezzo dell' aitar sorgea sovrano
Maestoso e superbo, e in un confusi
N' andar soasopra i vasi d'oro e V urne
Degli aromi celèsti e de' profumi.
Onde tal si difiìise una fragranza ^^ ,
Che tutta empiea la casa e il vasto Olimpo.
Mentre così l' ire gelose in cielo
Disacerba Giunon, quai sono in terra
Di Feronia le lagrime, i sospiri?
CANTO TERZO 5o I
Ditelo ) d^ Elicona alme fanciulle,
Voi che r opere tutte e i pensier anco
De^ mortali sapete e degli Dei.
Poi che si vide T infelice in bando
Cacciata dal natio dolce terreno,
D^are priva e d^ onori, e dallo stesso
(Ahi sconoscenza!), dallo stesso Giove
Lasciata in abbandono, ella dolente
Verso i boschi di Trivia incamminossi ,
E ad or ad or volgea lo sguardo indietro ,
E sospirava. Sul pie stanco alfine
Mal si reggendo, e dalla lunga via,
E più dal duolo abbattuta e cadente ,
Sotto un' elee s' assise : ivi facendo
Ài volto letto d'ambedue le palme.
Tutta con esse si coprì la fronte,
E nascose le lagrime, che mute
Le bagnavan le gote, e le sapea
Solo il terren, che le bevea pietoso.
In quel misero stato la ravvolse
Dell'ombre sue la notte, e in sul mattino
n Sol la ritrovò sparsa le chiome,
E di gelo grondante e di pruina^
Perocché per dolor posta in non cale
La sua celeste dignitade avea.
Onde al corpo divin P aure notturne
Ingiuriose e irriverenti furo ,
Siccome a membra di mortai natura.
Lica intanto, di povero terreno
Più povero cultor , dal letticciuolo
Era surto con V alba , e del suo campo
Visitando venia le orrende piaghe
Che fatte avean la pioggia , il ghiaccio , il vento
Agli arboscelli, ai solchi ed alle viti.
Lungo il calle passando, ove la Diva
In quell' atto sedea, da meraviglia
Mosti. Poemetti, 3^
5o:
LA PERONIADE
Tocco y e più da pietà, che fra le selve
Meglio che in mezzo alle cittadi alberga ^
S^ appressò palpitando , e la giacente
Non conoscendo (che a mortai pupilla
Difficil cosa è il ravvisar gli Dei),
Ma in lei della contrada argomentando
Una Ninfa smarrita: O tu, chi sei,
Chi sei (le disse), che si care e belle
Hai le sembianze e dolor tanto in volto?
Per chi son queste lagrime? t'ha forse
Priva il ciel della madre , o del fratello ,
O dell' amato sposo ? che son questi
Certo i primi de' mali , onde sovente
Giove n' afSigge. Ma del tuo cordoglio
Qual si sia la cagion, prendi conforto,
E pazienza opponi alle sventure
. Che ne mandano i Numi: essi nemici
Nostri non son^ ma col rigor talvolta
Correggono i più cari. Alzati, o donna ^
Vieni , e t' adagia nella mia capanna ,
Che non è lungi ^ e le forze languenti
Ivi di qualche cibo e di riposo
Ristorerai. La mia consorte poscia
Di tutto r uopo ti sarà cortese ^
Ch'ella è prudente, e degli afflitti amica ^
E qual figlia ambedue cara t'avremo. —
Alle parole del villan pietoso
S' intenerì la Diva , e in cor sentissi
La doglia mitigar, tanta fra' boschi
Gentilezza trovando e cortesia.
Levossì in piedi , ed ei le resse il fianco ,
E la sostenne con la man callosa.
Neil' appressarsi , nel toccar eh' ei fece
U divin vestimento, un brividio,
Un palpito lo prese, un cotal misto
Di rispetto, d'affetto e di paura,
j
CANTO TERZO ^o3
Che parve uscir dei sensi, e su le labbra
La voce gli morì. Quindi il sentiero
Prese invér la capanna, e il fido cane
Nel mezzo del cortil gli corse incontro :
Volea latrar^ ma sollevando il muso,
E attonite rizzando ambe le orecchie ,
Guardolla, e muto su P impressa arena
Ne fiutò le vestigia. In questo mentre
AUa cara sua moglie Teletusa
Il buon Lica dicea: Presto sul desco
Spiega un candido lino , e passe ulive
Recavi e pomi e grappoli, che salvi
Dal morso abbiam dell^ aspro verno, e un nappo
Di soave lambrusca , e s' altro in serbo
Tieni di meglio^ cbè mostrai'ci è d^uopo
Come più puossi liberali a questa
Peregrina infelice. — Allor spedita
Teletusa si mosse, e in un momento
Di cibo rustical coperse il desco,
Ed invitò la Dea, la quale assisa ^^
Sul limitar si stava, e immota e grave
L^ infinito suo duol premea nel petto ^
Né già tenne P invito , che mortale
Gorruttibil vivanda non confassi
A palato immortala ma ben di trito ^^
Odoroso puleggio e di farina
D^ acqua commisti una bevanda chiese ,
Grata al labbro de^ Numi, e V ebbe in conto
Di sacra libagion. Forte di questo
Meravigliossi Teletusa, e fiso
Di Feronia il sembiante esaminando
( Poiché al sesso minor diero gli Dei
Curiose pupille, e accorgimento
Quasi divin), sospetto alto la prese,
Che si tenesse in quelle forme occulta
Cosa più che terrena. Onde in disparte
5o4 l'I FERONIÀDE
Tratto il marito, il suo timor gli espose,
E creduta ne fìi^ che facilmente
Cuor semplice ed onesto è persuaso.
Àllor Lica narrò quel che poc' anzi
Assalito V avea strano tumulto ,
Quando assorgere in pie le porse aita,
E con la mano le soffolse il fianco.
Poi , seguendo , di Bauci e Filemone
Rammentar Pavrentura, e quel che udito
Da^ vecchi padri avean , siccome ascoso
Fra lor nelle capanne e nelle selve
Stette a lungo Saturno, e noi conobbe
Altri che Giano. In cotal dubbio errando,
Si ritrassero entrambi, e lasciar sola
La taciturna Diva. Ella dal seggio
Si tolse allora , e due e tre volte scorse
Pensierosa la stanca, e poi di nuovo
Sospirando s* assise , e in questi accenti
Al suo fiero dolor le porte aperse :
Donde prima deggMo, Giove crudele.
Il mio lamento incominciar ? Già tempo
Fu che, superba del tuo amor, chiamarmi
Potei felice ed onorata e diva.
Or eccomi deserta ^ e non mi resta
Che questo sol di non poter morire
Privilegio infelice. E fino a quando
Alla fierezza della tua consorte
Esporrai questa fironte ? Il premio è questo
De' concessi imenei? Questi gli onori
E le tante in Ausonia are promesse ,
Onde speme mi desti che la prima
Mi sarei stata delle Dee latine?
Tu m' ingannasti : V ultima son io
DegP immortali , ahi lassa ! e non mi fero
Illust;re e chiara, che le mie sventure.
Rendimi, ingrato, rendi&jii alla morte,
CÀUTO TERZO 5o5
Alla qaal mi togliesti. Entro quell^onde
Concedimi perir, che la tua Giono
Sul mio regno sospinse, o chMo ritrovi
Agli arsi boschi in mezzo e alle mine
Dermici templi abbattuti il mio sepolcro. —
Cosi la Diva lamentossi, e tacque.
Era la notte , e d^ ogni parte i venti
E Tonde e gli animanti avean riposo ,
Fuorché V insetto che ne^ rozzi alberghi
A canto al focolar molce con lungo
Sonnifero stridor V ombra notturna^
E Filomena nella siepe ascosa
Va iterando le sue dolci querele.
In quel silenzio universale anch^ essa
Adagiossi la Dea vinta dal sonno,
Che dopo il lagrimar sempre sugli occhi
Dolcissimo discende, e la sua verga ^
Le pupille celesti anco sommette.
Quando il gran padre degli Dei, che udito
Dell^ amica dolente il pianto avea,
A lei tacito venne ^ e poi che stette
Del letto alquanto su la sponda assiso,
Di quel volto sì caro addormentato
La beltà contemplando, alfin la mano
Leggermente le scosse , e nell^ orecchio
Bisbigliando soave: O mia diletta,'
Svegliati (disse), svegliati, son io
Che ti chiamo^ son Giove. — A questa voce
n sonno l'abbandona, apre le luci,
E stupefatta si ritrova in braccio
Del gran figliuolo di Saturno. Ed egli
Riconfortala in pria con un sorriso ^7
Che di dolcezza avrfa spetrati i monti,
Ed acchetato il mar quando è in fortuna^
Poscia in tal modo a ragionar le prese :
Calma il duolo, Feronia^ immoti e saldi
SoG LA FSIONIADE
Stanno i tuoi fati e le promesse mle^
Né ingannator son io , né si cancella
Mai sillaba di Giove: Ma profonde
Sono le vie del mio pensiero, e aperta
A me solo de^ Fati è la cortina.
Non lagrimar sul tuo perduto impero:
Tempo verrà, che largamente reso
Tel vedrai , non temerne, e i muti altari
E le cittadi e i campi e le pianure
Dai ruderi e dall^onde e dalla polve
Sorger più belle e numerose e colte.
D' Italia in questo i più lodati eroi
Porran Fopra e V ingegno. Io non ti nomo ^^
Che i più famosi^ e in prima Appio, che in mezzo
Spingerà delle torbide Pontine
Delle vie la regina. Indi Cetego: ^
Indi il possente fortunato Augusto ^^
Esecutor della patema idea^
Al cui tempo felice un Venosino
Gantor sublime neUuoi fonti il volto ^'
Laverassi e le mani^ e tu di questo
Orgogliosa n^ andrai più che TAnfiriso,
Già lavacro d^ Apollo. Elcco venirne ^*
Poscia il lume de' regi , il pio Trajano
Che, domata con l'armi Asia ed Europa,
Gol senno domerà la tua palude^
E le partiche spade e le tedesche
In vomeri cangiate impiagheranno ,
Meglio d' assai che de' Romani il petto ,
Le glebe pometine. E qui trecento
Giri ti volve d' abbondanza il sole ,
E di placido regno , infin che il Goto
Furor d' Italia guasterà la faccia.
Da boreal tempesta la mina
Scenderà de' tuoi campi ^ ma del pari
Un' alma boreal , calda e ripiena *^
CANTO TfiRZO 507
Del valor d^ Occidente, al tuo bel regno
Porterà la salute , e poi di nuovo
(Che tal de^Fati è il corso) alto squallore
Lo coprirà^ né zelo, arte o possanza ^
Di sommi Sacerdoti all^onor primo
Interamente il renderan^ che Topra
Immortai, gloriosa ed infinita
Ad un più grande eroe serba il destino.
Lo dìran Pio le genti, e di quel nome
Sesto sarà
FRAMMENTI
INEDITI
DELLA FERONIADE
E tu che assisa sul maggior de^ troni,
DI magnanima prole Faugumenti,
Aloisa*^, se a te dentro la luce
Che ti circonda, ingrato il suon non giunge
Delle italiche cetre (e qual gentile
Petto alla tosca melodia si chiude 7) ,
Porgi benigno al mio cantar P orecchio,
E di Feronia meco i casi acerbi
Commiserando, mostra che tu Sposa
Del sommo de^ mortali, hai dell^ augusta
Sposa del sommo degli Dei gli eccelsi
Spirti e r incesso , ma più bello il core.
Forse avverrà che de^ tuoi sguardi un giorno
Tu del Lazio a bear scenda le rive,
Quando P augusta sempiterna Roma
Sulle chiome porrà del tuo gran Sire
Di Trajan la corona in Campidoglio.
* Qaeata dedica non ebbe effetto^ e però fu tralasciata nella stampa
del I Canto della Feroniade, oye ayrebbe doyato stare immediatamente
dopo i primi undici yersi, che contengono l'esposizione del soggetto;
onde a me pure non è sembrato di doverla inserire nel testo, ma la
pubblico dopo il poema. Intorno poi ai Frammenti che seguono, e che
erano destinati al li Canto, in yece del passo che yi si legge e che
incomincia Stava questo dell* arti arbitro sommo ec, veggasi la nota a
carte XX delle Notizie suUa i'ita, ec, nel primo volume. L'Editom.
5lO FRAMMENTI INEDITI
Ad incontrarti per le vie latine
Verrà la Dea ch^io canto, e rimembrando
La pietà che largisti alle sue pene,
Cederatti gli altari. AUor te Pia,
Te Sospita i Quiriti invocheranno,
E davanti aUuoi passi i fior, che Paura
Del Palatino educa e del Tarpeo,
Spargeranno a man piena. E Marte intanto
Del suo scudo farà culla all^ augusto
Tuo pargoletto, e a lusingarne il sonno
Fra"* cantici guerrieri in su Tancile
Con fragor batterà V asta latina.
Or tu, gran Donna, adersi miei cortese
Sii d^un facile corso. Alto non sorge,
Ma pietoso è il subbietto e di te degno.
DELLA FERONIÀDE. 5 I I
Stava questo delFarti arbitro etemo
Nell^ayyenir presago fabbricando
Per un promesso dalle Parche ai tardi
Posteri invitto onnipossente Sire^
Con mirando artificio un aureo trono *
D^ altra parte i Ciclopi al gran Guerriero
Mai*tellando venian su le sonanti
Incudi il brando, a cui nulP altro in terra
Dovea star contra ^ e n^ era la materia
Un de^ riposti fulmini che In Flegra
Àvean solcato de^ Giganti il petto.
Con tempre e leghe d^ ogni guisa in questo
D fiero fabbro avea tre raggi attorto
Di grandinoso nembo e tre di foco,
Che giammai non si spegne, e tre di nube
Pregna di pioggie, e tre d^ impetuoso
Turbine. I tuoni ei quindi ed i baleni
V'aggiungeva, e di furie e di spaventi,
E di sdegni e di fiamme un cotal misto,
Che del brando fatale il lampo solo
Mettea terrore, e noi sofina la vista.
Guai a chi Tire un di di quella spada
Nelle battaglie tenterà! Felice
Chi snudata la vegga in sua difesa!
* DoTCTa questo trono essere descritto a somiglianza di quello del
Giove Olimpico^ di cui fa menzione Pausanìa. Ma la stella del Sire in
questo mezzo declinò rapida al suo tramonto^ e l'autore non compi
i Tersi che mcditaya. L'Editore.
NOTE
ALLA FERONIADE
AFFERTIMENTO AL LETTORE
L^ seguenti annotazioni furono intraprese per commissione del ca^
voliere Vincenzo Monti, ed interamente compilate sotto la sua dire-
zione. Non si possono dire da lui dettate, poiché quand'egli pensava
di mettere sotto i torchi questo poema, gli sopravvenne quel colpo di
apoplessia, che, dopo averlo Jàtto lungamente languire^ lo condusse
al sepolcro senza permettergli né pure di comporre i pochi versi coi
quali intendeva di dar termine al suo lavoro. Egli nulladimeno indicò
al compilatore le fonti onde aveva tratta la materia^ e volle che fos-
sero quando accennati e quando riportati per esteso i passi degli scrit-
tori da cui aveva raccolti cotanti jfiori ora {li alta ed ora di leggiadra
poesia, animandone mirabilmente il suo stile. O fisse una bella in-
genuità di queir uomo illustre, per brama di far palese il debito che
gli correva verso i suoi grandi predecessori, o fosse desiderio di mo-
strare ai giovani come nel difficile aringo delle lettere V ingegno non
basta senza lo studio, e come i classici greci e latini sono a tutti maio-
stri principalissimi (Togni bellezza poeticaj tale certamente fi la sua
volontà, cui vuoisi rispettare^ benché ad alcuno potesse per ciò pa-
rere soverchia la mole delle annotazioni. Qualche prolissità apparirà
forse anche in parecchie note che risguardano la storia, la mitolo-
gia, od in qualunque altra maniera ¥ erudizione , le quali verranno
riputate superflue da chi già è pratico della materia j ma T autore
pensava che non tutti possono esseme pratici , e che le allusioni es-
sendo molte e diverse j qualcheduno , che non abbiane pronta altri-
menti la spiegazione, aggradirà di vederle qui dichiarate.
G. A. M*
NOTE AL CANTO PRIMO
DELLA FERONIADE.
Pag. 453.
■ È fama che alloraqaaDdo Licurgo ebbe date agli Spartani quelle «uè
famose leggi, alcuni di essi, non potendone sostenere l'asprezza, si met-
tessero in nave e partissero per ricercare altrove un' altra patria. E
vuoisi che, stanchi del lungo ed infruttuoso viaggiare pe' mari, faces*
sero voto agli Dei, che su qualunque spiaggia lor fosse accaduto di
metter piede, ivi avrebbero fermata la propria stanza. Quindi portati
in Italia ai campi Pomentìni^ pigliarono terra; dissero Fero/iia il suolo
su cai erano sbarcati, poiché pel mare era loro avvenuto di essere qua
e là trasferiti {ut huc illuc Jèrrentur) j ed alla Divinità di Feronia e-
ressero un tempio. — Queste sono presso a poco le parole colle quali
Dionigi d'Alicarnasso {Antiq, Rom, lib. IIj 49) racconta l'origine di questa
Divinità. Il tempio, di cui fa menzione lo storico, sorgeva in vicinan-
za del fiume Ufente verso il monte Circeo, odi Terracina; ed Orazio
(lib. I , Sat. V, V. a4) ricorda la fontana eh' ivi era consacrata a Fe-
ronia. Oltre la fontana vi aveva un lago ed un bosco assai celebre, i
cui alberi raccontavasi che non fossero mai tocchi dal fulmine. Di
questo bosco fa parola Virgilio {JEn, lib. VII^ v. 800) come di cosa
particolarmente cara alla Dea: et viridi gaudens Feronia luco. Equi Sct'
vio aggiunge il seguente comento : Non vacat quod addidit yiiiàu Nam
cum aliquando hujus fontis lucus fortuito arsisset incendio j et vellent
incolae exinde trans/erre simulacro^ subito reuiruit,
11 culto di Feronia si accrebbe col tempo grandemente. Ella ebbe
un tempio anche in Etruria, nel luogo dove ora è Pietrasanta, ed un
altro nel territorio Capenate fra Vejo ed il Tevere, alle radici del So-
ratte, cui Latini e Sabini, frequentandolo in comune, avevano arric-
chito d' infiniti doni, che un largo bottino somministrarono alla rapa-
cità dei soldati di Annibale nel loro passaggio. (V. T. Liv. lib. XXVJ^
cap. 11; e Sii. It. De Beilo Pun, lib. XIII, v. 83 e segg.).
Chi fosse vago di maggiori notizie intorno a Feronia, consulti il f^e-
tus Latium profanum et sacrum, opera del card. Marcello Corradini
continuata dal p. Rocco Volpi , che spesso avremo occasione di citare
in queste Annotazioni.
Pag. 454.
2 cum Troia Achillei
ExanimaU scqucns impingerct agmina muris,
5l6 ROTE AL CINTO PRIMO
MàUia Balla duci lato, genMTCBtqae raplctt
la mare m Xautluu. (Yibo., Xm. V, So^.)
Vedisi poi Omero nell'Iliade, lib. XXI, ▼. 3i4 e»eg(.
Pao. 454.
3 Omero {Odissea, lib. VII) acrìve che nel giardino di Alcinoo ti
areva due fonti; e che
.... L'ana per futlo
Si dirama il giardino, e l'altra oone,
Pamndb del oortil aotto la aqglia.
Sin daTanti al palagio) e a i|nerta Tanno
GU aUteti ad attigMie.
{Trmi, 4*tppoUtù Pimkmmnts,}
Iti.
4 laipocflnm nsis kto fmidantibn» Anznr.
(HoaAT. I, Sai. ▼., 96.)
Ansuro fu poi detto Tarracina e Terracùm, nome che ancora gli
rimane. Taluni, fondati sul verso di Orazio qui sopra citato, Togliono
che l'odierna Terracina sia fabbricata in luogo men alto dell'antica
Ansnro. Quest'opinione però non sembra vera al celebre Spedalieri :
*f imperciocché (dic'egli) se al tempo d'Orazio Tarracina fosse stata
» in un sito più alto, il poeta per giongervi, partendo dal tempio di
» Feronia, ayria dovuto rampicarsi più di tre miglia (Afi'i/ù tum/nxuui
n tria repimus, Horat. I. e, ▼. a5) , perchè tre miglia si contano dal
M tempio di Feronia al luogo ove sta adesso Terracina n. Veggasi l'o-
pera compilata da Nicola Maria Nicolai Romano, la quale ha per ti-
tolo : De* òon^camenti delle terre pontine j Ubri quattro, — In Boma^
nella Stamperia Paglimrini,, moccc. In JogL — I primi libri di quest'o->
pera erano stati scritti in latino dall' ab. Nicola Spedalieri, siciliano,
per ordine di Pio VI ; ed il continuatore dice di presentarli tradùtti
JedeUnente nel nostro idioma.
Circéa marina chiama il poeta quella ^arte del mar Tirreno, di cai
dice Virgilio (Lib. VII, t. io): Proxima Circaee raduntur litara ter"
ra* Omero {Odiss, lib. X, y. i35 e segg.) fa che Circe abiti in un'i-
sola da lui detta Eeaj ma si pretende che questa siasi riunita al con-
tinente, poiché più non ne apparisce vestigio. (V. Fet. LaLj T. Il ,
pag. a43; ed il dottissimo Heyne, Excurs. l ad lib. V JRneid.)
Ivi.
^ Pomezia, cioè pontina^ da Pomezia città, che ora chiamasi Mesa, la
quale diede il nome di pometina alla vasta pianura ch'é circondata a
settentrione dalle montagne lepine^ e si stende fino al mare toscano
ed al monte Circeo (detto ora Circello). Questa pianura coti' andare
del tempo fu detta per sincope pomtina, pontina. Le montagne lepine
s'innalzano fra Sezze (già Setia) e Segni {Signìa). La palude incomin-
ciava un tempo dal Circeo, ed occupava il terreno verso il mare
DELLA FERONIADE Siy
fino ad Anzio, stendendosi anche sopra Pomexia e parte del territorio
di Sezze. Di poi si allargò sopra uno spazio assai maggiore.
Pag. 454.
6 Cariente fu moglie di Pico antichissimo re del Lazio, e famosa per
la rara leggiadria del suo cantare. Pomona era una Niufa studiosis-
sima della coltura de* giardini. I Latini ne fecero due Dee, e tributa-
rono loro un culto particolare. Havvi chi fa di Canente e di Pomona
una cosa sola. (V. Ovidio nel lib. XIV delle Metamorfosi _, ed il f^etut
Latium T. II, pag. 346-347-)
Ivi.
7 II poeta imita que' versi di Catullo (Carm, LX1I v. 39),
Ut flos in Mptif tecretns nucitur hortis,
Ignotuf pecori, nuUo codUwiì uratxot
Quem mulcenl aura, firoMi aol, educai imber :
Molti iDum poeri, multa optavere puellie.
Versi già imitati dal gran Lodovico nella comparazione della vergi-
nella alla rosa.
Pag. 455.
8 Le sponde del lago Lucrino, in vicinanza del golfo di Baia, erano
spesso battute e soverchiate dalle onde del mare , che con grandia«
simo impeto vi si riversavano. Il perchè Giulio Cesare, o come altri
Tuole, Augusto, collo scopo di salvare dalla dispersione il pesce di cui
abbondava quel lago, fece alzare un molo contro al quale venivano a
rompersi romorosamente i flutti del mare senza potersi mescere alle
acque del Lucrino, né intorbidarle. Di ciò canta Virgilio ne' seguenti
versi della Georgica (lib. II, v. 161):
An memorem portai, Lucrìnoqu« addita dauttra^
Atque indignatum magnis strìdonbus cquor ,
Julia qua Pooto looge sonat unda refuso, ec.
A questo passo allude il poeta. Anche Orazio fa più volte menzione
del lago Lucrino.
Ivi.
9 Le rose di Pesto ^ paese della Terra di Lavoro nel regno di Napoli,
sono andate in proverbio. Di quelle di PrenestCj città nel Lazio, ora
Palestnna, scrìve Plinio (Hist. Nat, lib. XXI, cap. 4) ch'erano state
fatte celeberrime da' Romani, e ch'erano l'ultime a cessar di fiorire.
Ovidio nel XV delle Metamorfosi, Properzio nella quinta Elegia del
Lib. IV, Claudiano nelle Nozze di Onorio e Maria ^ fanno l'elogio di
queste rose. Virgilio nel quarto della Georgica (v. 1 1 <j) vorrebbe a-
vere spazio di cantare i rosai di Pesto due toUc Ferondo: canerem,
biferique rosaria Pasti. Marziale poi (Lib. IX, ep>gr. 61), inviando una
corona al suo amico Sabino, enumera le rose che più erano in pregio
fra' Aomani :
Seu tu Pastanis genita es, seu Tiburis arvit,
S«u rubuit tellus Tusoila flore tuo :
Mosti. Poemetti. 53
5ld NOTB AL CÀUTO PRIMO
Seu Pneoesttiio t« ▼iOict kgit ia Umto^
Sai modo Canpttii gloria mrii
Anche in più altri luoghi egli celebra le rote di Preneste.
Pao. 455.
•o La circoaUnsa qui toccaU dal poeU é registraU da Ateneo nel K-
bro XV de' suoi Dipnosofisti, nel modo seguente : De Lychnide loquens
Amerioi Macedo in HixatoaUco^ aiti u ex aqua naiam esse in qua yenus
lai^it pottquam cum Falcano concuòuitteL Optimam autem gigni in Cy^
prò et lemno^ item m Strongyie^ Erice et CyAerit »,V\\ii\o h menzione
di questo fiore nel libro XXI^ cap. 4, della Storia Naturale.
Iti.
Il Vamaraco^ che ora chiamasi perea o im^ipbranaj col quale gli an-
tichi componevano V unguento detto amaracinOs tenuto in grandissimo
pregio (Plin. Hitu NaU lib. XII^ cap. 4), era singolarmente caro a Venere,
non solamente per essere a lei dedicati tutti i profumi^ ma ancora perché
questo aveva la facoltà di volgere in fuga l'animale uccisore di Ado*
ne. Jmaracinumjugiiattusj scrìve Lucrezio {De Ber, Nat. lib. VIj v. 973)1
11 boschetto d^ Idalia era tutto seminato ed olezzante di amaraco ; ed
ivi la Dea nasconde Ascanio, quando vuol condurre Cupido sotto 1^
lua sembianza nelle braccia di Didone: (Virg. ^n. lib. 1^ v. 693).
.... et fotiim gremio Dea toUit in altoi
IcblÙB laeos, olii moUis amiracnt fliam
Florìbiis, et dolci adipinDs complectitur ombn^.
Pao. 456.
** La descrizione del ioto^ qui accennato dal poeta^ può vedersi in
Plinio (UisL Nat, Uh. XIIL cap* 17)» il quale ne fa sapere ch'esso sorgo
nell' Egitto allorché si ritirano le acque del Nilo. Il Sonno rappresen-
tasi ordinariamente, dagli scultori e dai pittori, con questo fiore sovr^
la testa.
Il medesimo Plinio (lib. XXI^ cap. i5) rammenta la colocasia^ e I4
dice in £grpto nobilissima. Anche Vacanto è pianticella egiziana. Onde
Servio pretende che Virgilio abbia trovata una maniera asaai gentile
di adulare Aogiuto, riunendo in quel verso Mixtaque ridenti colocasia
fundet acantho (Ed. IV^ v. ao) y due vegetabili portati in Roma dopo
cV egli ebbe soggiogato l' Egitto.
Ivi.
>3 L'Autore con uno dei consueti anacronismi, di cui giovasi la poe<^
sia , trasporta all' età di Feronia ciò che avvenne assai dopo i tempi
della mitologia. I primi raDuncoli furono portati in Europa dai Cro-
ciati ne* secoli XII e XIII, ma vi rimasero negletti e quasi incogniti.
La première epoque marquée de la gioire des Benoncules (scrìve nel
suo Trattato de' Ranuncoli il p. d' Ardène) est celle du règne de Ma*
homet ly, Ai^anl lui la Benoncule négligée croissoit par les soins de ia
seule Nature. Confondue avec Vherbe des thnmps^ come elUj elle bril"
hit le matii\ et se dessèchoil le soirj sans qu*on parut se soucier dten
prolonger la durée^ ou d'en prevenir la destruclion. Il Visio Qara Hn«>
DELLA FERONIADE SlQ
sUfk^ quegli che nel i683 minacciò Vienna e t' ebbe la famosa rolla,
avendo iostillato il gasto de' Bori nel soo sovrano » il sultano Mao-
metto IV, fece yenire da Candia, da Cipro 9 da Rodi» da Aleppo, da
Damasco le radici ed i semi di tutte le più belle varietà di ranun-
coli, che da Costantinopoli insiste poi in varie parti d'Europa, diven-
nero r ornamento de' giardini cosi in Francia come in Italia. AUoracbè
V Autore scriveva in Roma la Feroniade , questo fiore vi era in gran
voga, e si coltivava con amore singolarissimo.
Pao. 456.
li I fiorì di Cirene erano celebratissimi per la loro fragranza. Di che
rende testimonio Ateneo nel lib. XV de' suoi Dipnosofisti: « Le rose
(scrive egli) che nascono presso Cirene sono odorosissime, onde colà
è pur molto soave l'unguento rosato; anche l'odore delle whU e de-
gli altri fiori ivi è esimio e divino », — - Colle paUanUo chiama il poeta
il Palatino di Roma, ove gli Arcadi seguaci di Evandro
. .' . . potnen in moatibus nriieoi
PaOantù pitMTÌ de nomine Pallanteum.
Vno. i»i. vm, 53-54.
Per corruzione da PallanUum si fece Paiatinum^ e da ultimo Palo-
ticim. Augusto vi pose la sua reggia. Chi volesse conoscere più ori-
gini del nome pallantéo^ ricorra a Servio nel commento al citato li-
bro dell'Eneide, v. 5i. Veggasi anche Tito Livio, lib. Ij cap. 5.
Pag. 457*
>5 Cemobbio, villeggiatura, in vicinanza di Como, del sig. cav. Carlo
Londonio, di cui sono figlie le due ornatissime giovinette qui lodate*
Ivi.
*^ Veggasi l' Odissea^ lib. X, v. 3o3 e segg.
Pag. 4^<
>7 L' uso della melagrana era interdetto nelle feste di Cerere leggi-
fera, dette Tesmqfòrie, e ne' Misteri Eleusini, perché questo frutto era
stato cagione che Cerere non avesse riavuta sua figlia Proserpina ra-
pita da Plutone ; che accordata la restituzione di lei, a patto che Del-
l'Inferno non avesse gustato cibo, Ascalafo appalesò di averla veduta
inghiottire alcuni semi di melagrana, onde dovette rimanersi col ra*
pitore. {y, Ovidio^ Met, lib. V, v. 509 e segg. ; Fast» lib. IV v. 607;
Inno a Cerere attribuito ad Omero^ v. 373 j Apollodoro Biò, lib. I. )
Di qui l' odio di Cerere per questa pianta, la quale per altro era con-
secrata a Giunone ed a Minerva (V. lo Spanhemio nelle Osservazioni
a Callimaco, Hjrmn, in PalL v. a8).
Ivi.
18 Del pomo, detto cidonio da Odone città di Creta, ora chiamato co»
togno^ ragiona Plinio nel libro XV, cap. 11. Ed Ateneo nel terzo de*
Dipnoio fisti racconta , sulla fede di Filarco, che la cotogna colla soa-
vità del suo odore ha la facoltà di render nullo V effetto de' veleni.
Gli antichi ne usavano per dar fragranza al fiato; onde Solone (al
dire di Plutarco, PracepU Connub,) aveva ordinato nelle sue leggi «
520 NOTE AL CAJNTO PRIMO
che gli sposi Del primo giorno delle nozze mangiassero di qaesU mela
prima di coricarsi, certamente per indicare che la prima grazia della
bocca e della voce debb' essere condita di ptacerolezza e di soavità.
Pac. 4^9-
■9 II Persico chiamalo MaUu persica, perchè crederasi trasportalo in
Italia dalla Persia. Plinio {HisL Nat. lib.XVjcap. i3)pariadelgnindi»-
simo prezzo che costarono t primi fratti di questo albero che si vi-
dero nella nostra penisola. Basti il dire che vennero pagati perfino
trecento piccoli sesterzii ciascuno. Il suo fratello detto d^ armena sUr-
pej è quello ch'or chiamiamo Meliaco^ e che i Latini dicevano Ma^
lus armeniaca dall'Armenia donde ci è provenuto.
Ivi.
*o Lucullo, debellato Mitridate re del Ponto ed atterrata la citta di
Cerasunte , portò in Italia V albero che da essa fu detto in latino Ce-
rasus,e che da noi viene chiamato Cirìegio. Così Plinio, lib. XV^cap.
a5. Servio però nel comento al v. i8 del lib. li delle Georgiche
scrive che anche prima di Lucullo eran note in Italia le ciriegie, se
non che erano di una qualità più dura, e chiamavansi Comum, onde
poi, mischiando i nomi, vennero dette Cornocerasum, — Ateneo final-
mente nel secondo de' DipnosofisU (cap. ii) riporta T autorità di Di-
filo Siphnio (che fu contemporaneo di Lisimaco , uno de' successori
di Alessandro), il quale faceva menzione delle ciries^ie siccome di nn
frutto sommamente salubre, ed affermava che migliori di tutte erano
quelle di Mileto^ ed in generale le più rosse.
Ivi.
*> Moltissimi sono gli aggiunti che si danno ai fichi secondo la varietà
de' luoghi da cui provengono, o le differenze loro individuali. Chi vo-
glia vederne le qualità e le patrie che furono più note agli antichi ,
legga Plinio, Hi$u NaL Uh. XV^ cap. ag; Macrobio,«Saa<rri. lib. Ili, cap. ao;
Ateneo, Deipn, lib. HI, cap. a e 3. — Il fico calcidico produce, secondo
Plinio, i suoi frutti fino tre volte l'anno; e perciò dal poeta é qui
nominato di preferenza siccome il principale della specie.
Ivi.
>* Cerere nelle sue lunghe e penose peregrinazioni in traccia della fi-
glia fu accolta ospitalmente in un borgo dell'Attica, detto de' Lacidi,
da un certo Fitalo; al quale essa in ricompensa dell' ospizio fece dono
dell' albero del fico, le cui firutta prima erano note soltanto alle mense
degli Dei. Pausania ne ha tramandata questa notizia, insieme coli' i-
scrizione in versi, che al suo tempo leggevasi ancora sulla tomba di
Filalo {/Ittica^ e. 87 § a), ed era in questa sentenza: L'eroe Fitalo re
accolse qui la veneranda Cerere, allorché essa mostrò il primo Jrutto
fieli* autunno, che i mortali chiamano fico. Da quel tempo i discendenti
di Fitalo ottennero onori perenni, — 11 mele, il pane e i fichi dell'Ai*
tica sono delti da Antifane, citato da Ateneo, i migliori del mondo.
Pag. 4^0.
>3 Serse, figlio di Dario, volendo vendicare le sconfitte che suo padre
aveva ricevute dai Greci, giurò che non avrebbe mai gustato de' fichi
DELLA FERONUDE 5a f
(feir Attica, che porta vami a vendere in Persia > finché non avcise in
suo potere la terra che li produceva (Plutarco, jipophteg,), Temit084{]e
ed Aristide gli fecero però costar care le sue millanterie ; che egli ,
come tcrisse un nostro poeta,
ÀTendo 1* Ato e V Ellesponto domo,
Se Tenne più che Dio, fuggi men eh' uomo,
e se ne portò la voglia di possedere la terra che fruttava i fichi più
eccellenti del mondo.
Plinio poi {HUt. NaL lib. XV, cap. 18) racconta che Catone il cen-
sore, ardendo di odio nazionale contra Cartagine, cui ad ogni tornata
del senato ripeteva essere necessario distruggere, presentò un giorno
ai padri un fico primaticcio eh' aveva portato seco , e domandò loro ,
quando credessero che fosse stato spiccato dall' albero , soggiungendo
che non erano ancora trascorsi tre giorni da che esso era stato còlto
in Cartagine ; onde considerassero quanto T inimico stesse loro vicino,
e quanto perciò dovessero temere di non vederlo un giorno o l'altro
alle porte di Roma. Quindi fu risoluta la guerra, la quale non terminò
che colla distruzione di Cartagine; e lo storico non può trattenersi
dal fare le meraviglie, che una città così illustre, la quale per dugento
vent'anni era stata emula della regina del mondo, sia caduta per l'ar-
gomento di un frutto. Questo fatto è registrato anche da Plutarco
nella vita di Catone.
Pag. 4fio.
*k Super /lumina Bahjrloni$j iUuc tedùnus et Jleuimusjcum recordare'
mar Sion,
In udicibus in medio ejus^ suspendimus organa nostra.
Psalm. cxxxvi.
Ivi.
•^ Il conte Giulio Perticar! genero del poeta*
Pag. 4^1.
'6 Media fert tristes saccos, tardumquc saporem
Felicis mali, quo non pnetentius ullum,
Pocula si quando sktsb infecere norenm,
Miscuenmtqne herbas et non innoxia Teriia,
Auxilium venit, ac membrìs agit atra Tcnena.
Ipsa ingens arbos, fiKiemque simillima lauro ;
Et, si non alium late jactaret odorem,
Launu erat: folia hand ullù labentia Tentis;
Flos ad prima tenaz: animas et olentia Medi
Ora fovent ilio, et lenìbus medicantnr anhelis.
(Vimo. Georg, IL xa6).
Tutti i migliori commentatori ravvisano in questi versi descritto il Cedro j
benché non sappiano assegnare con certezza se Virgilio parli del cedro
propriamente dett05 ovvero del limone^ o dell'arancio. Basta però che
tutti questi frutti hanno tra di loro una grandissima affinità. Intorno
a ciò che ne sapevano gli antichi^ si consultino, Teofrasto, Hist. Plani,
5a2 NOTE AL CAIVTO PRIMO
lib. IV^ cip. 4 ; Plinio, HUt. NaL lib. XII, ctp. 3; Ateneo, Deifm. liK. IH,
cap. 6; Ifacrobio, Saium. lib. III^ cap. 19.
Pag. 461.
^7 Intorno alle eircostanae toccate dal poeta, che un cedro slattato
quel pomo che la Discordia lanciò in mezxo al convito de' Nani, come
pure quell'altro su cai Aconzio scrisse la saa dichiarazione d'amore,
e quelli che Ippomene lasciò cadérsi nella corsa per vìncere Atalan-
ta, yegginsi gli scrittori di Mitologia. — Quanto all'essere questa pianta
nata in cirlo, è da sapersi che favoleggiarono alcuni che il cedro sU
stato da Giunone dato in dono a Giove nel giorno delle loro nozxe :
comechè altri vogliano eh' esso sia stato prodotto dalla Terra per ono-
rare queste nozze medesime. Esso passò di poi nel giardino delle fa-
mose Esperidi figlie di Atlante, i coi nomi erano EgU, AreUisa ed
Esperetuxa^ secondo la più comune sentenza (che i Mitologi non vanno
bene d' accordo nell'assegname il numero ed i nomi ) ; ed no immane
drago, senza mai chiudere gli occhi, ne custodÌTa i frutti. Dove que-
sto giardino fosse collocato, è incerto; i più vogliono che stesse in
Ticinanza dell'Oceano Atlantico. Quello in cui tutti consentono, si è
che Ercole, ucciso il drago, portò ad Enristeo quegli aurei pomi, e fu
l'undecima delle sue celebri fatiche. Vedasi tutta questa mitologia
svolta assai dottamente da Ezechiele Spanhemio nella sua osserva-
zione al V. IT dell'Inno di Callimaco a Cerere, e dopo di lui dal
cardinale Flangini nelle osservazioni al libro IV dell' Argonaotica d'A-
pollonio Rodio (y. i3g6 del testo, e ai 35 della yenione Italiana).
Pag. 463.
*S Evvi una tradizione che Ercole abbia portato in Italia il primo ce-
dro , toccala anche dal Pontano {De Hort, Hesp, Uh. I ) ne' seguenti
versi:
I>«Tczit sÙBul Hnperìo de litore sylvas,
Heqwrìdiun tylvas, Denon effolgaitia et aura»
Qoni poit Phomiiadain laltiu, fngimtia n^ito
Lilon Cajete , featetque onMTit ei lioitM
Virginis Harmiolie, ee.
Anche i Greci credevano di avere ricevuto il cedro da questo eroe.
(V. Ateneo, Deipn» 1. III, cap. 7).
Ivi.
*9 .... postipiain Lanrentia TÌctor,
Geryooe extìncto, Tirynlhiiu adtigit arva,
Tjitheaoqua bores in flumiae IstU Ibaraa.
Viso. Bn. VII, 661.
Ivi.
3« Saturno, fuggendo dalla persecuzione di Giove suo figlio, si nascose
nel Lazio, cosi detto dall'avere servito a lui di latebra (a latando)i
ed in premio del ricevuto asilo, insegnò a que' popoli V agricoltura, e
sparse fra essi T abbondanza. Vuoisi che da lui sia stala piantata in
Italia la prima vite : onde il nome di Vitisator^ che alcuni comcnta-
Della feroniàde 5!i3
lori credono da Virgilio riferito a Satomo {jEn. lib. VII^t. 179); ben-
ché i più recenti crìtici lo unboano a Sabùuu del verso antecedente :
.... paterque Sabioug
Vilisatar, cnnmin Mirans inb ioiagiiM fidcem,
SatnrniuqM teotoi, ee.
(V. Hejne^ ad h. L)
Della renata dì Saturno in Italia parla Aurelio Vittore nell' Origo
gentù Bomaruej cap. I.
Pio. 46a.
3i Sezia^ ora Setze, riconosceva Ercole per suo fondatore, ed in essa
aveano tempio Apollo, Cerere e Saturno (V. Fet Lat. lib. 11^ cap. i).
Fu un tempo assai rinomata pe' suoi vini , di cui fanno menzione Stra-
bone, Plinio, Ateneo, Giovenale, Marziale, Stazio. Augusto ed i suoi
successori ebbero per essi una costante predilezione, perocché erano
sommamente generosi, non mandavano fumo alla testa, e facilitavano
la digestione. I più eccellenti erano quelli che facevansi colFuva della
collina, e solevano beversi vecchusimi : il che raccogliesi apertamente
dai seguenti versi di Giovenale (Sat. V, v. 33):
Crat bUwt Alliflni» aliquid de mooUbus, aut de
Setioii, cttjus patrÌAm tituliunque senectiu
Delevit multa vetens fìilifine test».
Ora hanno perduto l'antica bontà.
Pag. 463.
3* Gli £J§[ipani sono divinità montane e boscherecce, con corna e gambe
caprigne. Questo nome fu dato talvolta allo stesso Pane. Il primo
Egipane però nacque di Pane e della ninfa Ega , che in greco vale
capra. — La corona di foglie di pino era propria di queste Divinità
delle selve e de' monti. Ovidio {MeL lib. XIV, v. 638) : pinu pnecincti
comua Panes. Vedasi lo stesso Ovidio altrove passim ^ e Properzio,
lib. I, eleg. XVIII, v. 30, ec. ec.
Ivi.
3311 poeta prende queste immagini da Virgilio, Egl. io, v. a4 o^gg»
Venit et i^retti capitic Sjl?anns boDore,
Florentec feralu et gnadia Ulia qnaimit.
Paa Deoi Arcadia Tcnit : qnem YÌdimm ipu
Sanguineis ebali baocù minioqae mbentem.
L'ebulo, detto anche ebbio in italiano, é un frutice che somiglia al
sambuco nella forma e nelle bacche che produce, ma non cresce alla
medesima altezza. 1a ferula è un frutice anch'essa, che ha le foglie
come il finocchio ed il gambo somigliante alla canna, il fiore ritrae di
quello dell'aneto. V. l'Emmenessio e l'Heyne ne' Cementi a Virgilio.
Ivi.
34 Qui pure é imitato Virgilio {JEn. lib. VII, v. io).
Proiima CiroNB radimtiir litora terra :
5^4 NOTE AL CANTO PRÌMO
Dfives inacccssos ubi Scilis fiUa luoos
Assiduo resooat canta, tectisque safohu
Urit odoratam noctuna in lumina cedroni,
Arguto tenues percunens pectine telas, ec.
Gli abitatori dei monte Circeo credevano ch'ÌTÌ fosse stato piantalo
il primo cedro, e che questo albero avesse poi somministrato a Circe
le legna per ardere, di cui parla Virgilio (V. Corradini, FeU Latium^
T. II, pag. 255), e che Omero nel V dell'Odissea (v. 60) dice che ab-
bruciava sui focolari di Cai ipso. Ben è vero che questo cedrus^ che
serviva a far fuoco, ed era tenuto in gran conto pel grato odore che
spandeva abbruciando, non è una cosa medesima col citrus o ciiriiu,
cioè colla pianta che produce il Malum metUcum^ essendo piuttosto,
secondo l'osservazione dell' Heyne {ad Firg. 1. e. e Georg, lib. II,
V. 44^)> "°^ specie di ginepro detta anche Oxycedrus, diversa pur essa
dai famosi cedri del Libano» che sono del genere degli abeti. Ma chi
vieta r immaginare che intorno all'abitazione di Circe non vi avesse
anche un boschetto della felice pianta de' Medi ?
Pag. 464.
y^ Della venuta de' Pelasghi in Italia e della loro unione cogli Abori-
geni abitatori del Lazio parla Dionigi d'Alicamasso nelle Antichità
Romane (Lib. II, cap. 1). Essi portarono la loro religione nella nuova
patria; e cosi può dirsi che gli Dei della Grecia siano trasmigrati nel
Lazio. I lettori poi potranno consultare con piacere un passo dell'al-
legato storico , ov' egli osserva come Romolo, prendendo dai Greci gli
Dei ed i riti del loro culto, gli spogliasse di quanto in essi trovavasi
di più irragionevole, e li rendesse alquanto più degni dell'alta idea
che gli uomini dovevano averne (A. JR, lib. Il, cap. 18).
Ivi.
36 Di qui la denominazione di Ansuroj perocché vogliono che coai
fosse chiamato Giove da avtv (sine) e ^u^où (nowacula), cioè dal non
aver usato rasoio^ il che può equivalere ad imberbe. Sotto questo no-
me egli era adorato in Terracina, come marito di Feronia. Veggasi
Servio al v. 799 , lib. VII dell'Eneide.
Ivi.
3? Tutto ciò è detto ad imitazione di Omero, iZiVu£e, lib. XI V, ▼•34?
e segg.
Ivi.
36 Tutti segnali di tristo augurio ; poiché (al dire di Servio, al lib« IV,
Y. 166 dell' Eneide) nulla vi avea, secondo la dottrina degli Etruschi,
di più infausto nelle nozze, che il turbamento dell' aria e della terra.
Dicasi altrettanto dell'ululare delle Ninfe, in vece delle giulive can-
zoni nuziali. Cosi nelle infelici nozze di Enea con Didone (Virg. «
£ru 1. e. ) :
.... Prima et Tellus et pronuba Juno
Dant signa : fulscre ignes, et consdus «ther
Connubits; lununoque ululanmt vertice Nynphat.
bELLà r£RONlADÈ 5^5
Pag. 464.
^d II Fato era yrraioente la suprema divìoità degli antichi, la legge
immatabile a cui gli Dei medesiiiii soggiacevano. Quindi Giove, il
padre degli Dei e degli uomini, quegli che moveva ogni cosa col moto
del suo sopracciglio, non poteva cambiare pur una sillaba di ciò che
stava ne' Fati; e lo confessa egli stesso in Ovidio {MeU lib. IX^ f. 43B):
jlfe quoque fata regunt. Egli conosceva bensì quello che i Fati spesse
volte tenevano celato a tutti gli altri Dei: quindi cosi parla a Venere
nel primo dell' Eneide, v. a65 :
«
.... fiibor enim, qusbdo hcc te cura remordet;
Longiuf et Tolvent fatonun arcana movdx).
Ed era pure in certa maniera l'esecutore di ciò che il Fato aveva
stabilito. Neil' Iliade (lib. Vili , v. 69) mette sulle bilance due morti'
feri fati, quello dei Greci e quello de' Troiani ; e solamente quando
vede quale dei due trabocchi, lancia nel campo de' Greci il fulmine,
che vi sparge lo spavento e la fuga. Lo stesso sperimento ei fa prima
di abbandonare alla morte Ettore inseguito da Achille (lib. XXII^
V. 209 )k
Pac. 465.
^* Veggasi la nota prima»
Ivi.
4t Dionigi d'Alicamasso ne ha conservati questi nomi, co'quali veniva
appellata Feronia (AnU Bom, lib. Ili, cap. 33). — Antefora è quanto dire
Fiorifera, ossia Portatrice de* fiori, ^- Filostefana vale Amante delle co*
rone, -* Persefotte é in greco lo stesso che il latino Proserpina, ^- Gli
abitanti del Lazio offerivano nel suo tempio le primizie de' frutti ; ed
i servi che venivano manomessi ricevevano in esso il pileo della li-
bertà. Servio {ad ASn. lib. Vili, v. 564) scrive che nel tempio mede»
Simo vi avea un sedile sul quale era incisa la seguente iscrizione : bb-
VEMCRiTi SBRVi sEDEANT , suRGAHT LIBERI. Di qui Fcrouia fu chiamata e*
ziandio Dea de' Liberti: onde abbiamo da Tito Livio (lib. XXII^ cap. i)
che le donne liberte, quando Roma era minacciata da infausti prodigi,
sovrastandole Annibale, misero insieme, secondo la loro facoltà , una
somma di danaro da offerirsi a Feronia : e secondo Varrone, allegato
da Servio (1. e), il nome istesso di questa Dea significherebbe liber-
tà: Libertalem Deam dicit Feroniam (sono parole del commentatoré^di
Virgilio), quasi Fidoniam,
Ivi.
4>I Romani dividevano tutte le loro Divinità in due classi: la prima
degli Dei maggiori, detti ancora Dii majorum gentium, nella quale en-
travano i dodici Consenti, o vuoisi dire Consulenti, passati a rassegna
da Ennio ne' due seguenti versi :
Juno, VesU, Cerea, Diana, Minerva, Venos, Mars,
Mercurìiu, Jovi', Neptuniu, Volcaniu, Apollo,
e gli altri che, quantunque non accolti nel concilio de' dodici , gode-
jia6 NOT£ AL CANTO PRIMO
vano però anch'essi della pienexia della dÌTÌnitk e diceTaiin Sdecd,
siccome Bacco, Saturno, Giano, ec. L' altra classe era qaella degli
Dei minori, ossia Dii minorwn gentium j e conpreDdeva i Semidei ,
come £ycoU, Quirino, Etcuiapio, e simili» oltre una gnu plebe di Numi
campestri» silvestri» montani e di tutte le fatte^ che sarebbe impossi*
bile r annoverare nella brevità di una nota :
.... delira, bevaqoe decMmin
Atrà BobOiaiii vilris celefanDtiir apertiiw
Plebs habitat dÌTena locit.
OnD. ÉièL I, 171 e a^g.
Pag. 465.
43 Pretendevasi che il culto di Bacco fosse stato portato nel Lazio da-
gli Arcadi. Questo Dio ebbe tempio e sagrìficii nel luogo detto Fo»
rum Appii nel territorio di Sezze (V. yttus Latium, lib. l, cap. iS, e
lib. II» cap. i3.)
Ivi.
44 Anche il eulto di Cerere era stato portato dagli Arcadi nel Lazio e
ne' paesi circonvicini» ove quella Dea fu poi sempre grandemente ono-
rata (V. yetus Latium, lib. I^ cap. 16 e cap. ao). L'invenzione delle
leggi venne attribuita a questa Dea, del pari che il ritrovamento delle
biade» per la ragione che ben fu avrisata da Servio (ad Mn, lib. IV^
T« 58). Trovato 1' uso del frumento » nacquero i diritti insieme colla
distribuzione dei terreni; che certamente alcuno non yorrebbe indursi
a coltivare un campo ed a seminarlo» quando un altro più gagliardo
di lui potesse venire a raccogliere ed a godersi il frutto delle sue li-
tiche ; quindi prima ( al dire del citato grammatico ) gli nomini vaga-
vano qua e là senza legge a modo di Sere. E di qui renne dato a
Cerere il nome di legifera, che può vedersi in alcune iscrizioni» in
Callimaco (H/mn, in Cer, y. ig)» in Virgilio (1. e.)» in Ovidio (Jifet.
lib. V» e. 343). In onore di lei si celebravano le Tesmofòrie (che in
latino vale legum latto), e nel suo tempio si conservavano (Serv. 1. e)
le leggi scritte in bronzo. A lei erano sacri i famosi Misteru deusini, di coi
fanno splendidi elogi Isocrate nel Panegirico, e Cicerone nel secondo
deUe Leggi» Veggasi lo Spanhemio nelle Osservazioni all'Inno di Cal-
limaco sopraccitato.
Ivi.
45 Era fama che Oreste ed Ifigenia, fuggendo dalla Tauride» avessero
trasportato in questi luoghi il simulacro di Diana» chiuso in un fascio
di legne» onde essa fu detta Fascelis. Veggasi Igino» Fav. a6i; Solino,
cap. 8; Servio» ad JEn, lib. II» ▼. 1 16.
Pac* 4^*
46 Perocché Diana era figlia di una Dea perseguitata da Giunone » come
Feronia.
Ivi.
^7 Intorno al numero delle città che sorgevano nel territorio poniino,
leggasi il Corradini nel yetu» Latium, lib. l\, cap. 16.
bfiLLA PfeRONUDte £^7
Pao. 469.
k^Lk favola eli Callisto leggesi in Oyìòio, Metamor/asi^Wh. Il, y. 476
t tegg.y e /Vwfi, lib. II, v. i55 e negg. — Gianone piena di mal talento
contro quella Ninfa violata da Giove, non ebbe riguardo di porle le
mani addotto:
•
Dùft I et advem prentis a fronte capiUit,
StnTÌt bikini proonm.
Pao. 470*
4$ Timi gemini fratm Tikurtià mcenia lÙMjttiinU
]f ntris Tibufti dictam cognomine geotem,
Catìllusqae, aeerque G>Faf.
Vho. JEm, \lh 670.
Questo Cora non vuoisi cbe sia stato il primo fondatore della città
(li Coroj detta al presente Corij ma si veramente che, avendola ri-
fabbricata, le abbia imposto il suo nome. (V. Volpi, f^et, LaL T. IV^
pag. 133 e segi^.) Di lui scrive Servio, comentando i versi di Virgilio
sopra citati : Coratj a cujus nomine ett cwùas in ItaUtu
Ivi.
So La favola d'Ippolito, richiamato in vita per favore di Diana e per
opera di Escolapio, e nascosto dalla Dea sua protettrice nel bosco dì
egeria sotto nome di Virbio, è narrata diffusamente da Virgilio nel
settimo dell'Eneide, v. 765 e segg., e da Ovidio, MeL lib. XV, y. 497»^^.
Leggasi anche Servio al luogo citato dell' Eneide.
Ivi.
S>Sono questi i fiumi principali del territorio Pontino. L'CJ^/tte sca-
turisce alle radici del monte di Sezze.
L' Astufa scorre nel territorio di Anzio , presso una borgata dello
stesso nome, nelle cui vicinanze fu morto Cicerone. In tempi meno
remoti, presso alle sue rive seguì la presa di Corradino, ch'era venuto
di Germania per pigliar possesso del regno di Sicilia; ma sconfitto
nella battaglia di Tagliacozzo, fuggivasi sconosciuto.
Il Ninfio^ ora detto Storace, scaturisce ne' monti di Norba da un
lago dello stesso nome, presso al quale eravi un tempio assai celebre
dedicato alle Ninfe Driadi. w Questo fiume (scrive il Volpi, Krt. LaL
H T. III, pag. 335) era assai venerato dai Norbani a cagione d^ un prò-
n digio riferito da Plinio {HitU Nat, lib. II, e. 94 «95). Egli dice vedersi
M ancora , che presso le radici del monte di Norba nel lago Ninfeo vi
99 sono state certe ìsolette dette Saltuaresj dal moversi a tempo sotto i
n piedi di chi vi danzava al suono di musicali concerti. Qui i sacerdoti
n delle Ninfe avevano un sacello entro il quale libavano ad ewe, innanzi
» di mostrare al forestieri nn cosi gran prodigio ».
VJmaseno scorre presso Priveme, ora Pipemo^ e Virgilio ne fa
menzione nell'nndecimo dell'Eneide, y. 547*
Ecce, fuga medio, nimmis Amatentu abundani
SpnmaLaC ripis.
528 NOTE AL CA5TO VKfUO
Pac. 47^-
&• .... '••^'^iAi, NoUu erolat alo, re.
Utqae mano laU pendentia nobfla pressit,
Fil firagor ; bine densi fiindnnliir ab artbav
Oni>. Met. l, 364 e segg-
Pag. 473.
>3 Trapunzio città nellt palude Pontint sulla via Appia. — Longula
fra il monte Circeo e Sezze nella palude medesima. — Polusca yicina
a Longula.
Mucamùe tra Anzio e Longnla. — Vlubra tra Velletri e Pomezia:
in essa fu educato Augusto. — Sairico tra Anzio e Velletri. Areavi
nn tempio dagli Arcadi Tenuti in Italia con Evandro dedicato alla Dea
Matuta. Essa era la stessa che l' Aurora, ed in suo onore si facerano
i giuochi detti Matralia, Presiedeva al maturare delle biade, ed era
tenuta in particolar venerazione dalle donne. Era pure nna cosa me-
desima colla greca Ino, moglie d'Atamante. Tutta la sua favola può
vedersi nel sesto de' Fasti Ovidiani, dal v. 473 ^ 56a.
Ivi.
54 Pomezia^ situata nel luogo eh' ora dicesi Me$a, chiamavasi anche
SuesM Pomezia, e fu città ricchissima fino al tempo dell'ultimo Tar-
quinio. Di ciò fanno fede Dionigi d' Alicamasso, Tito Livio, Lucio Flo-
ro, Aurelio Vittore, Eutropio. Cicerone , parlando di essa ne' Fram-
menti de Republica, trovati da monsignor Hai, cosi si esprìme: lUi
infusto domino (Tarquinio) aliquandiu in rebus gerundis prospere /òr»
tana comitata est. Neon et omne Laiium bello devicit, et Suessam Po»
metiam urbem opulentam refèrtamque cepàj et maxima auri argentique
prceda locupletatus t^otum patrie Capitolìi eed^catione persoU^iL
Pac. 474*
^^ Campi Barbarici, cosi chiamavasi una vasta pianura intomo a Re-
geta, luogo vicino airUfente, celebre per la sconfitta che vi ebbero i
Galli dai Romani sotto il console Furio Camillo, e pel duello che Mar-
co Valerio tribuno militare sostenne con un capitano di quella na-
zione, da lui vinto col soccorso di un corvo, onde gli venne il so-
prannome di Corvino (Vedi Livio, Valerio Massimo; ed Aulo Gellio,
yoct, Aiu lib. IX, cap. II). I Goti nell'anno 536 dopo G. C. diedero
anch' essi fama a questi campi per V elezione che vi fecero di Vitige
in loro re.
Aitsona città poco lontana dal monte Circeo, fabbricata da Ausone
figliuolo di Ulisse.
Jurunca città tra l'Ufente ed il monte Circeo, Dionigi d'Alicar-
nasso, parlando della venuta de' Pelasgi in Italia, narra (Anu Rom, lib. I),
che avendo questi occupata uua parte riguardevole della Campania,
costrinsero gli Aurunci, che ivi abitavano, a mutar paese : dal che Giu-
seppe Scaligero, nelle sue Note a Festo , deduce che sia venuto il
nome di Aurunci, quod a sedibus suis ai^ulsi esserti; perocché gli anti-
chi Latini usarono indistintamente awerruncare ed auruncareipet aveU
DELLA FERONUDE 5^9
lere. All' antichità degli Aurunci allude Virgilio ove dice nel settimo
dell'Eneide (v. 797): Aurunci misere patres} luogo avuto di mira dal
nostro poeta, e sul quale è da leggersi un bel comento del dotto La
Gerda.
Per tutto quello che riguarda le città ed i popoli qui nominati^ pò •
Iranno leggersi il Corradioi ed il Volpi, seguUi dal porta^ e non sarà
da trascurarsi l'opera del Nicolai, nella quale dallo Spedalieri sono
richiamate ad esame alcune opinioni di quegli eruditi che l' avevano
preceduto.
Pag. 474*
S6 O Diva, gntam qua regis Antioin,
cantava Orazio (lib. I, od. 35) , alludendo al famoso tempio della For'>
tunaj, che sorgeva in questa città. Ma ve n'avea pur un altro dedi-
cato a Nettuno j ed un tcrzo^ di cui volevasi fondatore Ascanio figlio
di Enea, sacro a tenere A/rodile. E la città stessa di Anzio venne
detta Afrodisia dal culto di questa Dea. Veggasi il yetus Latium in
più luoghi , e particolarmente nel capo IV del libro I V - ( T. Ili ,
P«g- 59).
NOTE AL CANTO SECONDO
DELLA FERONUDE
Pao. 47(5.
I I Vokci Unto di qoa quanto di la dall' Ufente, e yeivo il mare,
poMcderano Anxio, Circello, Aniuro (poi Terracina), Ecelra, Velletrì,
Suessa Pomezia (che, tiooome abbiam detto nelle Note al Canto an-
tecedente, diede il nome all'agro ed alle paludi Pontine), Longula,
Polusca, Corioli} Cenone, Segni, Aliena, Satrìco, Fabraterìa, Piperno,
Fregella, Arpino, Sora. V. il fiatili Latium delCorradini, lib.1, cap.^;
e I* opera del Nioobj De' bonifkamend delle terre pontine, ec., lib. I ,
cap. 4,
Ivi.
* .... Me ne ineeplo desiston TÌetun, ec
Tuo. iEff. 1, 37.
Pag. 477*
3 V. Ovidio {Meu lib. VII, y. 5a4 « scgg.) nella descrisione della
peste che per opera di Giunone desolò l'isola Enopia, a cui Eaco
diede in onore di sua madre il nome di Egina ; e {Ih. lib. IV, r. Ì20
e segg.) dove narra la favola di Atamante ed Ino.
Ivi.
4 Servio (ad JEn, lib. VII, y. 3o4 e segg.) attribuisce V odio di Uarte
contro ai Lapiti all'avere il loro re Piritoo invitati tutti gli Dei, tranne
lui solo, alle sue nozze con Ippodamia. E la conseguenza si fu, che i
Centauri, presi da furore nel più bello della festa , si azzuffarono co'
Lapiti, e ne avvenne quella strage miseranda eh' è descrìtta da Ovi-
dio nelle Metamorfosi, lib. XII, y. aio e segg. — Diana venne in ira
contro i Calidonii, perchè il loro re Eneo erasi dimenticato di essa
nell' offrire sagrìficii a tutti gli Dei. Di qui il famoso cignale che de-
vastava quelle terre, e la caccia in cui fu preso, e la contesa sul di-
viderne la spoglia, onde finalmente Calidone cadde in potere de'Plea-
ronii. V. Omero lUadt IX, y. Sag e segg ; Apollodoro, lib. I ; Ovidio,
MeU lib. Vili, y. 372, ec
Ivi.
5 Ast ego , qme dÌTuin incedo regina , Jorìsque
Et coror et ooojux, ec.
ViBO. £n, I, 46.
Pag. Ivi.
^ Qotppe Tetor fatii 1
V»G. Ih, 39.
MOTB AL CANl'O SECONDO DEIXÀ PERONIADE 53 i
Pao. 477»
' Accenna il poeta rasciugamento delle paludi Pontine tentato più
volte dai Romani ai tempi della repubblica e dell' impero, poi da Teo-
dorico ostrogoto re dMtalia^ indi da varii Pontefici, e finalmente con
molto fervore promosso ed in molta parte eseguito da Pio VI. Il ce«
lebrare quest^ opera, intrapresa con magnifico intendimento> è il vero
scopo del presente Poema.
Ivi.
8 Nam sic Ptrcanun fcadere cantum est.
Otid. Mei. V. 53a.
Le Parche in certo modo erano le ministre del Fato. Esiodo le fa
sorelle di questo Oio^ e generate dalla Notte, del pari che la Morte.
Nox antan Fatumqne fenim, Parcamqiw tremeocUin
^uiit Mortemque.
(Tlieogon., vers. dello Z^magna.)
Pao. 478.
9 Talk flammato «ecum Dea corde Tolotant, ec.
y»0. £n. I, 5o.
Il poeta, aderendo a Virgilio (^neid, lib. Vili, y. 4i6)» mette la
fucina di Vulcano in una delle isole Eolie. Tolommeo le chiama itole
di f^ulcano, e nomina Hiera quella di esse in cui stimava che fosse
precisamente collocata l' officina del Dio. Medesimamente Plinio {Hist,
Nat, lib. Ili, cap. IX): Inter hane (Liparen) et Siciliam altera^ antea
Therasia appellata^ nunc Hiera ^ quia sacra Fuicano est^ colle in ea
noctumm evomente flammas* Nelle quali parole si ha la ragione dei-
Tessere consacrati a Vulcano ootesti luoghi. Del resto havvi grande
discordanza fra' poeti neir affermare ove sia posta quella fucina; chi
la mette in Lipari, la maggiore delle sette isole Eolie suddette, chi
in Sicilia sotto l'Etna, chi in Lenno, chi nell'Eubea. Omero la col-
loca in cielo. Vedasi lo Spanhemio, Osservai, al v. 47 <li Callimaco
Hjrmn, in Dianam; Flangini ad Apollonio Rodio, Jrg. lib. Ili, v. 41;
Servio, La-Gerda ed Heyne al lib. Vili dell'Eneide (vers. cit.).
Ivi.
><* Per qual motivo diasi a Diana l'aggiunto di Nemorense, trovasi
di già accennato nelle Annotazioni al Canto I. Qui diremo di più che
il territorio Nemorense fu cosà nominato dalle selve {nemora) che cre-
scevano alle falde del Monte Albano presso ad Arioia (ora detta la
Riccia) j che Plinio (lib. XXKV, cap. 7), Ovidio (Fa«f.IlI,v. 361), Vi-
truvio (lib. IV, cap. 7) ec. lo chiamano, quasi per eccellenza , nemus
Diana j che finalmente il lago di Nemi, in questo territorio, è detto
da Servio speculum Diana, Vedansi poi diverse Iscrizioni presso il
Grutero, le quali fanno menzione di Diana Nemorentej Properzio (lib.
Ili, £1. XXII, V. 25); e Spanhemio {Observ, ad Callimachum^ Hjrmn, ìif.
Dianam y. 38).
Ivi.
>> Al solito modo de' poeti, il nostro Autore si apre qui il campo
53 a NOTE AL CANTO SECOJfDO
a celebrare la casa Braschi^ e principalmeDte Don Laigi, nipote della
Santità di Pio VI e daca di Nemij presso il quale egli trovavasi in
qualità di segretario, alloraquando intraprese la Feroniade, Alcuni Tersi
alludono subito alle cacce^ di cui grandemente si dilettava quel prin*
cipe.
Pag. 478.
>a Callimaco nell'Inno a Diana (v. i5) fa che questa Dea ancor
bambina e sedente sulle ginocchia di Giove suo padre lo richiegga
d'alcuni doni; e fra gli altri, di questo: Da etiam ministrasi viziati
Njrmphttt Amnisidas^ qiuc mihi f enatica calceamenla, et^ cum fyncas cer-
i*osque tenari desiero^ ueloces canes recte curent. Egli poi torna nell'Inno
medesimo (v. 16:») a far menzione di queste Ninfe, rammentate anche
da Apollonio Rodio {Arg, lib. Ili, v. %i'x, e t. 877) che le fa abitare
presso la sorgente àùWAmnisioy fiume in cui era solita bagnarsi Dia-
na, come nel Partenio. Si consultino gli eruditi Spanhemio e Flan-
gini, il primo nelle Osservazioni a Callimaco, l'altro in quelle ad
Apollonio (1. e).
Ivi.
»3 V. Omero, Odissea, lib. VI, v. loa.
Ivi.
>4 Diana sopra un carro di questa forma, tirato dai cervi, è rappre-
sentata in una medaglia di bronzo dell' imperator Valeriano, del Mu-
seo di Parigi, pubblicata dallo Spanhemio (Obseru^ ad Callimach. £(rmn,
in Dian.j v. 106). — Ciò che il poeta dice del pascolo delle cerve è
tolto da Callimaco {Hrnui, in Dianam, v. 162): Tibi uero Amnisiades
quidem a jugo soluUu stringunt cervas, illisque plurimum pabuli Juno*
nis e prato demetsi /èrunt, velox nata trifolium, quo et Jot^is equi pa*
scuntur.
Pac. 479.
■^ placaibìUs ani Diance.
ViBG. ^n. VII, 764.
Della trasmigrazione di Oreste e di Ifigenia nel territorio Nemo-
rense, e del culto di Diana da essi ivi portato , si è già fatto parola
nelle Annotazioni al Canto l. Qui poi, ad imitazione di Virgilio, Z>ik-
na Nemorense 0 Aricina, è detta placabile, perchè ad ossa non veni*
vano sacrificati, come nella Taurìde, tutti indistintamente gli stranieri
che la loro mala sorte avesse colà fatti capitare. Benché né pur ivi il
culto di lei fosse al tutto poro di umano sangue. Che alloraquando uno
schiavo fuggito dal suo padrone giungeva in que' luoghi, veniva messo
a duello col capo de' sacerdoti, e, se riusciva vincitore coli' ucciderlo,
occupava egli quel posto, finché per eguale maniera non gli venisse
tol^o da un altro. Perciò scrive Strabone nel libro V, che il sacer-
dote di Diana Nemorense tiene sempre imbrandito il pugnale, temendo
di chi lo assalti, e pronto a rispondere. Pausania nel libro II (cap. 37 ,
§ 4 ) ^<^ menzione di una tale costumanza come di cosa ancor sussi»
stente a' suoi tempi. E Valerio Fiacco nel secondo della sua Argonau"^
tica (v. 3o3) sì rivolge colle seguenti parole a Diana:
DELLA FERONUDE 533
mora nec terrìs tibi kmga cmenlis,
Jan» nemns egeria, jam te ciet ahos ab Alba
Jupiter, et aoli non mitis Arida regi.
Nel qual pasto regi signiBca al capo de' sacerdoti j e soli non mitis
regi riguarda la circostanxa dell' essere quel meschino in continuo pe-
ricolo che qualche fuggitivo servo sopravrenendo, non potesse render-
gli il contraccambio di quanto egli aveva fatto al suo antecessore , e
legalmente trucidarlo s'egli non sapesse difendersi.
Pac. 479.
*^ Dabtnm ptiu an sceleratus, Orestcs, ec.
OriD. Tnst. IV j EI. IT, 69.
Il giudizio se Oreste dovesse condannarsi o no pel matricidio da lui
commesso in vendetta del padre^ fu dagli Dei con6dato all'Areopago
di Atene ; ed il reo venule assoluto pel voto di Minerva. (Vedi Eschilo
nella Tragedia che ha per titolo le Eumenidi.)
Ivi.
17 Vedi di sopra la nota ai versi; ed essa La placabile Diwaj ec», ed
il yetus Latium, lib. I^ cap. 37 (Tom. I , pag. 385). — Ignipotente è
il nome che Virgilio dà più volte a Vulcano.
Ivi.
*' Ippolito^ avendo rifiutato di acconsentire alle ree brame della sua
matrigna Fedra, fu da lei accusato al marito di quella colpa mede-
sima, alla quale essa aveva tentato d' indurlo: me, quod uolult, Jinxit
woluisscj dice egli di sé stesso in Ovidio {Met. lib. XV, v. 5oo). Quindi
per le imprecazioni del troppo credulo genitore, venne calpestato dai
proprìi cavalli, spaventati da un mostro spinto loro incontro sul lido
del mare da Nettuno. Tutta questa favola forma il soggetto di una
delle più belle tragedie di Euripide. Ovidio poi nelle Metamorfosi
(/. e.) narra non solo il miserando caso d'Ippolito, ma ancora com'e-
gli venisse da Esculapio richiamato a vita , e trasmutato in Virbio ;
cosa già toccata da Virgilio^ come abbiamo detto nelle Annotazioni al
Canto primo.
Ivi.
19 Euripide» e dietro lui Ovidio^ fanno spaventare i cavalli d'Ippo-
lito da un toro. Il nostro poeta a questo animale terrestre ha sosti-
tuita una Jòca^ coli' autorità di Servio {ad Virg, ÀEn, VI^ v. 44^) > ^
già le foche sono i buoi del mare, siccome lo stesso Servio scrive a
quei versi del quarto delle Georgiche : Quippe ita Neptuno visum est,
immania cujus Armenia et turpes pascit sub gurgite phocat.
Ivi.
ao Allude a que' versi che Euripide fa pronunciare a Diana in fine
àeìV Ippolito :
A compensarti
Di quanto or soffiri, o giovine infelice,
A te poacia in Tretene incliti onori
AiMgnerò. Le gioTinctte figlie
Pria delle noBM a te recìderanno
MoKTi. Poemetti, 54
£^4 HOTE AL CASTO SEC09D0
Le langhe chiome, e ti
Di Ugrane tributo, e deOe vopiai
Le pidoie camooi qgnar derole
Sanano a le. (Tndnt. del BeflottL)
(Vedi Paasania, lib. Il, cap. ^i, § i.)
Pac. 48o.
» Tito Livio, lib. l, cap. 31 (e Tedi anche Oridio, AfeC lib. XV,
T. 48a e segg.), parìa dello speco iledicato da Manu alle Uose, e de'
congressi eh* ei fingeva di avere colà dentro colla niola Egeria , da coi
diceva di ricevere le leggi che imponeva ai Romani. Anche molti altri
scrittori latini fanno menzione di questo speco.
Ivi.
»* Pitagora. Una popolare credenza faceva questo filosofo maestro
di Numa, benché, come osserva Tito Livio (lib. I, cap. 18), egli sia
fiorito più di cento anni dopo, regnando Servio Tallio. Fondò quella
setta di filosofi che dicesi italica ; ebbe scuola in Crotone città delU
Magna Grecia, ed insegnava la metempsicosi , cioè la trasmigrazione
delle anime, confermandola coj proprio esempio; giacché diceva, che
la sua anima era stata prima in Euforbo figlio di Panto ucciso da Me-
nelao (//. XVII, V. 43 e segg.), poi era passata in Ermotimo, poi in
Pirro, e finalmente in loi. Luciano mette in ridicolo questa dottrina
nel Dialogo che ha per titolo // Sogno ossia // GaìXo. I discepoli di
Pitagora erano obbligati ad alcuni anni dì rigoroso silenzio; il perchè
dal poeta è dato l'aggiunto di muu alle scuole di Crotone.
Ivi.
*3 Accenna vari miglioramenti fatti dal duca Braschi nelle sue te-
nute Nemorensi, e principalmente la piantagione di alcuni oliveti in
luoghi prima incolti e pieni di serpi.
Pag. 48 1.
34 II duca suddetto.
Ivi.
'^ Deus nobis face olia fecit :
Namque erìt ille mihi semper Deus, ec.
ViBG. Ecl. l. 6-7.
Ivi.
»6 Donna Costanza Falconieri, moglie del Duca Braschi, alla quale
uuo dopo V altro erano morti tre figli appena nati, di che era dolcn-
tissimo Pio VI.
Pag. 483.
•7 Le Parche si fanno incoronate di narciso, perchè questo fiore
sparge un odore narcotico che intorpidisce i nervi, é però è dedicato
alla Morte, di cui è fratello il Sonno. 11 signor Lemaire ne'Comenti
ad Ovidio {MeL lib. IH, v. Sog) lo dice sacro alle Divinità infernali
per essere fiore di corta vita, che appena spunta e già cade, né pro-
duce alcun fruito. Ma questa qualità non è cosi propria del narciso,
che non convenga, ed assai più, anche a moltissimi altri fiori conse-
crali agli altri Dei. Lasciato questo in disparte, osserveremo che Pamr
DELLA FEROIflADB 535
fo, citalo da Pausania (lib. IX, cap. Si, § 5), e T autore dell' Inno a
Cerere attribuito ad Omero (v. 5)^ dicono che quando Plutone rapi
Proserpi na, ella stara cogliendo un narcis^ di mararigliosa bellezza.
Nonno nel XV delle Dionisiache (t. 3i) fa che Ino , vicino ad essere
ucciso, domandi per grazia che il narciso venga piantato sul suo se*
pelerò.- Da vero mihi ultimam gratiam: super tumulo Jlores Narcìssi
ab Amore percussi crescant. E Sofocle fa dire al Coro nell* Edipo a
Colono :
Ofetx» di bei corimbi in questo loco
11 Solcate Duciso,
Ghirlanda delle due gnu Dive antica
Tuttodì si nutrica
Di celeste rugiada, e l'aureo croco.
(Trad. del BelloUi.)
Le due gran Dive sono Cerere e Proserpina; e la strada seminata
di narcisi è quella che conduce al bosco delle Eumenidi.
Pag. 483.
*< Omero nel decim' ottavo dell' Iliade (v. 470) mette venti man-
tici a soffiare nella fornace di Vulcano, quand' egli si fa a fabbricare
le armi di Achille. Callimaco nell' Inno a Diana, e Virgilio nell' ot-
tavo deir Eneide, descrivendo anch' essi con ogni bellezza di poesia le
fucine di Vulcano, non determinano il numero de' mantici.
Pag. 483.
*9 Bronte era il più gentile de' Ciclopi. Latona posò sulle sue gi-
nocchia Diana ancor bambina di tre soli anni ; e questa, avendo dato
di piglio ad una ciocca de' peli del suo petto, gliela strappò di tutta
forza. Leggasi intorno a ciò Callimaco, Hjrmn. in Dian, v. 72.
Ivi.
^ Il cassitéro, o sia lo stagno j era in gran pregio presso gli anti-
chi Greci, e basta vedere come Omero lo faccia entrare nelle più belle
armature degli eroi.
Ivi.
3i Veggansi tutti questi vituperi! di Giove rapidamente dipinti da
Ovidio nel sesto delle Metamorfosi sulla tela di Aracne, v. io3-ii4-
Pag. 484*
3> Vulcano è rappresentato in atto quasi conforme da Apollonio
Rodio (Arg. lib. IV, Vr 956), allorché sta osservando il passaggio de'
Minii fra le rupi cianèe.
Questo a mirar ddlo spianato sasso
In su la vetta il re Vulcan medesmo
Stava in pi^ ritto, la pesante spaUa
Sovra il nuuiubrìo del martel poggiando.
Ivi.
33 Vedi quello che il cicco Demodoco canta alla tavola de' Proci in
Omero, Odjrss. lib. Vili, v. 366-366.
Ivi.
34 V. Iliade j lib. XXI, v. 343 e segg.
536 NOTE AL CANTO SECONDO
Pag. 484.
35 V. IliatUj lib. I, V. 5go e segg.; e lib. XVIII ▼. 397 esegg. At-
verUsi però che nel primo de' passi qui citati. Omero dice che Valcano
Tenne da Giore scagliato fuori del cielo per aver voluto dar soccorso
a Giunone, e chVgli seguitò a cadere per un intero giorno, sul fine
del quale fu raccolto dai Sintii abitatori di Lenno ; ma nel secondo lo
fa gettare per volere di Giunone medesima , a cui non piaceva d' a-
vere un figlio zoppo, ed in questa occasione racconta eh' ei fu rac-
colto da Eurìnome e da Teti. Il nostro poeta ha conciliati questi due
luoghi, e formata un' azion' sola del getto di Vulcano fatto da
Giove per ira che questo auo figlio stésse dalla parte della madre, e
dell'opera pietosa a lui prestata dalle due oceanine. — Eurìnome
ebbe tempio e sagrificii in Arcadia presso lU città di Figalia al con-
fluente dei fiumi Neda e Limace (Pausania^ib. Vili, cap. l^\, § 4)< D>
TetùUj madre di Achille, non è d' uopo di far parole.
Pag. 486.
36 Questa circostanza del lavare che fa Iride colla rugiada il corpo
di Giunone, alloracbè essa esce dell'inferno, è tolta da Ovidio^ Afd.
lib. IV, v. 478.
Lcta redit Jano, quam ctrlam intrare panntem
Roratii lustrarit aquis Thaumantias Iris.
Anche Dante, uscito dell' inferno, fa che Virgilio gli deterga colla ru-
giada del purgatorio le guance lagrimose (Purg. C. I, v. lai e segg.).
Pag. 487.
37 Della fonte Caronia (di cui fa cenno Plinio nel lib. II, cap. 9^)
cosi parla il p. Kircher nel suo Vetus et nouum Latium, lib. I, cap. 7.
i€ Non lontano (da Terracina) vedevasi il fonte Caronio, dal cui vele-
noso alito venivano uccisi gli uomini e gli animali, il quale però chiuso
da' posteri e riempito di sassi, cessò d'infierire ».
Pao. 488.
38 Dello staccamento della SiciHa dal rimanente della nostra peni-
sola fanno menzione Plinio (lib. II, cap. 89), Diodoro Siculo (lib. IV,
cap. 87), Pomponio Mela (lib. Il, cap. 7), Giustino (lib. IV, cap. I),
Lucano (lib. II, v. 435 e segg.) ec. Virgilio nel terzo dell'Eneide
(v. 4^4 ^ B^SS*) '^ descrive mirabilmente cosi:
HiBc loca TÌ quondam, et vasta oonviika mina,
(Tantam vri loogìnqua valet mutare vetustasl)
DissiluìiM ferunt, quum proUnus utnqne tellus
Una ibret ; Tenit medio vi pontns, et undit
Heiperìum Siculo latus abacidìt, anraque et urbe»
LiUwe diductas angusto interluit astn.
Pag. 4B9>
39 V. Omero Iliade^ lib. XX, v. 57 e segg.
Ivi.
40 Mugilh^ città sui monti Lepini fira Sezze e Cora. — Ecetra, sugli
stessi monti, non lontana da Gora. — jirUna vicina ad Ecetra. In-
DELLA FBROHIADB 537
torno a queste tre città veggasi il Corradini nel f^etut Laliwn^ lib. Il,
cap. 16.
Norba sorgeva a poca distanza dal paese ch'ora per corrazione è
detto Norma, tra i fiami Astara e Ninfeo, sni monti che guardano la
palude Pontina* Il Volpi , continuatore del Corradini , dice (lib. V ,
cap. I) che gli abitanti di Norba, affidati ad una incerta tradizione ,
riguardavano Ercole qual fondatore della loro città ; ma che quanto
può con sicurezza aflfermarsi si è, eh' essa sia stata fabbricata o dagli
Aborigeni, o dai Pelasgi, o da tal altro di que^ popoli che primi abi-
tarono il Lazio. I Norbani, divenuti col tempo colonia romana, si se-
gnalarono colla loro fedeltà, singolarmente allorachè, dopo la famosa
rotta di Canne, parve che la Fortuna avesse volte le spalle alle aquile
latine. Che mentre molte città negavano di venire in soccorso della
repubblica, i Norbani, con qualche altra colonia, offersero sé ed ogni
cosa propria in difesa di lei ; onde furono dal Senato ringraziati. Nelle
discordie poi di Mario e di Siila essi parteggiarono per Mario che ,
quantunque meno fortunato, sembrava tenere la causa più onesta. E
diedero un bello esempio di generosità e di fortezza quando, caduti
per tradimento nelle mani di Emilio Lepido , duce Sillano , vollero
piuttosto (secondo narra Appiano Alessandrino nel primo delle Guerre
disili) darsi volontariamente la morte ed incendiare le loro case, che
venire in podestà di quelV oppressore di Roma.
Di Cora scrisse il citato Volpi in un libro intitolato : Antiche me-
morie appoì'tenenti alla città di Cora (Roma, I73a, in-4*^), e ne favella
ampiamente eziandio nel Fetus Latium, lib. Vili, cap. i; e noi ab-
biamo già detta alcuna cosa del nome di questa città nelle Annota-
zioni al Canto I. Qui vuoisi aggiungere che Dionisio d' Alicarnasflo
(AnL Bom. lib. I), Plinio {Hist Nat. lib. Ili, cap. 5), Solino {Pol^hùt.
cap. a). Marziano Capella (De Nupt. PhiloL lib. VI) le assegnano per
primo fondatore Dardano Troiano. Ma veggasi quello che ne dice il
Cluverio nelP Italia antiqua^ lib. Ili, cap. Vili, ove parla delle Terre
de* Volsci.
Tra gli edificii di Cora, de' quali ragiona il Volpi, vi avea un ma-
gnifico tempio dedicato a Castore e Polluce. Altri ve n' erano sacri
ad Ercole e a Bacco ; e finalmente da certi monumentisi può dedurre
che uno pure ve ne fosse in onore di Giano , cui gli antichi Italiani
invocavano col nome di padre (V. Virg. i£/i. lib. Vili, v» SSy; Au-
relio Vittore, Orig, G. 77. cap. Ili; ec.) e sotto il cui regno, scrive Ma-
crobio (Saturn. lib. I, cap. 9), tutte le case furono munite di religione
e di santità, onde gli vennero decretali onori divini.
NOTE AL CANTO TERZO
DELLA FER0NL4DE
Pag* 49 ■•
1 V. Omero, lUade lib. Vili, ▼. 438 e segg.
In.
> Le Ore, che in Omero sono portinaie del Cielo {IL lib. V, v. 749
e lib. VIII, y. SgS), ed hanno in cura i cavalli di Giunone (lib. Vili,
y. 433), da Ovidio nono fatte ancelle dei Sole, a cui apparecchiano il
cocchio ed i cavalli :
Jungere c^os Titan Telodbus imperai Horis,
Jossa DcK cekres {leraguuL
MtL lib. II, 118.
Ivi.
3 Anche Virgilio fa che gli altri Dei accompagnino Giove, allorachè
questi discioglie il loro concilio e toma alle proprie stanze :
.... Solio (om Jupiter aureo
Surgit, CoeUcohe medium qocm ad limioa dncunt
ì£m. X, 116.
Ivi.
^ Questa facoltà di aprirsi per sé medesime è attribuita da Omero
alle porte del cielo, nell'Iliade, lib. V, v. 749» e lib. Vili, v. 393.
Pag. 49^*
5 Plinio, Varrone, Strabene ed altri scrittori antichi fanno men-
zione delle paludi Pontine, ma non ne parlano con tal precisione da
togliere il campo a fortissime contestazioni fra gli eruditi moderni
intorno alla loro origine ed ingrandimento. Lo Spedalieri però, il
quale sostiene che fino alla Censura di Appio Claudio non abbia esi-
stito che una piccola palude presso a Terracina, è d'opinione che il
dilagamento di essa sopra uno spazio maggiore di terreno sia avve-
nuto in quell'intervallo di tempo che passò fra la Censura di Appio
ed il Consolato di Cornelio Cetego, intervallo di cento quarantanni in
circa. E lo attribuisce alla trascuranza nel riparare le rive e gli sboc-
chi dei quattro grossi fiumi dell'agro Pontino, Aaiura^ Ninf^Oj Ufente
ed Anuuenoj i quali, rompendo gli argini, od impediti di scaricarsi
nel mare, allagarono la campagna, e conversero in una vasta e pesti-
lente laguna quel territorio per lo innanzi bellissimo e fertilissimo,
cui i Volsci avevano sempre mantenuto in fiore finché non furono
NOTE AL CANTO TERZO DELLA PERONI ADE SSq
annientati dalla potenza de' Romani. Vedasi ciò che scrive quell'uomo
celebre nell'opera del Nicolai (lib. 1, cap. i3> pag. 56 e segg. e cap.
^^f P^S* 74'7^)> e B^ confronti con quello che dicono gli autori del
yelus Latium* Noi, non osando di farci giudici in questa gran lite di
congetture, diremo che il poeta , riferendo ad una remotissima sta-
gione l' origine delle Pontine, ed attribuendola al concorso delle inon-
dazioni e dei terremoti, ha messo in azione quanto il famoso p. Ata-
nasio Kircher aveva eruditamente fantasticato nel lib. IV^ cap. i, del
suo yettu et noi^u/n Latium.
Pao. 49^'
6 11 poeta si è giovato d' una sablime immagine di Milton , in fine
del libro secondo del Paradùo perduto, ove Satanno all'uscire del-
l' inferno vede
L' ein[»reo cielo in circuito A* ampia
E non detenniMU estennona
(Sua gi2i nativa lade), e quivi presso
Da una catona d' ór pendente questo
Sospeso mondo.
(Trad. del Rolli.)
Ambidne poi i poeti ebbero cotale immagine da Omero (//.lib. Vili,
V. 19 del testo)^ quand'egli fa dire a Giove:
Alla vetta ddl' immoto Olimpo
Annoderò la gran catena, ed alto
Tutte da quella penderan le cose.
Ed in questa catena omerica Platone, sul principio del Teeteto, cre-
deva indicato il sole ; perocché Jintanio che il giro del sole durerà ^
suuisterttnno ed avranno vita tutte le cose j si degli Dei che degli uo»
mini: ma se (questo in certa maniera dovesse stare legalo ^ sciorrebbesi
tosto ogni cosa, e il tutto andrebbe, come suol dirsi, sossopra. Qualche
Newtoniano poi potrebbe più acconciamente con Pope vedervi simbo-
leggiato il gran sistema delle due forze centripeta e centrifuga; sistema
che non potrà essere disciolto, che da Quello che volle un tempo or-
dinarlo.
Pag. 493.
7 Saturno, geloso del proprio figlio, e non ostante che a lui fosse
debitore dell'impero del Cielo, toltogli da' Titani, e ricuperatogli dal
valore di Giove, gli tese insidie , le quali furono cagione che questi
sdegnato lo privasse per sempre del regno , e lo costringesse a cer*
carsi un asilo nel Lazio. Veggansi gli scrittori di mitologia.
Ivi.
A Intorno agli oracoli che Apollo dava neljl'àntro di Cuma per mezzo
di nna vecchia sacerdotessa, detta dal luogo la Sibilla Cumeaj si legga
Virgilio nel libro terzo dell' Eneide v. 44 < ^ *^?S' » ^^ ^^ principio
del libro sesto.
Ivi.
9 In questi versi il poeta ha chiaramente in vista quella similitu-
dine del quarto dell'Eneide, v. i43 e segg.:
54o NOTE AL CAUTO TBRZO
Qudis, ulù hibflnam Lydam Xantique flneaU
Deserit, ae Delam materaan iaviait Apollo,
lastavaiqiae diora, mixtiqne akarà drcoBi
CretesqiM Drjopeaqiie fremont pictiqne Agatlijni, ec.
Gli Jgatirsi erano popoli della Scizia , che adorayano Apollo Iper-
boreo. Dì essi scrìve Pomponio Mela (lib. II, cap. i): Dipingono il
voUo e le membra; e pia e meno, eecondo la condizione di eieueheeUtno:
del resto tutti cogli stessi segni ^ e per modo che Immndoli non vanno
via. Servio, al luogo di Virgilio sopraccitato, non è di parere che gli.
Agatirsi si dicano dipinti per farsi cotali segni, ma per avere la capel-
latura d^nn bel colore ceraleo. Ad illnstrazione poi di quanto di-
cesi degli ecahi sacerdoti del Soraite (monte ch'ora chiamasi di & One-
ste, ed anche di S, Sih^estro, dallo stare nascosto che qaesto santo
fece nelle sue caverne), gioverà riferire quanto scrìve Plinio (HisL Nat»
lib. VII, cap. 2): Poco lontano da Roma nel territorio de' Polisci hamn
alcune Jamìglie, le quali chiamanà Irpie , che neW annuo eaenfhùo
che fossi ad dpollo presto il monte Soratte, camminano, sensa bruciar'
sij sopro un mucchio di legna ridotta in brage» E perciò ottennero per
decreto del Senato eT essere perpetuamente esenti dalla milizia e da tutti
gli altri carichi. Solino rìpete le stesse cose di Plinio; senonchè dove
questi ha super ambusVam Ugni struem, egli scrive impune inMultanl
ardentibus lignorum struibue, Virgilio poi fa dire ad Aronte Dell'atto
che sta per iscagliare l' asta contro di CamUla (JESn. lib. XI, v. 785) :
Somme Deùm, aneti cnstos Soractis Apotto,
Qunn primi colimns, coi ptoeus ardor aoenro
Paarìtur ; et medinm fireti pietale per ignem
Cnltores nmlta premimiu vestigia prona, ec
Ed A. Caro così interpreta liberamente gli ultimi due versi :
per coi nudi e scalai
Tra le fiamme saltando e per le brage
Securamente e sema ofièaa andiamo.
Pao. 494.
10 Veggasi quello che già si è detto di Diana Nemorense nelle An-
notazioni ai Canti aùtecedenti.
Ivi.
■ I Apollo aveva un famoso tempio in Pataro città della Licia, provin-
cia dell' Asia Minore, ove gli oracoli erano dati per messo delle sor-
ti, e però si chiamavano Lyciig Sortes (V. Virgilio, JEn, lib. IV, v. 34^»
e Pomponio Mela, lib. I, cap. i5). Fra i Latini poi era celebeirimo
il tempio della Fortuna in Preneste, a cagione delle Sorti, le quali
erano state ritrovate in mezzo d'una pietra. Cicerone racconta il modo
della scoperta nel lib. lì de Divinatione, cap. 4^ • ^ ^^^^ <^^ '^ tem-
pio prenestino della Fortuna era ancor fiorente al suo tempo: Fani
pulchritudo et vetustas Pranestinarum etiam nunc retinet Sortium no-
mea. Coleste Sorti si cavavano da un fanciullo fuori d' un' arca fatta
col legno d' un olivo, che aveva stillato prodigiosamente olio , e ere-
DELLA PBROniADB 54 I
derasi dt rìcererle dalle mani steue della Fortam. Essa era ivi rap-
presenUta sedente, e tenendosi in grembo Giove e Giunone lattanti.
Cicerone medesimo {Ib» cap. 33) ne fa sapere ciò che propriamente si
dee intendere per Sorti: — Sortes emy ^um ducuntur, non iUa, qwM
tmticinatione Jimduntur^ qua Oracula f^riut dicimus.
I boschi di Laurento erano famosi per gli oracoli di Fanno, i quali
reniyano pronunciati da* sacerdoti in versi Satumii ( V. il Corradini
nel f^etus Latium^ lib. 1, cap. ^i, T. I, pag. 3ia • segg.). In quel ter-
ritorio eravi pure un bosco di allori consacrato ad Apollo, ove Enea,
al suo arrivo in Italia, dedicò due altari , memore dell' oracolo che
gli aveva predetto eh' ivi sarebbe stata la fine delle sue peregrina-
zioni. Veggasi il suddetto Corradini, lib. I, cap. 19.
Pag. 494*
■> Del culto di Venere in Anzio, e del tempio ivi a lei dedicato, si
è parlato nelle Annotazioni al Canio I.
Ivi.
>3 Tarpejiisi|iM pster nuda de nqpe tonabat,
si legge in Properzio (lib. IV, El. i, v. 7); ed in Lucano {Phars, lib. I,
v. 1^5-196):
O magiuB qui mmia pro^sids orbù
Tarpeja de n^ tonfts, ec.
Giove Tarpeio fu poi detto Capitolino^ e veniva sempre rappresen*
tato coi fulmini, perchè credevasi che da quella rupe prorompessero
i folgori e le tempeste (V. Kvinoel ne'Comenti a Properzio, t c,)i il
che maravigliosamente è dipinto da Virgilio nel discorso che fa te-
nere da Evandro nel mostrare ad Enea il Campidoglio. — Capitolia»,.
aurea nunc^ olim iiluestribus korrida dumii, —
Hoc nemus, hnnc, inquit , frondo&o veitice collein,
Quis Deus, inoertum est, halùtai Deus : Arcades ipram
Cxedunt w vidisae Jovem, quum «epe nigrantam
£gida concutoret dextra BÌmLoique àeret.
JEh. yill, 35i.
Presso Giovenale un impostore, per sostenere la propria frode, per
Solis j'odios, Tarpejaque fidnùna jurat (Sat. XIII, v. 78).
Ivi.
■4 II tempio d'Apollo in Cuma; intorno a cui veggasi Virgilio in
principio del sesto deU' Eneide.
Ivi.
'^ Veoiety'^mtrìs labentibus, vtas
Qoum domus Assaraci Phthiam claiasque Mycenas
Senritio premet, ac viotis dominabitur Ar|[ts.
Cosi Virgilio fa dire a Giove nel primo dell'Eneide (v. a83).
Ivi.
'^ Qnam Juoo iSntui teiris magù omnflnis anam
PoslhalnU coluisse Somo: hic iUius arma,
Hic corms (uit.
ViKG. JEn. I, l5.
5^1 NOTE AL CINTO TERZO
11 Vùconli, nel Museo Pio CUmentino ( T.- V, Tst. XLIV e XLV ),
ynole che t Tersi di Virgilio lopraccitatl ali odano a que' cocchi con-
secrati o toUtì, che, sovente di bronxo» soyente ancora di marmo, si
dedicavano ne' tempii della gentili t2i. Oltre i cocchi solevano conse-
crarsi ne* tempii anche certe armatore. Ed t Sabini adoravano Giu-
none Curiie^ cioè jistaia» Qoesta Dea viene invocata nel modo se-
goente in on frammento di preghiera usata nelle cerimonie Tiburti*
ne, conservateci da Servio {j4d Mn, 1. e): /imo curuUsy tuo curru
cljrpeoque tuere meos curÙB éfemulas sane.
Pac. 494.
<7 Quin aspeni Jano,
Qme mtre none temsque melo aàamtjae fiitigat,
Consilia in mdUni referet, mecnmqae torAit
Roinanos remm dominof, genteBMjne togaUin.
Ymo. Mt. l, 279.
Ivi.
>B Gionone Lanuuina (cosi chiamata da lanuvio cittli e municipio
del Lasio dov' ella era particolarmente venerata), la quale è detta an-
che Sospita o Sispita^ cioè Sah^trice , viene rappresentata in diverse
medaglie, ed in una statoa del Museo Pio dementino (descritta ed il-
lustrata nel Tomo II, Tav. XXI, colla sua meravigliosa erudizione, da
Ennio Quirino Visconti) colla testa coperta da una pelle di capra, le
cui zampe davanti le si allacciano sul petto, ed il rimanente diacende
in tomo al busto fìno ad essere legato sui fianchi da una larga cintura.
Cosi la descrive anche Cicerone {De NaL Deor, lib. I, cap. 39): lUam no*
stram Sospitam^ quam tu nunquam ne in somnis quidem uides nisi cum
pelle caprina, cum hasta, cum scutulo, cum calceolis repandis, E notisi
quel chiamare nostram la Giunone Sospita ^ perch* ella era Divinità
tutta latina, ed onorata con sagrifizii dai consoli romani.
Pag. 495.
■9 Giove medesimo, nel decìmoqulnto dell'Iliade (v. 17 e segg.), si
vanta d' aver cosi un tempo punita Giunone. E il Correggio nel Ho*
nìstero di S. Paolo in Parma dipinse a fresco Giunone ignuda spen*
zolata dal cielo colle incudini ai piedi, nel modo ch'essa è descritta
da Omero , su di che possono leggersi un opuscolo del P. Ireneo Aflo
intorno alle pitture del Correggio sussistenti in quel Monastero , e la
Storia Pittorica dell' ab. Lanzi (Tomo III, pag. 895, cdiz. milanese delia
Soc. tipogr. de' Gassici Italiani).
Ivi.
»o V. Omero^ Odissea, lib. V, v. iì, e lib. XXIV in principio. Vir-
gilio, Eneide j lib. IV, v. a38.
Ivi.
>| Questo cambio e descritto nell'Inno a Mercurio^ fra quelli at-
tribuiti ad Omero, v. 4?^ ^ s^gg* Vedasi anche Servio nel comento
al V. 34^ àaì lib. IV dell'Eneide. Apollo è detto da Orazio (lib. I ,
Od. XXI, V. Il)
Iiuigncmquc pharotra
Fralemaque humrrum lyra.
DELLA FERONIÀDB 5f\i
Pàc. 49S.
» Flegréi si chiamarono alcuni campi della Campania , ov' era il
Foro di Vulcano, presso Pozzuoli e la palude Acherusia; de* quali fan-
no menzione Plinio (Hist, Nat. lib. Ili, cap. 5), Silio Italico (lib. Vili,
y. 540, e lib. XII, t. i43)> Strabone (lib. V e VI). L'abbondare dello
zolfo e del fuoco in questi campi si é poi la cagione per cui i poeti
collocano in essi il teatro della pugna de' Giganti cogli Dei. Onde
Properzio (lib. I, El. XX, ▼. 9), parlando dei contomi di Cuma, cosi
si esprìme : Siue Gigtmtea spatiahere Utoris ora. Silio chìamsk-phlegrcBus
uertex (lib. Vili, y. 607) la fiamma eh' esce dalla cima del Vesuvio.
Flegra però, il famoso campo doye Gioye sconfisse i Titani , è nella
Macedonia.
Pag. 49^*
>3 n Redi nel Ditirambo chiamò questo yino ti sangue, che lacrima
il VesHi'ìo j ed a questo passo fa la seguente annotazione : Parla di
f/uei vini rossi di Napoli j che son chiamati Lacrime j tra le quali tti'
matissime son quelle di Somma e di Galitte, ec.
Ivi.
s4 Nirobonun in patriam loca Torta fiirentibot Aiistrù,
^olìam vcnit, ec.
ViBO. jEn. 1, 5r.
Ivi.
3^ V. lìiades lib. XXllI, y. 194 e segg.
Pio. 497.
*(> \ f^entij secondo Esiodo nella Teogonia, sono generati dal gigante
Astreo e dall'Aurora. Quindi anche Ovidio (Met, lib. XIV, y. 545):
Aeraqne, «t tmniduni subitii ooncunibttf aequor
Astrm torivint, et eunt in pnelia, fratres.
Ivi.
*7 ... Sigea igni freta lata relncent.
ViBO. jEn. II, 3 12.
Ivi.
>8 Cuna Fides leggesi in Virgilio {jEn, lib. I, y. 39^), ove cosi co-
menta Servio: Canam Fidem dixit^ vel quod in canis hominibus invenitur:
wel quòd ei, albo panno intfoluta manu sacrificabatur, per quod ostenditur
Fidem debere esse secretam. Vnde Horatius: (lib. I, Od. XXXV, y. 21):
Te <pes, et albo rara Fides colit*
Velata panno.
Pio. 499.
-9 II poeta immagina aperto, dal cadere dell'infiammata verga lan-
ciatavi da Giunone, il famoso spiraglio d'Amsanto, da cui osala an-
cora un' arìa mefitica. Cicerone {De Diuinaiione I, 36) e Plinio {UisL
Nat. lib. II, cap. 93) fanno menzione di questo spiraglio. Virgilio così
canta di esso nel settimo dell'Eneide (v. 563):
Est locos Italia medio sub montibus altis
Nd>ilis, et fama mnltis memoratus in oris,
544 NOTE AL CANTO TERZO
Amsmrti rallet : d«nm bimc frondìbiu atmm
Ui^et ntziaqae latns nemoris, medioque fir^goius
Dat looitMin axU et torto Tertàoe ianan,
Hk ipecas honvndnm, nori ^liracnk Ditis,
Moostntur, niptoqua ingeos A«^eroate ron^
Pestiieru aperit &aoei.
Pao. 5oo.
3o Qui il lettore si 6guri di vedere PEbe divinamente scolpiU dal
Fidia di Pouagoo; e vegga poi anche quello che dice Omero {Iliade^
lib. IV, V. a).
Ivi.
3i Che il gabinetto dove Giunone soleva fare la sua (oi7«tt« fosse reso
inaccessibile da arcane chiavi, lo dice anche Omero nell' Iliade, lib.
XIV, V. 166 e segg. — Jra tutelare della beltaUy chiamò la toilette il
Parini nel Mezzogiorno,
Ivi.
3> Gli specchi degli antichi erano ordinariamente d' oro, d'argento,
di bronzo, di stagno, o di tali altri metalli. Ma ve n* ebbe pure di
quelli di vetro; ed è Plinio che lo racconta nel libro trentesimo se-
sto, cap. ' a6, della sua Storia, ove parla di varie specie di lavori fatti
con questa materia. Ecco le sue parole tradotte i Abro (de' vetri) fi-
gurasi colJiatOj altro latH)rasi col tornoj tdtro intagliasi a maniera del-
l' argento in Sidone j celebre un tempo per queste officine ^ an^ifegnachè
uijurono perfino intentati degli specchi. Si consulti una eruditissima os-
servazione dello Spanhemio al v. aa di Callimaco Li Pallad.
Ivi.
33 V. Iliade^ lib. XIV, v. 173.
Pag. 5o3.
34 Lo starsi assiso sul limitare della casa ospitale era proprio de*
supplichevoli, o degli infelici profondamente oppressi dalla disgrazia.
In questa situazione è rappresentata Cerere dall'autore dell' Inno at-
tribuito ad Omero. Ed Ulisse, rientrato nelle sue case sotto le sem-
bianze di un mendico, siede nel vestibolo ; e quivi avviene il famoso
combattimento tra lui ed il pezzente Irò. V. l'Odissea, lib. XVIII, in pr.
Ivi.
33 Quest' è la bevanda domandata da Cerere a Metanira (come si
ha nell' Inno citato nella nota antecedente) dopo ch'ella ebbe ^rifiutato
Di dolduimo viii oolma una tana.
dicmido, non per lei
11 rubicondo Tino esser beranda.
(Trad. di Luigi LamberU).
Ivi pure è detto che la Dea ebbe cotesta mistura in conto di sacra
libagione,
Pac. 5o5.
36 Perciò Omero chiama il Sonno re di tutti gli Dei e di UUti ^i
uomini (Iliad. lib. XIV, v. a33).
DELLA FERONUDE 545
Pào. 5o5.
3? Cosi Virgilio^ JEn, lib. I^ v. a54 :
Olii ftuLrideos kominum sator atque dcorum,
Voltn^ qao codum traipesUiUsijae terenat.
Oscula libarit nats.
E prima di lui Ennio :
Juppiter bk riat, tempetUtetque wreuB
Biseront omnes ma Joris omoipotentù.
Pag. 5o6.
38 II poeta tégaita l'opinione^ registrata dal Corradini nel sao Ve^
tus Latiu/ity lib. il, cap. i6 (T. 11^ pag. i3o), che Appio Claudio, so-
prannominato per la perdita della TÙta il Cieco, abbia il primo ten-
tato di restituire alla cultura il territorio pontino occupato dalla pa-
lude^ nell'occasione che, essendo Censore, concepì la grandiosa idea
di una strada che doveva condurre da Roma a Brindisi, e la spinse,
per ben i^o miglia, 6no a Capua. Il disegno di Appio fu poi con-
dotto al suo compimento in tempi posteriori; ma, se da Cesare o da
Augusto, o fors' anche da Cajo Gracco, non sanno ben dirlo gli eru-
diti. La strada però ebbe giustamente il nome da chi seppe idearla,
e condurla in breve tempo quasi alla metà; e Stazio scrive di essa
(Sjrlt^, lib. II, 11, v. 13): jéppia longarum teritur regina viarwn. L'o-
pinione che Appio sia stato il primo ad asciugare l'agro pontino, é
contraddetta dallo Spedalieri, il qaale afTerma ch'esso era ancora in-
tatto dalle acque al tempo dì quel Censore , come già si è detto in
una delle prime Note a questo Canto (V. la nota 5 di questo Canto, e
Nicolai, de' Bonificamenti, ec. lib. I, cap. i4)>
Ivi.
39 Disputano alcuni eruditi se questo Cetego sia Publio Cornelio,
che fu console con M. Bebio Tanfilo nell'anno di Roma 669, ovvero
Marco Cornelio, che nel 690 ebbe a collega L. Anicio Gallo. Il Cor-
radini però ed il Volpi, appoggiati all' autore dell' Epitome di Tito
Livio (lib. XLVI)^ credono che sia il secondo, cioè Af arco. Quello eh *é
certo , si è che verso gli anni soprannotatì , trovandosi il territorio
pontino allagato dalle acque che ne impedivano la coltivazione, un
Cornelio Cetego pensò a liberamelo, e lo liberò di fatto. Ecco le pa-
role dell' epitomatore suddetto : Pomptince paludes a Cornelio Celhego
Consule, cui ea provincia et^enerat, siccaUe, agerque ex iis Jactus est.
Ivi.
40 Le acque avevano dì nuovo impaludato il territorio pontino ai
tempi di Giulio Cesare , ed egli pensava di ricuperarlo nuovamente
alla coltura, allorché venne tolto di vita. Di ciò fanno menzione nella
Vita di Cesare Svetonio e Plutarco, Dione Cassio nel libro XLIV delle
sue Storie, Cicerone nella terza Filippica, ec. 11 Clui^rio poi(/£. ^/ii.
lib. Ili), il Kircher {VeL et tiotf. Lai, lib. IV, cap. a), il Corradini
(lib. Il, cap. 16) ed altri, a' quali consente il poeta, vogliono che Au-
gusto abbia dato effetto a questo pensiero del suo padre adottivo ,
546 NOTE AL CANTO TERZO DELLA FERONIADE
appoggiati ai versi 65-66 della Poetica di Orazio , cosi comentati dst
Acrone : probat exempUt » , » de Pomptinis pahidiòut, qua» Jugusiusex^
siccatfitj et habitabiles reddiditj injecto .... aggere lapidum et terr^.
Ma questa autorità è rigettata con forti ragioni dallo Spedalieri , il
quale adotta il parere di più altri comentatori che intendono da Ora-
zio in que' Tersi accennato Cetego. Noi, senza entrare in una contro-
versia, che nulla giova per l' intelligenia del nostro autore, rimettiamo
i lettori al libro I, cap. 17, dell'opera di Nicolai.
Pao. 5o6.
4i Ciò racconta di aver fatto Orazio nel suo viaggio da Roma a
Brindisi (lib. I, Sat V, v. a4):
On, iiuuia«|iie tua lavimus, Ferooia, Ijmpha.
Ivi.
4 a Traiano, per mettere riparo ai guasti cagionati alla Via Appia
dalle acque della palude pontina, fece eseguire alcune opere che gio-
varono eziandio ad asciugare il territorio adiacente. E lo Spedalieri
(op. cit lib. I, cap. 19) cosi si esprime : C%e co' lai^ori di lui si ricu-
perasse una parie delle campagne pontine^ è Juor àP ogni dubbio. Veg-
gasi anche il Corradini (1. e. T. II, pag. i33).
Ivi.
43 Era naturale che per le irruzioni de' Barbari, che posero a soq-
quadro ogni cosa dell' impero romano , anche i campi pontini restas-
sero nuovamente sommersi dall'acque. Però, essendo re d'Italia Teo-
derico, di nazione Ostrogoto , un illustre discendente dei Decii , per
nome Cecilio Mauro Basilio Decio (di cui altri legge i due primi nomi
cosi : Cecina Mavortio o Massimo) , si offerse a lui d'asciugare quei
terreni, e di ridonarli alla coltivazione. L' offerta venne accolta coU'o-
nore che meritava ; e 1' opera fu condotta a termine in ogni sua parte
perfettamente, siccome ne assicura V iscrizione riportata dal Corradini
e dallo Spedalieri, e che sta esposta sulla piazza di Terracina a canto
della chiesa cattedrale (V. Fetus Latium^ lib. Il, cap. 16. — Dei bo^
nificamenti ec, lib. J, cap. 30).
Pao. 607.
44 Quanto durasse il bonificamento delle terre pontine procurato da
Decio sotto gli auspicii di Teoderico, non è noto. Le acque però tor-
narouo quando che fosse a impadronirsi di que' luoghi , che mai non
poterono esseme liberati daddovero, per quanto vi rivolgessero le
loro cure Bonifacio Vili, Martino V, Eugenio IV ed i suoi successori
fino ad Alessandro VI, Leone X, Sisto V , Innocenzo XII , Clemente
XI, Clemente XIII, ec; ognuno de' quali, sia col mandare ad effetto
alcuni lavori, sia col farne soggetto di serie considerazioni , o tentò ,
o desiderò almeno di tentare la difficilissima impresa. Niuno però dei
Pontefici andò in essa più oltre di Pio VI, il quale non lasciò intatlo
alcun mezzo per ridurre a termine un' opera , in cui riponeva una
delle maggiori glorie del suo principato : intorno a che il lettore po-
trà vedere 1' opera più volte citata del Nicolai.
FRAMMENTI D'UNà VISIONE
Delineo itndiis uumum, faUoque dolorei.
Ot. IW#e. I. V, el. 7.
Ad ingannar mie cure^ a far men rea
Del mio stato la sorte ^ che diviso
Dalla luce m^ha sì ch^io mi tenea
Già disperato d^ogni suo sorriso,
Mentre cheto il pensier si raccogliea
Sul gran padre Alighieri, un improvviso
Spirto la fronte mi ferì, che attente
Fé tutte a sé le posse della mente.
Parve dapprima una soave auretta
Che di maggio fra lauri, aranci e mirti
Ai più bei fiori, alla più molle erbetta
Va depredando i ben olenti spirti.
Viva così che ne diffonde e getta
L^ odor anco fra dumi orridi ed irti \
Lieve così che bacia in sue carole,
Senza agitarlo , il capo alle viole.
Lo spiro di (juelPaura a me venia
Sì dilicato per le vie del core,
Che su le sue ferite io già sentia
Placato addormentarsi ogni dolore.
E nel gaudio che Palma mi rapia,
Tutto armici sensi un riso era d^ amore.
Quando in subita notte ed in profondo
Silenzio immerso si fé bujo il mondo.
54^ FRAiocBirn d^uha visione
» E un fracasso d'un suon pien di spavento
Incontanente di quel bujo usciva ,
9) Non altrimenti fatto che d^ un vento
Impetuoso per la vampa estiva j
9» Che fier la selva senza alcun rattento,
E ovunc[ue fiero e polveroso arriva,
Tutto schianta ed abbatte, e nulla arresta
La tremenda ira della sua tempesta.
E nondimen di mezzo alla rapina
Di quel turbo nascea tale im diletto,
Tale (portento a dirsi!) una divina
Correa dolcezza ad innondarmi il petto,
Che in me stesso dicea: Qual pellegrina
Virtù s*è questa di stupendo effetto,
Che m^ atterrisce a un tempo, e mi rincuora,
E più cresce d^orror, più mMnnamora?
Gò dissi appena
FIffB DEL VOLUME SECONDO.
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